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    Distanziamento sociale,

    un adattamento complesso

    Rosella De Leonibus

    Prossemica, questa parola, che racconta la danza delle distanze, ci serve per capire meglio cosa implica per noi umani la necessità del distanziamento sociale come prevenzione dal contagio, rispetto al Covid19. È lo studio della componente “spazio” della comunicazione non verbale.
    Tutti sappiamo come ogni processo comunicativo si possa svolgere sulla base delle parole, dei discorsi, delle interlocuzioni verbali, oppure (o più spesso in contemporanea) sulla base della mimica, dello sguardo, dei movimenti e dei gesti del corpo, della postura, del tono della voce, dell’abbigliamento, e… dei vari modi di posizionarsi rispetto allo spazio condiviso.
    Ogni essere umano ha assorbito per via imitativa, lungo l’arco dei millenni, una serie di codici comunicativi che vengono trasmessi di generazione in generazione, rispetto alle posizioni nello spazio e all’uso dello spazio condiviso. Sono codici che appartengono anche al regno animale, dove per esempio il posto occupato nel branco (davanti, dietro, al centro) riproduce e rende visibili i livelli gerarchici e la funzione dei diversi componenti. Lo stesso si osserva rispetto all’ordine di accesso al cibo, come anche, tra i primati, rispetto alla possibilità di avvicinarsi al corpo gli uni degli altri per il grooming, quella pratica sociale di pulizia che tanto rileva nel consolidamento dei legami di appartenenza e del ruolo di cura non solo a livello intrafamiliare, ma anche tra le diverse famiglie del gruppo. Idem nel definire territori e gerarchie quando si incontra un proprio simile non appartenente al branco, oppure un potenziale nemico.

    Le nostre “bolle” spaziali

    In particolare come umani, pur nelle varie articolazioni che tutto ciò assume nelle diverse tradizioni culturali, abbiamo codificato una serie di regole implicite di vicinanza/distanza che rendono possibile comunicare a livello sociale le intenzioni e i ruoli reciproci. Intima, personale, sociale, pubblica, sono le quattro “bolle” spaziali che caratterizzano diverse tipologie di relazione, tra noi bipedi acculturati.
    La zona pubblica, ad oltre tre metri di distanza, è l’area che caratterizza la relazione tra sconosciuti. Si può vedere l’intera figura, da questa distanza, e si è in grado di studiare le mosse dell’interlocutore, il quale, in quanto sconosciuto, non può essere ancora classificato come amichevole oppure come ostile.
    Tra i tre metri e il metro e mezzo di distanza c’è l’area sociale, la distanza che si definisce quando i due interlocutori possono allungare entrambi le braccia per arrivare a toccarsi: a questo livello possiamo ancora vedere la figura intera, ma possiamo anche avvicinarci con un piccolo movimento, e questo corrisponde al livello di contatto che si può stabilire con un conoscente o un collega. Dalle rispettive zone sociali ci si può sporgere per darsi la mano, ma non per abbracciarsi: bisognerebbe avvicinarsi molto di più, e valicare l’area personale. Quest’ultima corrisponde all’incirca ad un metro di distanza, poco di più della lunghezza di un braccio protratto in avanti, uno spazio valicato solo da amici e parenti. Alla distanza personale, chiunque dei due può arrivare a toccare l’altro con un solo piccolo spostamento, mentre a livello visivo non c’è più la possibilità di inquadrare la figura intera… Ciò presuppone fiducia, abbassamento delle difese, attribuzione di amicalità all’interlocutore e attribuzione di dominanza a chi dei due dà il permesso all’altro di avvicinarsi. C’è anche la variante per cui uno dei due si avvicina per primo all’altro in una relazione di sottomissione; in quel caso avrà cura di occupare la parte bassa dello spazio personale e non quella superiore (es. inchinarsi per baciare la mano insegno di reverenza). Solo una volta valicata l’area personale ci si può abbracciare e baciare. Siamo nell’area intima, che corrisponde alla lunghezza dell’avambraccio. Qui lo sguardo inquadra l’interlocutore in primo piano, ed entrambi sono liberi di toccarsi senza doversi spostare neppure un centimetro, guardarsi negli occhi e percepire tutte le emozioni dell’altro. A questa distanza si percepiscono distintamente anche gli odori corporei, la grana della pelle, le goccioline di sudore, la dilatazione della pupilla, e tutti i segnali neurovegetativi che si attivano con i vissuti emozionali.

    Neuroni specchio e interazioni sociali

    È stato per primo Konrard Lorenz, il ricercatore che ha formulato il concetto di imprinting, ad affermare che lo spazio fra una persona e l’altra non è mai “vuoto”, ma carico di messaggi che comunicano implicitamente: “avvicinati!”, “allontanati!”.
    Uno studio più recente (https://www.psicologianeurolinguistica.net/…/comunicazione-…) ha rilevato che esistono due tipi di neuroni specchio, capaci di attivarsi e disattivarsi in rapporto a quanto l’interlocutore sia vicino o distante. Per poter entrare in funzione, hanno bisogno di un segnale di movimento. Il seguito dipende poi dall’area in cui si avvia il segnale di movimento, dentro o fuori rispetto alle diverse zone prossemiche. Se questo movimento avviene all’interno o all’esterno delle varie aree prossemiche, si attivano solo i neuroni che servono per interagire nella vicinanza o quelli per interagire nella lontananza…
    Quindi, i famosi neuroni specchio non soltanto sono capaci di riconoscere cosa sta facendo l’interlocutore, ma funzionano anche per indicare come, quando, e soprattutto in che direzione interagire.
    Si può intuire quanto sia complesso per noi umani adattarci ad una nuova prossemica, un nuovo linguaggio degli spazi. In particolare in quelle aree culturali in cui storicamente la vicinanza dei corpi è stata più abituale, e quindi le nuove prossemiche rese necessarie dalla prevenzione del contagio sono più distanti dalle abitudini sociali precedenti.
    Uno spunto di riflessione a parte lo riserviamo ai bambini, per i quali la vicinanza fisica e la possibilità di osservare le espressioni dei volti degli altri è costitutiva della sicurezza affettiva, della capacità di mentalizzazione e dello sviluppo dell’intelligenza emotiva. E un altro flash lo apriamo sugli adolescenti, per i quali la costruzione della propria identità corporea e di genere, e la percezione di appartenenza, sono fondamentali per i primi passaggi dello spostamento della “base sicura” dalla famiglia al gruppo dei pari, e passano per la vicinanza, il contatto e la differenziazione rispetto ai corpi dei propri coetanei. Adolescenti per i quali le pratiche di contatto ravvicinato nel gruppo dei pari costituiscono la prima esperienza di intimità relazionale esterna alla famiglia. Giovani adulti per i quali fare esperienze di vicinanza fisica coi coetanei, condividere l’intimità di uno spazio abitativo, scambiare con essi intensi contatti non verbali consolida la fiducia in se stessi e prepara all’intimità sessuale ed affettiva con una/un partner.
    Per noi umani, da millenni una maggior distanza significa ostilità, freddezza e disinteresse. “Ti ho sento distante”, si dice con una magnifica metafora prossemica, rispetto ad un interlocutore che abbiamo percepito negativamente sul piano della relazione. La vicinanza, al contrario, attiva emozioni forti, intime: “Ti sento vicino”, “Le nostre posizioni erano distanti ma poi si sono avvicinate”. E se l’avvicinamento è troppo repentino o non è stato autorizzato, evoca invasione e mancanza di rispetto: “Fatti più in là, non provare ad avvicinarti”, “Mantieni le distanze!”

    Nuove distanze, nuovi messaggi non verbali

    Ora, col virus, e con la necessità di prevenire i contagi, da cui derivano le regole di distanziamento sociale, la vicinanza fisica tra umani viene rappresentata, e rappresenta nei fatti, il massimo del pericolo, mentre il nostro stesso sistema neurovegetativo, settato sulla vicinanza e sul contatto corporeo come segnale di cura amorevole e rassicurazione, è messo in tilt. Al contrario, il distanziamento sociale e la cancellazione delle espressioni della zona inferiore del volto (connessa alla via ventro-vagale del sistema nervoso autonomo, e quindi al sorriso, al respiro e alla voce come segnali di calore e sicurezza), coperto dalla mascherina, diventano icone di civismo e reciproca protezione.
    Questa inversione, anche se è logica e può essere compresa su un piano razionale, non è facile da automatizzare. Suona controintuitiva ai nostri corpi di mammiferi, che nel contatto corporeo e nella vicinanza fisica da millenni hanno imparato ad identificare la sicurezza e l’appartenenza alla tribù.
    Questo fatto, da solo, spiegherebbe come mai sia percepito così difficile e pesante adattarsi sul medio-lungo termine a questa necessità, e come mai venga vissuta come molto frustrante e portatrice di vissuti ansioso-depressivi dalla maggior parte delle persone, e come, al contrario, generi condotte che appaiono oppositive, trasgressive e immature da parte di alcune fasce della popolazione, e come mai in parecchi si preoccupino o si indignino vistosamente davanti a tali trasgressioni. È davvero complicato per noi umani uscire da abitudini comunicative così radicate, forse le più ancestrali e istintive forme di regolazione sociale… La quantità di informazioni conflittuali elaborata dal nostro sistema nervoso è immensa e questo aumenta un senso di disorientamento e pericolo incombente. La nostra risposta naturale a stress, paura e isolamento funziona bene se è limitata nel tempo, ma se la minaccia continua a lungo, entriamo in uno stato cronico di allarme. In condizioni standard, attraverso il contatto con gli altri ritroviamo la co-regolazione, per recuperare un senso di sicurezza in noi e nel rapporto con l'ambiente esterno. Ma ora, a causa del distanziamento sociale, questa possibilità è diventata critica, e allora si regredisce facilmente a sistemi di sopravvivenza meno elaborati, del tipo lotta o fuga, attraverso l'aggressività, la ribellione o l’isolamento dagli altri. Altri si ritirano in casa, in uno stato di apatia e demotivazione.

    … e tante questioni aperte

    Resta aperto il seguente problema, che sarà importante risolvere, se le misure di distanziamento sociale saranno necessarie ancora a lungo, se dovremo assumerle come nuova abitudine sociale generalizzata per mesi e mesi e forse per anni:
    • Come ridefinire gli spazi, le distanze e il loro significato ai tempi del virus
    • Come trasmettere segnali di amicalità da una distanza che viene percepita dai nostri neuroni come appartenente all’area sociale e pubblica invece che a quella personale e intima
    • Come non lasciarci condizionare dalle leggi ancestrali della prossemica e come evitare di arrivare a vedere gli altri come nemici o estranei in base al fatto che dobbiamo tenerli a distanza
    • Come trasmettere messaggi di accettazione e calore senza il sorriso, nascosto dalla mascherina
    • Come imparare a decodificare gli stati emotivi del nostro interlocutore al di là del distanziamento sociale e dei dispositivi di sicurezza personali
    • Come utilizzare lo sguardo, la voce, le parole ed altri mediatori della distanza per sostituire l’abbraccio, il sorriso e il contatto corporeo con le bambine e i bambini quando si è adulti di riferimento (educatori, insegnanti, istruttori sportivi, animatori…) ma non congiunti
    • Come poter garantire agli adolescenti e ai giovani adulti adeguati spazi per scambiarsi affettività e socialità ad alta intensità corporea, senza che debbano trovarsi nella posizione di trasgressori
    Il problema, se le misure di prevenzione dovessero durare ancora a lungo, diventerebbe molto più delicato e importante di quanto possa sembrare a prima vista. Pensiamoci un attimo, questa nuova prossemica sta avendo impatto su tutte le nostre interazioni sociali.

    (“Rocca” n. 14 - 15 luglio 2020)


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