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    Vale la pena

    di studiare i miti?

    Tra Grecia, Roma e Melanesia


    Maurizio Bettini


    UNA DOMANDA TERRIBILE

    II giorno in cui si incamminarono alla volta del celebre platano, passeggiando lungo la riva dell'Ilisso, Fedro e Socrate avviarono una conversazione destinata a far discutere per secoli i cultori del mito. Ecco come andarono le cose. Fedro si era ricordato che, proprio da quelle parti, il dio Borea aveva rapito la bella ninfa Orizia - o perlomeno, così si raccontava ad Atene. I due si scambiarono qualche battuta sul luogo (presunto) di quel rapimento - accadde qui, no, un po' più avanti... Dopo di che Fedro, alquanto bruscamente, rivolse al suo compagno la seguente domanda: eredi tu, o Socrate, che il mito (muthologéma) di Borea e Orizia sia vero (alethés)?» Una domanda terribile. Fedro, infatti, mostra di nutrire dei dubbi sulla credibilità dei racconti tradizionali, o muthologémata che circolavano ad Atene riguardo alle varie divinità e alle loro vicende, e che facevano parte non solo della tradizione, ma anche della religione della città. Altri credono a questi miti, sembra voler dire Fedro, ma tu, o Socrate, ci credi? E di conseguenza, io posso crederci o no?
    Per la verità la risposta di Socrate fu abbastanza perentoria:

    se non ci credessi, come fanno i sapienti, non farei nulla di strano. Comunque, con una certa qual abilità sofistica potrei anche dire che fu un soffio di Borea [il vento, non il dio] a spingere giù Orizia dalle rocce vicine [...] e che a motivo di questo incidente si disse che la ninfa era stata rapita da Borea [...]. Solo che io, Fedro, anche se trovo divertenti questo genere di interpretazioni, penso che richiedano troppo ingegno, troppa fatica, e non le considero certo una fortuna: se non altro perché chi le pratica si troverà anche costretto a raddrizzare la forma degli Opocentauri, o quella della Chimera, e verrà sommerso da una folla di Gorgoni, di Pegasi, e da tutta una massa di creature assurde e mostruose. Se poi qualcuno, che non crede all'esistenza c) questi esseri, li vorrà ricondurre tutti al verosimile, servendosi di una sapienza piuttosto rozza, costui avrà come minimo bisogno di molto tempo per farlo [1].

    Socrate insomma non aveva nessuna intenzione di dedicare i suoi giorni a interpretare i miti. Non gli interessava stabilire se fossero veri o falsi, credibili o incredibili, tantomeno voleva che la sua vita fosse invasa da Pegasi o da Chimere che chiedevano di essere resi almeno più 'verosimili' tramite qualche acrobazia intellettuale. Magari utilizzando argomenti come quelli a cui ricorrerà Palefato, il quale interpretava Pegaso, il cavallo alato, come se fosse una "nave" corsara con cui Bellerofonte «saccheggiava i paesi della costa e li devastava»; e la Chimera, l'animale dal corpo di leone e la coda di serpente, come se fosse un «monte situato presso il fiume Xanto», in cui «un leone abitava presso l'accesso anteriore e un serpente presso quello posteriore». Artifici invero assai ingenui - «rustici» li definiva giustamente Platone - per 'raddrizzare' i miti rendendoli in qualche modo verosimili: ma in questo modo, sia detto per inciso, distruggendone anche tutta la ricchezza per trasformarli in storielle insulse [2].
    Il fatto è che, quando si ha a che fare con i racconti mitologici, chiunque può essere afferrato dal dubbio: vale la pena di perdere tempo con i miti? Oltre duemila anni dopo Platone, in Germania, tornerà a porsi questa domanda perfino colui che è considerato uno dei padri degli studi mitologici moderni: Karl Otfried Müller. Arrivato al capitolo dieci dei suoi Prolegomeni ad una mitologia scientifica, l'autore se ne usciva infatti in questa frase: «ma, si potrebbe obiettare, il guadagno sperato ricompenserà tutta questa fatica e questo lavoro? E non c'è niente di meglio da fare che interpretare miti?» [3]. Socrate era convinto che vi fosse di meglio da fare - Müller-, inutile dirlo, la pensava all'opposto. E non è stato certo il solo a prendere molto sul serio questo genere di attività. Per averne una prova - rozzamente quantitativa quanto si vuole, ma eloquente - basta digitare le parole "mito", myth, mythos, mythe, mythology e così via nel catalogo online di una grande biblioteca universitaria: si scoprirà immediatamente che, a questo richiamo, vengono fuori non qualche decina, ma almeno un migliaio di titoli bibliografici [4]. Il "mito" dunque è un argomento che continua ad attrarre l'interesse di ogni genere di studiosi e in qualsiasi parte del mondo. Ma cosa sarebbe poi questo "mito" di cui tanto si è parlato e si continua a parlare?

    AVVENTURE E SVENTURE DEL MITO

    Inutile rammentare che il termine italiano "mito" - come il mythe dei francesi, il myth degli inglesi, il mythos dei tedeschi, e così via - deriva direttamente dal termine greco múthos. Ma possiamo esser certi che, se ci mettessimo a discutere il significato di questa parola con i suoi legittimi proprietari, i Greci, emergerebbe subito una notevole diversità di opinioni. Con múthos infatti i Greci indicavano la "parola", il "discorso", il "racconto" [5]. Ma chi si aspettasse di veder definito come múthos esclusivamente il racconto favoloso, sacro, o semplicemente la storia alla quale non si presta fede - tutti significati a cui ci ha abituati la fortuna posteriore di questo termine - sarebbe destinato a restare deluso [6]. Agli inizi della letteratura greca, ossia in Omero ed Esiodo, múthos indica sì discorsi o racconti, ma non quelli incredibili o pieni di accadimenti soprannaturali. Al contrario, nella lingua dell'epica arcaica sono definiti múthoi racconti o discorsi di carattere indiscutibilmente autorevole. È múthos, per esempio, il discorso che il falco predatore rivolge "con forza" all'usignolo, la sua preda [7]. Allo stesso modo, in Omero viene definito múthos il discorso pronunziato con veemenza da maschi guerrieri sul campo di battaglia; e quando Posidone respinge l'ordine di Zeus di abbandonare la lotta, la sua risposta "dura e potente" è definita múthos [8]. Non diversamente sono definiti múthoi le orazioni pronunziate, in assemblea, da eroi che posseggono il prestigio necessario per farlo: come Agamennone quando caccia via dal campo acheo il sacerdote Crise, minacciandolo; o come Achille quando respinge gli ambasciatori di Agamennone [9]. Il múthos dell'epica è un discorso assertivo, che chiede in qualche modo di essere "eseguito": prova ne sia il fatto che esso non viene mai pronunziato da donne - speaker prive di autorità, perché a detenerla sono solo gli uomini - e suona male perfino sulla bocca di maschi troppo giovani. Il múthos insomma è, in primo luogo, un discorso autorevole pronunziato da locutori altrettanto autorevoli [10]. Sarà solo nel seguito della cultura greca, con Erodoto e Tucidide, oltre che con Platone, che questo termine comincerà a designare il discorso favoloso, in cui compaiono eventi di carattere meraviglioso: o tali comunque da suscitare il problema della loro credibilità o meno. Né sarebbe giusto nascondersi una caratteristica del múthos - inteso come narrazione mitologica, "mito" appunto - che al contrario viene talvolta trascurata. Per la Grecia classica, infatti, il múthos è connesso alla produzione di carattere "poetico": sono i poeti che hanno creato o creano il múthos, e senza di loro esso non esisterebbe [11].
    Quanto ai Romani, sarà opportuno ricordare che anche loro avevano un termine con cui indicavano l'equivalente, più o meno, del greco múthos: ossia fabula. Si tratta di una parola importante, come vedremo, per la storia della nostra cultura. Ma quale ne è l'origine etimologica? Fabula è in rapporto diretto con la radice fa- del verbo fari "dire" pronunziare" "dichiarare". Si tratta però di un verbo che indica una modalità del "dire" motto specifica: l'atto del fari presuppone infatti un parlare decisamente autorevole, come quello del pretore che pronunzia i fatidici tria verba; un parlare la cui potenza può perfino assumere un fondamento soprannaturale, come nel caso delle parole pronunziate dall'indovino o dall'augure [12]. Fabula, il sostantivo che deriva direttamente dalla radice del fari, si presenta dunque, specificamente, come la "parola" o il "discorso" di colui che parla nelle modalità tipica del fari: quella dell'autorevolezza ovvero della efficacia. Che genere di discorso o racconto sarà dunque la fabula? [13] Possiamo supporre che, almeno inizialmente, la fabula - proprio come il múthos - indicasse un "dire" che chiedeva di essere preso molto sul serio. Solo che, nel seguito della sua fortuna, anche la fabula tenderà progressivamente ad indicare un racconto favoloso, poco credibile, proprio come accade con il múthos. Soltanto questo? La fabula sarebbe dunque solo un racconto screditato o inattendibile? Le cose non sono così facili, torneremo più avanti sulle fabulae dei Romani. Adesso però rivolgiamoci nuovamente al múthos, anzi al "mito".
    Dobbiamo infatti aggiungere qualcosa, almeno, sulla vicenda moderna di questa parola. Il medioevo e il rinascimento, infatti, difficilmente hanno parlato di múthos o meglio di mythus, in latino. Quando si volevano designare i racconti mitologici antichi, infatti, si usava il termine latino fabula, come farà ad esempio Giovanni Boccaccio nelle sue Genealogiae deorum gentilium. A riportare in luce il termine greco dimenticato furono Gian Battista Vico in Italia e Christian Gottlob Heyne in Germania, entrambi nella seconda metà del XVIII secolo [14]. Da questo momento in poi, le vicende (ma anche le metamorfosi) del mythus, mythos o "mito" che dir si voglia, assumono un andamento turbinoso. Con questa parola, infatti, non si designò più semplicemente un racconto, ancorché favoloso. Mythos divenne capace di veicolare significati assai più complessi, raffinati, affascinanti. Il discorso mitico cominciò ad essere inteso come manifestazione di una civiltà pre-filosofica destinata ad essere superata dalla razionalità successiva - se poi questo trionfo della ragione sul mito fosse da considerarsi un vantaggio o meno per l'umanità, era naturalmente un altro discorso. E soprattutto materia di un dibattito che, per certi versi, dura ancora [15].
    A motivo di questa prima trasformazione, il "mito" ne subì una seconda, che la sviluppa e la completa. Esso perse infatti, definitivamente, il proprio valore originario di enunciazione, di modalità del discorso, soprattutto "poetico", per presentarsi come un vero e proprio "modo di pensare": la manifestazione di una ragione arcaica, ovvero primitiva, e in ogni caso diversa da quella condivisa dai moderni, che esprimeva in maniera fascinosamente le proprie memorie storiche o le proprie idee cosmologiche e filosofiche. Il mito, concetto descrittivo, assumeva così lo statuto di una realtà trascendente, era divenuto qualcosa che esiste per sé e, soprattutto, qualcosa dì cui si può parlare. Anzi - e questa costituisce la terza tappa nella metamorfosi del mito - un qualcosa di cui si può fare la "scienza" [16]: siamo così arrivati alla mitologia, una disciplina per la quale si richiedono conoscenze specifiche, una specializzazione, una biblioteca. E soprattutto l'attività di innumerevoli scuole interpretative.
    Nel corso di questa vicenda si è prodotta un'altra importante conseguenza. Fondandosi sulla (presunta) equivalenza fra antichi da un lato, cosiddetti primitivi dall'altro, il termine "mito" è stato usato anche per designare i racconti provenienti da culture lontane: dall'America precolombiana all'Africa, all'Oceania. L'auroralità di carattere temporale, insomma, è stata vista come intercambiabile con l'auroralità di carattere spaziale, e così gli esotici "primitivi" dell'antropologia ottocentesca hanno potuto prendere il posto degli antichi. La parola greca múthos ha dunque finito per designare anche i racconti di culture che con quella greca non avevano nulla a che fare. Siamo così arrivati a quegli innumerevoli libri, presenti tanto nelle biblioteche universitarie che in quelle domestiche, i cui titoli suonano 'Miti Nordici', 'Miti Maya', 'Miti Indù' e così via, di continente in continente.
    Il fatto è che nella società contemporanea la parola "mito" funziona ormai come una categoria assoluta, alla stessa stregua di tabu, mana e totem. Un termine dedotto empiricamente da una certa cultura, quella greca - così come tabu deriva dalle culture della Polinesia, mana da quelle della Melanesia, totem da quelle dei nativi del Nord America, in particolare degli Algonchini - viene assunto come paradigma di una certa condizione e poi utilizzato in modo deduttivo: visto che la tal cosa o il tale racconto "fa" questo e questo, ovvero ha questa e questa caratteristica, allora è tabu, è mana, è totem, è "mito" [17]. Naturalmente così facendo si sono recise tutte le radici, di senso e di pratiche sociali, che legavano ciascuno di questi termini alla cultura che li aveva generati.

    TRADIZIONE, SIGNIFICATIVITÀ E RICOSTRUZIONE DELLA MEMORIA

    Però, quanto a dire che cosa 'fa' il mito, o quali sono le sue caratteristiche specifiche, è un altro discorso. Allorché si giunge a questo punto, infatti, le definizioni si moltiplicano. Ci sono quelle più semplici e ormai tradizionali, come "racconto sugli dei" o "racconto sull'origine" o anche "racconto connesso al rituale"; ci sono quelle più recenti e sofisticate, che hanno a che fare con la psicoanalisi, con l'analisi strutturale o con la teoria letteraria [18]. Di fronte al mito ci si può perfino scrollare di dosso qualsiasi necessità di definirlo, per rifugiarsi direttamente nell'empatia o nell'ineffabile: il mito lo si "sente", è un'esperienza emozionale. Ecco come si esprimeva, nel 1825, il nostro Karl Otfried Müller:

    questo è comunque chiaro: che la semplice tecnica combinatoria del sillogismo, per quanto ordito con sottigliezza, può condurre vicino all'obiettivo, ma non all'obiettivo stesso; e che l'ultimo atto, la comprensione autentica e interiore [del mito], richiede un momento di entusiasmo, di eccezionale tensione e di straordinaria cooperazione fra tutte le forze spirituali, che si lascia indietro ogni calcolo [19].

    Si tratta di una visione di tipo apertamente romantico, che giunge però fino al ventesimo secolo (e forse, nel frattempo, ha già varcato le soglie del ventunesimo). Basta ricordare la concezione mistica che del mito, e di quello greco in particolare, hanno propugnato studiosi come Warler Otto. Quando si va in cerca del significato del mito - quando si desidera cogliere la sua `essenza" o la sua "verità" - ciò che conta è in primo luogo il coinvolgimento dell'interprete: ciò da cui non si può prescindere è una vicinanza elettiva fra Beruf inteso come "mestiere" e Berufung intesa come "vocazione". Insomma, più che studioso il mitologo ha da esser poeta [20].
    Con tutto ciò, bisogna anche dire che rinunziare al mito è difficile, per non dire impossibile. La tensione fra il rifiuto e la fascinazione, il disinteresse (se non il disprezzo) e l’amore per questo genere di racconti, sembra essere continua. Potremmo anche provare a mettere il problema in questi termini. Da un lato sta un discorso, definito "mitico", che spesso si presenta troppo bizzarro o inverosimile per essere accettato così com'è: il rapimento di Orizia da parte di Borea, Bellerofonte che cavalca un Pegaso alato e uccide una Chimera con testa di leone e coda di serpente - ma anche la fondazione di Roma da parte di due gemelli figli di Marte e allattati da una lupa, a loro volta discendenti da un eroe troiano che aveva Venere per madre. Dall'altro lato, però, stanno dei lettori che, in qualche modo, non vogliono o non possono rassegnarsi all'idea che il mito sia solo e soltanto "questo". Sono quei "sapienti", come li chiamava Platone, i quali militano oggi nelle schiere degli storici (che nei miti cercano tracce di una storia mai scritta), degli antropologi (che nei miti cercano i fondamenti culturali di una data comunità), dei critici letterari (che nei miti cercano gli archetipi o i modelli dell'immaginario), degli psicoanalisti (che nei miti cercano le forme dell'inconscio), degli storici delle religioni (che nei miti cercano la giustificazione di rituali o credenze) - per non parlare dei potenti di tutti i tempi, che ai miti chiedono argomenti per giustificare il loro potere o per affermare la 'vera' identità del gruppo cui sentono di appartenere. In altre parole, sono tutti lettori o fruitori del mito che tendono a restituire una specifica autorità al discorso mitico, anche a dispetto del modo - fantasioso, illogico, incredibile - in cui esso si presenta: o forse proprio per questo. E così facendo, questi interpreti tornano paradossalmente, e certo inconsapevolmente, a restituire al discorso/múthos quel carattere autorevole, forte, che esso aveva nella cultura greca arcaica: quasi che l'antica forza del múthos - discorso autorevole, discorso che si impone e deve essere eseguito - tornasse a farsi sentire sotto la "scorza" dei miti antichi.
    Detto ciò, che cosa dobbiamo farne dei "miti"? Volgiamo le spalle all'ineffabile di Karl Otfried Müller o di Walter Otto, e proviamo a rivolgerci (almeno) al ragionevole. «I miti sono racconti tradizionali forniti di una speciale "significatività" (Bedeutsamkeit)» [21]. Così ha scritto Walter Burkert, un grande studioso che al mito e alla religione antica ha dedicato tutta la vita. Anche prescindendo dalle implicazioni teoriche in cui questa definizione viene inserita dal suo creatore, essa si presenta comunque sufficientemente semplice da risultare generale, ma anche sufficientemente specifica per destare fiducia. "Tradizionalità" da un lato e "significatività" dall'altro, ecco i due poli fra i quali scatta quella tensione che viene chiamata "mito". Naturalmente, sugli elementi che fondano questa definizione ci si potrebbe subito mettere a discutere. Per esempio, esiste un preciso lasso di tempo in seguito al quale un racconto può essere legittimamente considerato 'tradizionale'? Un secolo, due secoli, tre secoli... E non potrebbe essere considerato 'tradizionale' anche un racconto nuovo di zecca che, però, di tradizionale presenta i materiali che lo compongono, o meglio ancora la forma utilizzata per costruirlo? Personalmente sottoscriverei volentieri questa possibilità. E poi, la "significatività" del mito a cosa deve essere riferita? Nella teoria della comunicazione, la "significatività" (Bedeutsamkeit) di un certo fenomeno, misurabile anche in termini di "rilevanza" o "importanza", ne definisce l'efficacia e la qualità nella trasmissione dell'informazione. In questo modo, dunque, il mito viene definito in qualche modo come un racconto "efficace". D'accordo, ma per chi? Efficace per la comunità, per una sua parte, per chi la governa, per chi semplicemente lo ascolta o lo legge...
    Naturalmente, poi, sarebbe ingenuo credere che "tradizione" costituisca anche un sinonimo di antichità, genuinità o autenticità. Che le tradizioni di una comunità, e con esse i suoi miti, possano essere di volta in volta "ricostruite" a seconda delle necessità del presente, è un fatto troppo noto perché sia necessario insistervi. Si tratta di un fenomeno legato al modo in cui procede, in generale, la "memoria collettiva" di una comunità. Come ci ha insegnato a suo tempo Maurice Halbwachs, infatti, la memoria collettiva si fonda su una serie di cornici di riferimento - cornici a carattere sociale - che ne condizionano fortemente i contenuti. Al mutare di questi quadri sociali, mutano anche le "memorie" che del passato si hanno. Passo dopo passo, il gruppo sociale "ricostruisce" dunque anche il proprio passato, la propria tradizione, adattandoli ai quadri sociali del presente che avanza, così come esso progetta anche il proprio futuro [22]. L'esempio a cui Halbwachs si dedicò con particolare attenzione, sviluppandolo in una celebre monografia, si presenta interessante anche dal nostro punto di vista, e val la pena riportarlo brevemente. Si tratta della topografia della Terra Santa, e in particolare del fenomeno secondo cui, diversi secoli dopo la morte di Gesù, i vari episodi narrati nei Vangeli - la nascita, la trasfigurazione, la cattura, la flagellazione e così via - furono fatti corrispondere a una serie di "luoghi" specifici e visitabili. Si venne così a creare una topografia della vita di Gesù la quale altro non era se non una mappa di dogmi e di credenze, prodotto non di memorie locali, ma di bisogni proiettati in Palestina dalle esigenze della ormai vastissima comunità cristiana [23]. Nella definizione del "mito", dunque, la categoria di "tradizione" deve essere utilizzata indipendentemente dal fatto che questa "tradizione" sia da considerarsi antica o recente, genuina o manipolata, originale o ricostruita. L'importante è che il racconto "mitico" sia presentato ed usato "come se" fosse un racconto tradizionale: e soprattutto, come abbiamo detto, che sia ritenuto in qualche modo "significativo" per la comunità a cui si riferisce. 

    IL MITO E LA CITTÀ: UN DISCORSO DA AFFRONTARE CON PRUDENZA?

    Basta, arrestiamoci qui con le nostre considerazioni sul "mito" ed i suoi usi. È giunto infatti il momento di passare alla città, anzi alla Città per eccellenza: Roma. Ecco infatti ciò che Tito Livio pensava dei miti, anzi delle fabulae, che avvolgevano la nascita di Roma:

    L'origine e la fondazione della Città ci sono tramandati attraverso racconti più confacenti alle fabulae poetiche, che non alle schiette testimonianze (incorrupta monumenta) della storia: per questo non ho intenzione né di confermarli né di rifiutarli (nec adfirmare nec refellere) [24].

    Così scriveva lo storico nel proemio della sua opera monumentale, accingendosi, per rispettare l'ordine cronologico, a narrare appunto l'arrivo di Enea nel Lazio, le guerre che i Troiani dovettero sostenere contro le popolazioni locali, la loro vittoria, la fusione con i Latini, la fondazione di Lavinium prima, di Alba Longa poi, e infine - per opera dei gemelli discendenti da Enea - la nascita della Città: Roma [25]. Tutte queste narrazioni, sostiene dunque Livio, sono da considerarsi delle fabulae. Lo storico sa bene, infatti, che la storia, come la intende lui, iniziava solo "dopo", una volta conclusosi il tempo in cui gli accadimenti erano resi oscuri dall'eccessiva antichità e dalla scarsità di testimonianze scritte. A custodire il passato in quel periodo lontano, infatti, era solo la "memoria", e se qualcosa era stato tramandato nei commentarii dei pontefici e negli altri monumenta pubblici e privati, era stato comunque distrutto dall'incendio che aveva divorato Roma quando era stata conquistata dai Galli. Solo dopo la "seconda origine", la nuova fondazione della città sulle ceneri di quella che era andata distrutta, lo storico potrà finalmente passare alla esposizione di quegli «eventi della città più chiari e più certi» [26].
    C'è una cosa, comunque, che in particolare colpisce nella dichiarazione iniziale di Livio: le fabulae che tramandano l'origine e la fondazione della Città, egli non ha intenzione né di confermarle, né di respingerle. Sa bene che esse non possono offrire le garanzie di veridicità e attendibilità che solo la storia, con i suoi incorrupta monumenta, può garantire alla narrazione del passato; però, ed ecco il punto interessante per noi, egli non intende neppure "respingere" questi racconti. Di fronte alla terribile domanda di Fedro - credi tu che questi miti siano "veri"? - l'autore romano si avvarrebbe semplicemente della facoltà di non rispondere. Perché? Rinviamo per un momento la risposta a questa domanda, e facciamo di nuovo un passo indietro, verso il múthos dei Greci.
    Livio infatti non era stato il primo storico antico a prendere una posizione del genere. In questo suo prudente atteggiamento verso il passato favoloso egli sembra anzi muoversi sulle orme di Tucidide. In uno dei capitoli che aprono la Guerra del Peloponneso, infatti, lo storico greco prendeva le distanze dal modo in cui i poeti hanno narrato gli antichi fatti di cui anche lui si sta occupando, "abbellendoli e ingigantendoli"; ovvero dal modo in cui si sono comportati i cosiddetti logografi, «i quali avevano di mira più il diletto del loro uditorio che non la verità». Dopo di che continua in questo modo: si tratta del resto di «fatti che non possono esser sottoposti a controllo (anexélenkta), e che a motivo della loro antichità, per lo più sfociano nel mito (muthódes) indegno di fede» [27]. Anche Tucidide insomma, di fronte ad avvenimenti che rimandavano all'antichità, diffidava del carattere 'mitico' che inevitabilmente li aveva avvolti. Ma l'espressione che egli usa per definire questo genere di racconti mitici, ossia l'aggettivo anexélenktos, è degna di una breve riflessione.
    Letteralmente, infatti, questa parola designa qualche cosa "che non può essere sottoposta ad élenchos", ossia la confutazione: con élenchos infatti si designa la confutazione di un argomento filosofico o giuridico in un dibattito, la confutazione di prove arrecate in tribunale, e così via. Quel che Tucidide vuol dire, dunque, è che i racconti a carattere "mitico" (muthódes) non ammettono di essere smentiti. Di fonte ad essi non si può dire né sì né no: impegnarsi per svelarne la falsità, non è semplicemente possibile. Il fatto è che il muthódes, il mitico, si sottrae alle procedure razionali secondo cui si procede di norma nell'accertamento della verità: il "mitico" sta lì e basta, mettersi a discutere se accettarlo o meno è semplicemente non pertinente. Anche Erodoto, peraltro, la pensava così. Dire che il Nilo scorre dall'Oceano, come faceva Omero, secondo lui significava «portare il múthos nell'invisibile»: e pertanto affermare una cosa che «non ammette di essere confutata» (oúk échei élenchon). Eccoci di nuovo all'élenchos ovvero al problema della confutabilità - si accetta o si respinge? - del mito. Anche in questo caso il múthos sembra sottrarsi, per sua intrinseca natura, alle procedure razionali - se qualcuno afferma che il Nilo scorre nell'Oceano recita semplicemente un "mito", del quale non si può dire né che è vero, e come tale accettabile, né che è falso, e come tale da respingere. II fatto è che, di fronte al mito, anche lo storico finisce spesso per essere in imbarazzo. Lo stesso Tucidide - che come abbiamo appena visto dichiarava di non volersi pronunziare a riguardo ad antichi fatti sfociati nel muthódes - si guarderà bene, infatti, dal mettere in dubbio la 'storicità' di racconti come quello di Minosse o della guerra di Troia: i quali, almeno per noi, rientrano chiaramente nel territorio del mitologico [28].
    Quando dunque Livio dichiara che non intende «né accettare né respingere» le fabulae che avvolgono l'origine e la fondazione della Città, Roma, egli sta seguendo le tracce degli storici greci che lo hanno preceduto: neppure lui intende sottoporre il "mitico" al processo della confutazione, quel procedimento che contrappone gli argomenti a favore della veridicità a quelli a favore della falsità. Questa presa di posizione di Livio costituisce solo un riecheggiamento degli storici precedenti? O meglio, una condivisione del metodo che lo storico ha appreso dai suoi maestri? Difficile crederlo. Di certo vi è qualcosa di più.

    IL MITO E LA CITTÀ: UN CASO SPECIALE

    Lo storico romano, infatti, continuava in questo modo il suo ragionamento nei confronti della fabulae che avvolgono la nascita di Roma:

    All'antichità si concede questa forma di indulgenza (venia), permettendole di rendere più sacre (augustiora) le origini delle città (primordia urbium) mescolando assieme l'umano e il divino. E se c'è un popolo a cui è lecito rendere sacre le proprie origini e attribuirle direttamente agli dei, questa gloria, gloria di guerra, tocca proprio al popolo romano, di modo che, quando vanta Marte come antenato suo e del suo fondatore, gli uomini accettino questo di buon grado tanto quanto subiscono il dominio (imperium) di Roma [29].

    Con queste parole Livio va direttamente al cuore della questione: e nello stesso tempo fornisce la miglior formulazione delle ragioni che ci hanno indotto alla composizione di questo libro. Il fatto è che fra i miti - i quali mescolano insieme umano e divino, naturale e soprannaturale - e le origini delle città, c'è come un rapporto privilegiato. I primordia urbium, come li chiama Livio, in qualche modo 'chiedono' miti. Quei racconti che, di solito, lo storico ritiene al massimo di non poter rifiutare, quando hanno a che fare con le "origini delle città" divengono non solo accettabili, ma giustificati. Inverosimili nella loro formulazione fabulosa, divengono di colpo credibili se riguardati dal punto di vista della "identità" - dobbiamo pur usare questa parola moderna - vera o presunta che una certa comunità possiede o si vanta di possedere. È come se le fabulae fossero screditate se prese procedendo dal capo verso i piedi, ma diventassero di colpo rispettabili se prese, al contrario, procedendo dai piedi verso il capo. Pensare che il fondatore di Roma fosse figlio di Marte è certo inverosimile, incredibile: ma lo diventa se si guarda alla gloria che i Romani si sono guadagnati sul campo di battaglia - ossia la specifica provincia del dio Marte - e alla sottomissione con cui gli altri popoli hanno accettato il loro imperium. I racconti fabulosi non possono essere sottoposti al vaglio delle procedure razionali, al setaccio stretto dello storico: ma se si rovescia il punto di vista - se dalla "città" come è e come si manifesta si guarda verso le fabulae che ne avvolgono le origini - allora anche questi racconti assumono un diverso valore. Questo atteggiamento di Livio, ii suo legare strettamente il mito e la città, ci mette di fronte al secondo dei caratteri che, secondo Walter Burkert, definiscono il racconto mitico: la sua "significatività". In ciò che concerne la specifica identità dei Romani, popolo guerriero, e della legittimazione del loro imperium sugli altri popoli, queste antiche fabulae possiedono un significato troppo "efficace" perché si possa semplicemente rinnegarle.
    Dietro tanta prudenza di Livio - nec adfirmare nec refellere, né confermare né rifiutare - stavano comunque anche altre motivazioni: forse più pressanti ed attuali di una generica rivendicazione dell'imperium romano, che ai suoi occhi ben meritava una giustificazione 'mitica'. Possiamo infatti sospettare anche l'esistenza di opportunità ideologiche o addirittura di necessità politiche che, forse abbastanza inaspettatamente per noi, entravano n gioco nella determinazione dei passato mitico di Roma. Verosimilmente, infatti, fra le ombre che avvolgono il passato mitico della Città, fa la sua comparsa anche quella (presentissima) di Augusto. Vediamo di che si tratta.
    A proposito della nascita di Alba Longa, la città che i discendenti di Enea avrebbero creato dopo Lavinium, circolavano infatti due versioni differenti. Da un lato si raccontava che a fondarla fosse stato Ascanio, figlio di Enea e della moglie latina di lui, Lavinia; dall'altro si diceva invece che fosse stato Iulo, il figlio che Enea aveva avuto da Creusa, la moglie troiana perita nell'incendio della città, e giunto con lui in Italia. La scelta fra questi due rampolli di Enea non era affatto indifferente, perché dal mitico fondatore di Alba Longa - Ascanio o Iulo? - sarebbe poi discesa la dinastia dei re di questa città, fino a Numitore: dalla cui figlia, Ilia o Rea Silvia, sarebbero stati a loro volta generati i gemelli - e quindi il fondatore stesso della Città, Romolo. In altre parole, scegliere fra la versione che assegnava ad Ascanio (troiano e latino) la fondazione di Alba, e quella che l'assegnava invece a Iulo (il troiano), significava determinare I'"identità genealogica" dì Romolo, il fondatore dh Roma. Ma che cosa poteva aver a che fare questa discrepanza fra versioni mitiche, con il potere di Augusto? Basta ricordare che il princeps, attraverso Cesare, si richiamava Enea proprio a motivo della discendenza da Iulo (la loro gens era la Iulia): e dunque aveva tutto l'interesse ad accreditare l'idea che a fondare Alba Longa - e dunque a porsi porne capostipite di Romolo - fosse Iulo, non Ascanio. Ecco dunque un bel caso in cui le fabulae 'fanno' la città e 'fanno' il suo monarca. Scegliere una variante invece di un'altra significava rafforzare o indebolire le pretese dinastiche, e quindi imperiali, dell'uomo più Mente di Roma. Ancora una volta, la "significatività" delle antiche fabulae appare in tutta a sua chiarezza: questa volta dal punto di vista non genericamente del popolo romano, e del suo carattere bellicoso, ma da quello dell'identità e della legittimazione del sovrano stesso. Poco più avanti ancora Livio, al momento di narrare la fondazione di Alba Longa, dichiarerà che «non si sarebbe messo a discutere» (haud ambigam) se a fondare la città fosse stato Ascanio o Iulo. In realtà sapeva che, almeno agli occhi di Augusto, avrebbe fatto bene a scegliere Iulo senza tante storie; ma verosimilmente sapeva altrettanto bene che stava scrivendo in un periodo in cui (ancora) si poteva nascondersi dietro il velo dell'ironia anche quando si toccavano temi cari all'imperatore [30].
    Pensare comunque che la prudenza con cui Livio affronta questo tema - le fabulae che avvolgono le origini della città - fosse dettata solo da ragioni ideologiche, politiche, o semplicemente di opportunità, sarebbe di fatto un errore. La relazione che una città stabilisce con le proprie mitiche origini, e con le fabulae che le tramandano, è infatti di carattere (direbbe Freud) «sovradeterminato»: questo rapporto chiede interpretazioni multiple, non la" interpretazione che spiega tutto in un colpo solo [31]. Nella fattispecie, potremmo anzi correre il rischio di guardare al problema - il rapporto che a Roma legava fra loro il mito e la città - attraverso gli occhi (e i concetti) dei moderni, cioè i nostri, e non attraverso gli occhi dei Romani. Come invece dobbiamo fare. Il punto centrale della questione, infatti, è costituito dal fatto che su quei racconti 'favolosi' relativi ai primordia urbis non si fondava solo l'aspetto diciamo bellicoso della società romana, o la legittimazione del potere di Augusto: ma l'intero assetto della "cultura" cittadina. La "significatività" delle antiche fabulae, infatti, riguardava direttamente la presenza di istituzioni, culti e rituali, che facevano parte integrante dell'enciclopedia culturale dei Romani.

    IL MITO E LA CITTÀ: DALLA RELIGIONE AL "NOME" DEI CITTADINI

    Per illustrare questo aspetto della questione, naturalmente, vi è solo l'imbarazzo della scelta. Limitiamoci perciò a tre esempi, riferiti a tre "tappe" fondamentali nel percorso mitico che conduce alla nascita della Città: l'arrivo di Enea nel Lazio, la fondazione di Roma, la divinizzazione di Romolo. Naturalmente non ci interessa qui stabilire se le "tradizioni", contenute nelle fabulae di cui stiamo per occuparci, siano autentiche o manipolate, antiche o recenti - e se recenti, di quanto lo siano [32]. Come abbiamo già detto prima, la "ricostruzione" del passato mitico di una comunità fa parte del procedimento mitico stesso, sono due facce di una stessa medaglia. Quello che ci interessa è vedere all'opera l'interconnessione che lega fabulae da un lato, istituzioni, pratiche o rituali cittadini dall'altro. Ecco dunque i tre esempi che abbiamo scelto.
    Si raccontava che Enea avesse portato con sé da Troia degli dei, i Penates, e che essi fossero stati collocati a Lavinium, la prima fondazione dei Troiani in terra italica [33]. Da qui Ascanio tentò, per ben due volte, di trasferirli nella nuova città da lui fondata, Alba Longa - ma miracolosamente, gli dei fecero ritorno, entrambe le volte, nella loro sede originaria: manifestando così il proprio desiderio di rimanere a Lavinium [34]. I Romani restarono profondamente attaccati a questi Penati 'originali' portati da Enea nel Lazio - e così desiderosi di rimanere nel luogo delle origini troiane della Città - tant'è vero che ogni anno alcuni sacerdoti si recavano da Roma a Lavinium per compiere offerte rituali a questi «Penates nostri», come li chiamava Varrone: i Penati di "noi" Romani. Un culto dei Penates della città si sviluppò peraltro anche in Roma, collocato in un tempio posto sulla Velia, nella forma (verosimilmente) di una 'filiazione' dei Penati di Lavinium, una sorta, insomma, di loro succursale [35]. Come si vede il culto dei Penati che da Troia Enea aveva portato con sé nel Lazio - il cui ruolo è del resto familiare ai lettori dell'Eneide - segue passo passo tutte le vicende fabulosae che conducono alla fondazione della Città, i suoi primordia: la fuga da Troia, Lavinium, Alba Longa, Roma, e poi il rinnovato contatto con le 'origini' di Lavinium garantito dalla trasferta annuale dei sacerdoti. Come si sarebbe potuto liberare le origini della Città da queste tappe del suo mito? Assieme alle fabulae che ne avvolgevano le origini sarebbe venuto meno anche un pezzo della religione della Città.
    Da Enea e dai suoi Penati passiamo adesso al diretto discendente dell'eroe troiano, Romolo. Come si sa, la fondazione della Città egli - già in rivalità con il fratello - l'aveva compiuta attraverso un complesso meccanismo di riti augurali, che, secondo l'uso romano, si concentravano sull'osservazione del volo degli uccelli [36]. I Romani sapevano bene di vivere in una città che era stata fondata "con l'augurio e con l'auspicio" (urbem auspicato inauguratoque conditam habemus), lo consideravano un fatto importante, centrale, nella legittimazione dell'esistenza di Roma [37]. Come se non bastasse, quel 'primo' rituale degli auguria presi da Romolo costituiva anche una sorta di fondazione della pratica augurale stessa, il suo fondamento. A questo punto, come avrebbe potuto reagire un romano di fronte alla possibilità che il racconto di Romolo augure potesse risultare, in qualche modo, incredibile - che il fondatore avesse insomma applicato una scienza fallace? Siamo fortunati, in questo caso possediamo infatti una testimonianza diretta, proveniente dall'interno stesso della cultura romana. Il rischio di screditare Romolo, infatti, lo corse proprio Cicerone, in quella straordinaria opera che è il trattato Sulla divinazione: un libro in cui l'autore, che pure aveva fatto parte del collegio degli Augures, dimostra la fallacia di una disciplina che (ahimè anche ai giorni nostri) pretende di conoscere in anticipo gli avvenimenti futuri, e nei confronti della quale, a differenza di suo fratello Quinto, Cicerone non nutre alcuna fiducia. Ma che cosa dice Cicerone 'illuminista' quando si trova a parlare dell'auguratio praticata dal fondatore? Ecco le sue parole:

    credo che Romolo, il quale fondò la città prendendo gli auspici, abbia creduto che esistesse una scienza augurale capace di prevedere il futuro [su molte cose gli antichi erravano]... si conservano però - per non urtare le credenze popolari e per il grande vantaggio che ne deriva allo Stato [ad magnas utilitates rei publicae] - il costume, l'osservanza dei riti, le regole, il diritto augurale e l'autorità del collegio [38].

    Come al solito, le fabulae possono apparire, ed essere ritenute, inverosimili se le si giudica andando dalla testa verso i piedi - ma divengono di colpo accettabili, anzi necessarie al buon funzionamento della res publica, se le si guarda andando dai piedi verso la testa, procedendo cioè dalla loro funzione culturale alla loro matrice narrativa.
    Ed ecco un ultimo esempio, ancora relativo a Romolo, che lo coglie alla fine della sua carnera di fondatore. Racconta Livio che il re scomparve misteriosamente nel corso di una terribile tempesta, nascosto agli occhi dei Romani da un nimbus che, una volta dileguatosi, mostrò vuota la sedes regia. Ben presto si sparse la voce che Romolo fosse stato assunto in cielo, fra gli dei, diceria ben presto confermata da Giulio Proculo il quale dichiarò che, alle prime luci dell'alba, il "padre di questa città", era disceso dal cielo e gli si era parato davanti agli occhi, affidandogli un messaggio per i cittadini [39]. Nel seguito della propria vicenda mitica e, a questo punto, anche Romolo venne identificato con Quirino, l'antica divinità romana che formava una triade con Giove e Marte [40]. Romolo dunque era divenuto Quirinus - ma Quirites era anche il nome che contraddistingueva i cittadini romani. I Romani si definivano insomma come 'quelli di Quirinus' A questo punto, in che modo si sarebbe potuto contrastare le antiche fabulae, dichiarandole semplicemente "inverosimili"? Sarebbe stato come negare ai Romani la loro stessa identità, il fondamento del loro "nome". Che anzi, quando a Roma si voleva chiedere aiuto, perché si era aggrediti o si stava subendo qualche grave ingiustizia, il grido ritualizzato a cui si faceva ricorso era proprio oh Quirites! "aiuto, Quiriti!". Un'esclamazione, ovvero una procedura di enunciazione, e quale a tal punto era entrata nel costume, che ne era nato direttamente un verbo, quiritare, "chiedere aiuto": il quale traeva la sua origine proprio dall'esclamazione oh Quirites [41]. Le fabulae, come si vede, erano entrate a far parte addirittura del linguaggio: rinnegarle o cancellarle sarebbe stato semplicemente impossibile, la loro "significatività" aveva un'escursione talmente ampia da corrispondere all'intero arco della cultura romana.

    IL MITO E LA CITTÀ: LA "SIGNIFICATIVITÀ" SPAZIALE

    Ma non si trattava solo di mores, come avrebbero detto i Romani, di "costumi", né solo di disciplinae o religiones le quali rimandavano immancabilmente ai miti che avvolgevano le origini di Roma. La questione era soprattutto "topografica", c'erano di mezzo dei "luoghi". E questo è forse l'aspetto più interessante del legame che intercorre fra il mito e la Città. Era Roma stessa che, esistendo a quel modo, con quella topografia e con quei "nomi" assegnati ai vari luoghi che la compongono, reintroduceva in continuazione nell'enciclopedia culturale dei Romani le fabulae da cui gli intellettuali, come Livio, avrebbero preso volentieri le distanze. Come si sarebbe potuto "rifiutarle" definendole, semplicemente, inverosimili? Sarebbe stato come minare la struttura stessa della Città, la sua forma, il senso dei suoi spazi. Ecco un altro aspetto, forse il più visibile, della "significatività" che caratterizzava le fabulae relative alla Città. Ma prima di procedere, ci sia consentita una piccola digressione. Al lettore, forse, non dispiacerà di essere condotto per un breve momento fuori dalle mura della città, in un luogo invero assai remoto – ma ugualmente significativo per il nostro discorso.
    Agli inizi della prima guerra mondiale, Bronislaw Malinowski si recò a far ricerca negli arcipelaghi della Melanesia. Nel 1922 egli pubblicò le sue esperienze in un libro destinato a restare una pietra miliare negli studi antropologici, Argonauts of the Western Pacific. Nel corso del suo lavoro, egli ebbe anche modo di accertare che, nel loro bagaglio di tradizione orale, gli indigeni possedevano diversi tipi di composizione o di racconto [42]. In primo luogo veniva ciò che chiamavano libogwo, "racconto antico", un tipo di narrazione che (sempre secondo Malinowski) noi potremmo definire come "tradizione"; poi veniva il kukwanebu, storie raccontate per divertimento in determinati periodi, che narravano avvenimenti dichiaratamente non veri; in terzo luogo, i wosi, i vari canti, e i vinavina, brevi canzoni cantilenate per divertimento o in altre circostanze, e ultimi, ma non meno importanti, i megwa oryopa, le formule magiche. Queste varie categorie erano rigorosamente distinte l'una dall'altra per nome, funzione, contesto sociale e per certe caratteristiche formali. Il tipo di composizione che più interessava a Malinowski era quella chiamata libogwo. Ed è su questa che egli ci fornisce le maggiori informazioni.
    Questa categoria, il "racconto antico", il corpo dell'antica tradizione, che si ritiene vera, consta da una parte di racconti storici, come le azioni di grandi capi del passato, le imprese del Koya, le storie di naufragio, e così via; dall'altra comprende anche quelli che gli indigeni chiamano lili'u: miti e racconti in cui essi credono profondamente, che rispettano e che esercitano un'influenza attiva sulla loro condotta e sulla vita tribale. Malinowski procede poi a descrivere nei dettagli il modo in cui gli indigeni distinguono fra quello che egli definisce "mito" e il resoconto storico; anche se, avvertiva, questa distinzione è difficile da formulare e non può essere tracciata se non con cautela.
    Innanzitutto, continua Malinowski, occorre tener presente che un indigeno non si preoccuperà di fare spontaneamente queste distinzioni e di articolarle verbalmente. Se un etnografo riesce a rendere chiaro il problema ad un informatore intelligente (lui affermava di averlo fatto e di esservi riuscito), l'indigeno dichiarerà semplicemente quanto segue:

    Noi tutti sappiamo che i racconti su Tudava, su Kudayuri, su Tokosikuna sono lili'u; i nostri padri, i nostri kadada (zii materni) ce lo hanno detto, e noi ascoltiamo sempre queste storie, le conosciamo bene, sappiamo che non vi sono altre storie oltre a queste che siano lili'u. Così, ogni volta che ascoltiamo una storia, sappiamo se è o non è un lili'u [43].

    La conseguenza è che, quando viene narrato un qualunque racconto indigeno, anche un ragazzo sarà in grado di dire se si tratta di uno dei suoi lili'u tribali o meno. Perché li conosce tutti, e dunque li individua come tali semplicemente in base a un criterio di inclusione/esclusione nel corpus di racconti che gli sono familiari. Gli indigeni, continua Malinowski, non hanno dei termini particolari per designare gli altri racconti, cioè quelli storici, ma ne descriveranno gli eventi come accaduti fra «esseri umani come noi». Dunque la tradizione, dalla quale si riceve il bagaglio di racconti, li trasmette con l'etichetta di lili’u: e la definizione del lili’u è che si tratta di un racconto trasmesso con questa etichetta. Si tratta di una definizione, in definitiva, circolare.
    Questo significava forse che, per i Melanesiani, non vi fosse alcun criterio diverso tradizione - la definizione circolare - per distinguere ciò che e lili’u da un qualsiasi altro racconto dal contenuto meraviglioso o soprannaturale? Al contrario.
    Secondo Malinowski, infatti, sarebbe un errore affermare che per gli abitanti della Melanesia il falso e il "mitico" fossero la stessa cosa, o fossero anche semplicemente simili. Essi insistevano infatti nel trattare come sasopa (bugie) alcune storie di carattere meraviglioso o soprannaturale che venivano loro raccontate, e asserivano che non erano lili'u, ossia miti in cui credere e tali da esercitare un'influenza attiva sulla vita dalla comunità. Su che base? L'esempio riportato a questo punto da Malinowski è del massimo interesse. Coloro i quali rifiutavano l'insegnamento missionario, riferisce, non accettavano l'opinione che le storie bibliche loro raccontate fossero lili’u, ma le rigettavano come sasopa (bugie). Ed ecco un tipico ragionamento da «indigeno conservatore», come Malinowski lo definisce:

    Le nostre storie su Tudava sono vere; questo è un lili'u. Se tu vai a Laba'i puoi vedere la caverna in cui è nato Tudava, puoi vedere la spiaggia dove giocava da ragazzo. Puoi vedere l'impronta del suo piede su una pietra in un posto del raybwag. Ma dove sono i segni di Yesu Keriso [Gesù Cristo]? Dove mai abbiamo visto un qualsiasi indizio delle storie raccontate dai missionari? Quindi, esse non sono lili’u.

    Come si vede, l'appartenenza alla categoria del lili’u - racconti in cui il meraviglioso e ritenuto 'vero' e credibile - viene in qualche modo definita su base spaziale. Sono lili’u non solo quei racconti che, come si è visto sopra, appartengono tradizionalmente al serbatoio di storie che l'indigeno conosce come tali (e non si accettano novità); ma anche quei racconti di cui è possibile mostrare in qualche modo i "segni", una rete di corrispondenze con “luoghi” che la tradizione indica come riferibili a personaggi o eventi che fanno parte del lili’u. In altre parole, il lili'u (soprannaturale 'vero') si distingue dal sasopa (soprannaturale 'falso') in base al semplice fatto che uno è soprannaturale 'nostro', l'altro non lo è: e questa appartenenza del "soprannaturale nostro" viene definita su base spaziale, dei racconti che sono lili’u si possono mostrare i "luoghi" a cui essi rimandano.
    Torniamo a Roma, e con lei al nostro tema: il mito e la città. Anche i "luoghi" della Città, infatti, pullulavano dei segni di un passato fabulosus che orientava nella ricezione delle fabulae che ad essi si ricollegavano: luoghi che, nel contempo, nei racconti delle fabulae trovavano la loro giustificazione e la ragione dei loro stessi loro "nomi". Questi miti, insomma, erano dotati anche di una potente "significatività" spaziale e topografica. Quando Properzio decide di mostrare l'urbs a un personaggio misterioso, di nome Horus, egli evoca davanti ai nostri occhi una galleria di luoghi, nomi e fabulae capaci di 'documentare' - in un intreccio indissolubile - l'intero passato della città: vedi là il Palatino, dice al suo compagno, qua la rupe Tarpea, laggiù la casa di Remo, poi la Curia - ma non quella ricca e splendente di oggi, solo una capanna povera e adatta a senatori vestiti di pelli.

    A quei tempi [continuava il poeta nel suo insolito ruolo di guida] Alba Longa si ergeva ancora in tutta la sua potenza, città nata sotto gli auspici della bianca scrofa; e credimi, già solo andare a Fidene era un viaggio! Di quella Roma, i Romani di oggi non hanno più che il nome: non riuscirebbero a pensare di aver avuto una lupa per nutrice" [44].

    Ecco un rapido scorcio dei luoghi che garantivano le fabulae dei Romani, e che, a quanto pare, la laicizzazione' della cultura nell'età di Augusto (o almeno quella che caratterizzava i Romani frequentati da Properzio) rischiava di cancellare sotto la pressione dei tempi nuovi.
    Proviamo infine a rovesciare la prospettiva cronologica, e con l'ausilio di Virgilio e della sua Eneide - il poema che celebrava appunto le fabulae che Livio non sapeva né confermare né rifiutare - trasferiamoci nel tempo in cui gli avvenimenti descritti dalle antiche fabulae erano ancora `di là da venire'. Siamo ancora lontani dai primordia urbis, Enea è appena sbarcato nel Lazio e teme lo scontro con le popolazioni locali: quei Latini con i quali i suoi Troiani sono destinati a fondersi, benché egli sia ancora ben lontano dal sospettarlo. L'eroe si reca dunque a visitare Evandro sul Palatino - ma ancora si chiamava Pallanteum -, il re arcade a cui intende chiedere aiuto e sostegno per la guerra imminente. Ed ecco Evandro mostrare al visitatore troiano una mappa di luoghi dì cui, almeno alcuni, sarebbero divenuti leggendari solo 'un giorno', dopo la fondazione della Città. Quegli stessi luoghi che Properzio mostrava ad Horus come carichi di un passato ormai venerabile, Evandro li indica ad Enea come ancora privi di fabulae e di racconti - e solo con l'ausilio del commento virgiliano, voce fuori campo che integra l'ancor manchevole descrizione di Evandro, questi territori assumono il significato che sono destinati ad avere 'dopo' che la vicenda troiana, quella di Lavinium e quella di Alba Longa, sarà culminata nella fondazione di Roma:

    Così diceva Evandro, e poco più innanzi gli mostra l'ara e la porta che i Romani chiamano Carmentale, per onore antico della ninfa Carmenta, la fatidica indovina, che per prima vaticinò il grande avvenire dei discendenti di Enea e il nobile Pallanteo. Da qui gli mostra poi il bosco smisurato, che il duro Romolo destinò ad essere Asilo, e ai piedi di una gelida rupe gli indica il Lupercale, così detto [ossia "del lupo"] alla maniera Arcadica di Pan Liceo [ossia "del lupo]. Gli mostra il bosco del maledetto Argileto, e chiama a testimone il luogo [testaturque locum] e narra la morte dell'ospite Argivo. Quindi lo conduce alla sede Tarpea e al Campidoglio, aureo oggi, un tempo ispido di cespugli selvaggi. Già allora un sacro terrore del luogo spaventava i pavidi coloni, già allora tremavano alla vista della rupe e della selva. «Questo bosco è abitato da un dio, quale sia non sappiamo» disse Evandro «così come questo colle dalla cima frondosa. Gli Arcadi credono di aver visto lo stesso Giove mentre con la destra scuote la nera egida e scatena tempeste. Vedi qui anche due cittadelle dalle mura cadenti, reliquie e monumenti di uomini antichi. Una la fondò il padre Giano, l'altra Saturno; questa fu chiamata Gianicolo, l'altra Saturnia». E così parlando fra loro, Enea ed Evandro si avvicinavano alle case umili del re e qua e là udivano muggire armenti dove ora sono il Foro Romano e le splendide carine [45].

    Questa passeggiata di Evandro ed Enea fra i luoghi che 'saranno' un dì Roma è un eosodio letterario di grande effetto: costituisce una sorta di ritorno al futuro, tutto giocato =n'è fra un "passato" che è già tale per Evandro (l'Argileto, le cittadelle di Giano e Saturno. e un "passato" che è tale solo per il lettore di Virgilio - ma che per Evandro costituisce necessariamente un di là da venire. Il nodo dell'invenzione, comunque, resta sempre lo stesso: il legame fra luoghi cittadini da un lato, e fabulae dall'altro. Carmenta e la Porta Carnentale, Romolo e l'Asilo, l'Argileto e l'ospite Argivo... La passeggiata di Evandro ed Enea si snoda attraverso luoghi/racconto. In questo senso, il caso dell'Argileto è addirittura esemplare. Indicandolo ad Enea, Evandro trova infatti modo di alludere alla tragica vicenda che dette nome a questo luogo: un ospite Argivo (Argi-) vi aveva trovato la morte (-letum). ucciso dagli Arcadi [46]. Ma come si è visto, Evandro non si limita a raccontare questa storia, egli "invoca" direttamente questo luogo, chiamandolo a testimone di quanto è avvenuto (testaturque locum): la fabula/luogo si fa realmente "parola", il rapporto fra luogo e racconto assume la forma di un "dialogo" fra questi due poli.
    II fatto è che comunque la si percorra - all'indietro, come fa Properzio, o in avanti, come fanno l'Evandro e l'Enea di Virgilio - la Città è comunque caratterizzata da una omografia che prende "senso" dalle antiche fabulae: proprio come, per parte loro, quei racconti trovano la loro verifica e il loro fondamento nei luoghi cittadini che da essi prendono senso. Il mito "è" la Città. 


    NOTE

    1 Platone, Fedro, 229 e sgg.
    2 E in questo modo che PALEFATO (IV-III a. c.?), nelle sue Storie incredibili, 28, cercava di rendere `verisimili' il Pegaso e la Chimera evocati anche nel Fedro: allo stesso procedimento l'autore sottoponeva peraltro numerose altre creature ed invenzioni mitologiche (A. SANTONI, Palefato. Storie incredibili, Pisa, ETS, 2000, p. 85).
    3 K. O. MÜLLER, Prolegomeni a una mitologia scientifica, trad. it. di A. CARZYA, Napoli, Guida, 1991, p. 151 (Prolegomena zu einer wissenschaftlichen Mythologie, Göttingen, Vandenhoeck und Ruprecht, 1825).
    4 M. BETTINI, Il mito fra autorità e discredito, "L'immagine riflessa", XVII, 2008, pp. 27-64.
    5 Quando Odisseo, nella reggia di Alcinoo, narra ai Feaci i propri vagabondaggi, la sua storia è chiamata múthos (Odissea 3, 94; 4, 234); così come múthoi sono spesso definiti i discorsi pronunziati dagli eroi omerici nel corso dei poemi.
    6 G. RISPOLI, Lo spazio del verisimile. Il racconto, la storia e il mito, Napoli, D'Auria, 1988, pp. 29 sgg.; G. NADDAF, Introduction, in L. BRISSON, Plato the Myth Maker, Chicago, University of Chicago Press 1998, translated, edited and translated with an introduction by G. NADDAF (Platon les mots et les mythes, Paris, Maspero, 1982), pp. VII-LIII; B. LINCOLN, Theorizing Myth, Chicago, Chicago University Press, 1998, pp. 3 sgg.; M. BETTINI, Il mito fra autorità e discredito, op. cit., p. 27.
    7 ESIODO, Opere e giorni, 206.
    8 OMERO, Iliade, 15, 202.
    9 OMERO, Iliade, 1, 25; 9, 309.
    10 B. LINCOLN, Theorizing, op. cit., pp. 3 sgg.; M. BETTINI, Il mito fra autorità e discredito, op. cit.
    11 B. LINCOLN, Theorizing, op. cit.; soprattutto C. CALAME, Mythe et histoire dans l'antiquité grecque, Lausanne, Editions Payot, 1996.
    12 M. BETTINI, Weighty Words, Suspect Speech: fari in Roman culture, "Arethusa", XLI, 2008, pp. 313 sgg.
    13 L. FERRO, Intorno a fabula. Ricerca sull'efficacia di una parola screditata, tesi di dottorato, Università degli Studi di Siena, dottorato in Antropologia del Mondo Antico, 2005, pp. 228 sgg.; L. FERRO e M. MONTELEONE, Miti romani, Torino, Einaudi, 2010.
    14 Per Heyne cfr. F. GRAF, Die Entstehung des Mythosbegriffs bei Christian Gottolob Heyne, in Mythos in mythenloser Gesellschaft. Das paradigma Roms, herausgegeben bei F. GRAF, Teubner Stuttgart und Leipzig editore, 1993, pp. 284 sgg.; P. G. BIETENHOLZ, Historia and fabula: myths and legends in historical thought from antiquity to the modern age, Leiden New York, Brill, 1994, pp. 251 sgg., pp. 282 sgg. Cfr. G. B. Vico, Principij di scienza nuova, 1744, in A. BATTISTINI, Vico. Opere, Milano, Mondadori, 1990, I, pp. 585 sgg. (Della logica poetica: uomini ancora "muti" che attraverso il múthos - messo in connessione con l'aggettivo latino mutus - si esprimevano).
    15 G. W. MOST, From Logos to Mythos, in From Myth to Reason?, a cura di R. BUXTON, Oxford, Oxford University Press, 1999, pp. 25 sgg. Sottolineiamo il modo in cui suonava il titolo di una delle opere più influenti (forse la più influente) nel panorama ottocentesco degli studi dedicati al mito: K. O. MÜLLER, Prolegomena zu einer wissenschaftlichen Mythologie, op. cit.; trad. it. Prolegomeni a una mitologia scientifica, op. cit. Ecco la nuova parola magica capace di svelare i misteri del mito: wissenschaftlich.
    17 C. CALAME, Poétique des mythes dans la Grèce antique, Paris, Haehette 2000, pp. 11 sgg.; C. PIGNATO, Totem, mana, tabù. Archeologia di concetti antropologici, Roma, Meltemi, 2001.
    18 Su questi argomenti la bibliografia è ovviamente sterminata. Rimandiamo all'eccellente saggio di W. BURKERT, Mythos-Begriff, Struktur, Funktion, in Mythos in mythenloser Gesellschaft, op. cit., pp. 9 sgg.; un'utile sintesi è tuttora offerta da E. M. MELETINSKIJ, Il mito. Poetica, folclore ripresa novecentesca, trad. it. Roma, Editori Riuniti, 1993.
    19 C. O. MÜLLER, Prolegomeni a una mitologia scientifica, op. cit., pp. 214 sg.
    20 W. F. OTTO, Il mito, Stuttgart, 1962 = trad. it. Genova, Il Melangolo 1993: G. MORETTI, ibidem, Presentazione, 7 sgg.
    21 W. BURKERT, Mythos-Begriff, Struktur, Funktion, op. cit., p. 17.
    22 HALBWACHS, Les cadres sociaux de la mémoire, Paris, Presses Universitaires de France, 1952, p. 291; La memoria collettiva, trad. it. a cura di P. JEDLOWSKI. Postfazione di L. PASSERINI, Milano, Unicopli, 1987 (La mémoire collettive, Paris, Presses Universitaires de France, 1968); sulla teoria della memoria in Halbwachs si vedano le considerazioni di J. ASSMANN, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, trad. it. Torino, Einaudi, 1997, pp. 5-22 (Das kulturelle Gedächtnis. Schrift, Erinnerung und politische Identität in frühen Hochkulturen, München, Beck, 1992); sulle teorie di Halbwachs si vedano anche le riflessioni di P. BURKE, La storia come memoria sociale, in Sogni gesti e beffe, trad. it. Bologna, il Mulino, 2000, pp. 59 sgg. È merito ancor vivo di Halbwachs l'aver sottolineato con forza questo carattere intrinseco al funzionamento della memoria collettiva, in una dimensione che può essere definita "sociocostruttivista": cfr. J ASSMANN, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, op. cit., p. 22.
    23 HALBWACHS, La topographie légendaire des évangiles en Terre Sainte, Paris, Presses Universitaires de France, 197] (=1941), p. 123.
    24 LIVIO, Dalla fondazione di Roma: Praefatio, l sgg.
    25 LIVIO, Dalla fondazione di Roma, I, 1 sgg.
    26 LIVIO, Dalla fondazione di Roma 6, 1. Si rammenti anche lo scetticismo che Livio manifesta in 8, 40 a proposito della "memoria alterata dalle lodi funebri".
    27 1, 21, 1; M. DETIENNE, L'invenzione della mitologia, trad. it., Torino, Bollati Boringhieri, 1983, pp. 71-82; C. CALAME, Mythe et histoire, op. cit., pp. 29-30; P. G. BIETENHOLZ, Historia and fabula, op. cit., pp. 23-33.
    28 A. W. GOMME, A Historical Commentary on Thucydides: the Ten Years' War, Oxford, Clarendon Press, 1956-1970, p. 149; C. CALAME, Mythe et histoire, pp. 38-39.
    29 LIVIO, Dalla fondazione di Roma, Praefatio.
    30 LIVIO, Dalla fondazione di Roma, 1, 3-4. Sui motivi che condussero all'inserimento della dinastia albana fra Enea e Romolo - la discrepanza fra la data della fondazione di Troia e quella della fondazione di Roma - cfr. la discussione di E. CRUEN, Culture and National Identity in Republican Rome, Ithaca - New York, Cornell University Press, 1992, pp. 20 sgg., pp. 32 sgg; E. NORDEN, P. Vergilius Maro Aeneis Buch VI, Stuttgart und Leipzig, Teubner, 1995 (= 1927), p. 276, sottolinea la sottile ironia del commento di Livio. La versione rappresentata da Nevio e da Ennio, secondo cui Enea è direttamente il padre di Ilia e dunque il nonno di Romolo, senza alcuna mediazione è rappresentata da SERVIO, Commentario all'Eneide, 6, 677; SERVIUS AUCTUS, Commentario all'Eneide 1, 27 (J. VAHLEN, Ennianae Poesis reliquiae, I e II, Amsterdam, Hakkert, 1963 (=1903): I CLIII-CLIV; N. M. HORSFALL and J. N. BREMMER, Roman Mith and Mythography, London, University of London Bulletin Supplement 52, 1987, p. 22). Questa versione, che venne ripresa anche da alcuni poeti dell'età di Augusto, ignorava però le esigenze della cronologia e cancellava la presenza dei re albani (ORAZIO, Carmi, 3, 3, 31, cfr. 1, 2, 17; Carme secolare, 50; TIBULLO, Elegie, 2, 5: cfr. E. NORDEN, Vergilius Maro Aeneis Buch VI, op. cit., pp. 276-277). Sulla genealogia degli Iulii nei poeti augustei, raccolta di materiali in H. J. BÄUMERICH, Über die Bedeutung der Genealogie in der römischen Literatur, Diss. Köln, 1964, pp. 81 sgg.
    31 S. FREUD, Cinque conferenze sulla psicanalisi, in Opere complete, trad. it. a cura di C. L. MUSATTI, 6, Torino, Boringhieri, 1974, pp. 155 sg.: si tratta comunque di una nozione che Freud applica più volte nella sua opera, in particolare a proposito dell'interpretazione del sogno.
    32 La questione della "leggenda troiana" a Roma, dell'affidabilità o meno delle tradizioni mitiche che ci tramandano l'origine della città. e della diversa matrice da cui i singoli filoni narrativi promanano, è delle più dibattute. All'elaborazione del mito delle origini di Roma avevano infatti contribuito intellettuali greci, leggende locali, poeti e storici romani, ragion per cui esso si presenta per noi nella forma di uno sterminato insieme di varianti: cfr. soprattutto la sintesi di E. CRUEN, Culture and National Identity in Republican Rome, op. cit., pp. 7-51; HORSTALL, op. cit., 12-24. Dello sterminato ma controverso lavoro compiuto da ANDREA CARANDINI su questi temi. ricordiamo solo Archeologia del mito, Torino, Einaudi, 2002; La leggenda di Roma, 3 voll., Milano, Mondadori Fondazione Lorenzo Valla, 2006.
    33 Scholaa Veronensia all'Eneide, 2, 717: G. RADKE, 250.
    34 SERVIUS AUCTUS, Commentario all'Eneide, 1, 270; DIONIGI di ALICARNASSO, Storia romana, 1, 67; VALERIO MASSIMO, Fatti e detti memorabili, 1, 8, 7: G. RADKE, pp. 248 sgg.
    35 G. RADKE, Die Götter Altitaliens, Münster, Aschendorff, 1965, p. 251; soprattutto A. DUBOURDIEU, Les origines et le développement du culte des Pénates à Rome, Rome, Ecole Française de Rome, Palais Farnèse, 1989, pp. 220 sgg.
    36 LIVIO, Dalla fondazione di Roma, 1, 6, 3 sgg. - 7, I sgg.
    37 LIVIO, Dalla fondazione di Roma, 5, 52.
    38 CICERONE, Sulla divinazione, 2, 70.
    39 LIVIO, Dalla fondazione di Roma, 1, 17.
    40 G. WISSOWA, Religion und Kultus der Römer, München, Beck, 1971 (=1912), pp. 153 sgg.; G. RADKE, Die Götter Altitaliens, op. cit., pp. 209 sgg.: l'identificazione di Romolo con Quirino è attestata per noi a partire da Ennio, III-II secolo a.C.; su Quirinus cfr. G. DUMÉZIL, La religione romana arcaica, trad. it. Milano, Rizzoli, 2001 (= 1977), pp. 224 sgg.
    41 M. BETTINI, Antropologia sonora della cultura antica, Torino, Einaudi, 2008, pp. 90 sgg.
    42 B. MALINOWSKI, Argonauti del Pacifico occidentale, trad. it Roma, Newton Compton, 1973, pp. 287 sgg. Una versione più essenziale di questa tipologia in The Foundations of Faith and Morals, in Sex, Culture and Myth, New York, Harcourt, Brace & World, 1962, pp. 304 sgg. Sulle categorie individuate da Malinowski e la loro utilità per lo studio dei materiali melanesiani, cfr. WHITTAKER, GASH, HOOKEy and LACEY, Documents and Readings in New Guinea History, Milton, The Jacaranda Press, 1975, pp. 8 sgg. (con una vasta raccolta di testi); sul pericolo che la tipologia di Malinowski venga frettolosamente fatta coincidere con quella classica, europea, di "favola, leggenda, mito", cfr. C. CALAME, Mythe et histoire, op. cit., pp. 24 sg. Calame si riferisce non alla esposizione contenuta negli Argonauts, ma a quella che sta in un saggio minore dell'autore: la versione ampia si presta assai meno a possibili confusioni.
    43 MALINOWSKI, Argonauti, op. cit., p. 288.
    44 PROPERZIO, Elegie, 4, 1, 1 sgg. Sui monumenti della città di Roma come "luoghi della memoria" cfr. M. BEARD, Gli spazi degli dei, le feste, in: a cura di A. GIARDINA, Storia di Roma dall'antichità a oggi. Roma antica, Bari, Laterza, 2000, pp. 37 sgg. Sul rapporto che i Romani sentivano fra "luogo" e "rituale", esemplare Livio, Ab urbe condita, 5, 52, 5 sgg.; su Properzio in particolare T. S. WELCH, The Elegiac Cityscape: Propertius and the Meaning of Roman Monuments, Columbus, Ohio State University Press, 2005.
    45, Eneide. 8, 337 sgg.
    46 Varianti diverse di questo racconto sono presenti in SERVIO, Commentarium in Aeneidem, 8, ad v. 345.

    (Miti di città, ed. Monti dei Paschi di Siena 2010, pp. 17-35)


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