Prìncipi e ranocchi
Rubem Alves
Quando dico a qualcuno che sono psicanalista, inevitabilmente mi sento chiedere: «E che cos'è la psicanalisi?». I più istruiti, che già hanno sentito parlare o hanno letto su questo tema, lasciano da parte le introduzioni e passano subito all'esame delle posizioni: «Qual è la linea che lei segue?». Mi vien voglia di rispondere che alla retta preferisco la linea curva; in questo non sarei infedele allo spirito della psicanalisi, per cui la curva è sempre il cammino più breve tra due punti. Ma so che non capirebbero, perché ciò che vogliono sapere è se sono freudiano, kleiniano, bioniano, junghiano, lacaniano... Sta di fatto però che questo non è il mio modo di procedere. Siccome preferisco le curve alle rette, seguo i consigli di Guimaràes Rosa: rispondo solo a domande che nessuno ha posto. E così, un po' in stile orientale, racconto una storia.
C'era una volta un principe che aveva una voce meravigliosa: incantava tutte le creature che l'udivano. Il suo canto era così melodioso che incantò perfino una strega che abitava nella nera foresta, la quale s'innamorò di lui. Ma invece di accontentarsi di ascoltare il principe, come facevano tutti, la strega decise di cantare con lui. «Che bel duetto faremo!», pensò. E si mise subito a cantare. Ma, si sa, le streghe sono stonate. Bastava che aprisse la bocca perché uscissero i suoni più bizzarri, simili al gracidare delle rane, provocando fischi generali. Piena di rabbia, la strega lanciò contro il principe il più terribile degli incantesimi: «Se non posso cantare come canti tu, farò che tu canti come me!». Detto fatto, il principe fu trasformato in ranocchio. Pieno di vergogna per il suo nuovo aspetto, si nascose nelle profondità di una laguna, dove abitavano le rane e i rospi. Egli adesso assomigliava in tutto ai batraci, eccetto in una cosa: continuava ad avere la voce meravigliosa di sempre. Ma questa volta il suo canto non piaceva alle rane che sanno solo gracidare. Il nuovo canto suonava alle loro orecchie come una cosa di un altro mondo, che turbava la concordanza della loro monotonia ranesca. Lo ammonirono: «Chi vive con le rane deve gracidare come le rane». Il principe ranocchio smise il suo canto e non ebbe scelta: dovette imparare a gracidare come tutti i suoi vicini facevano. E tanto ripeté il verso delle rane che dimenticò i canti di prima. No, non dimenticò... perché quando dormiva ricordava e udiva l'antica musica proibita che continuava a cantargli dentro. Ma quando si svegliava, dimenticava. Non del tutto, però. Gli restava una nostalgia indefinibile. Ma non sapeva bene di che cosa. Nostalgia che gli diceva che stava lontano, molto lontano da casa.
Questo è il riassunto della psicanalisi, come io la intendo. È una storia dove si trovano mescola-ti amore, bellezza, incantesimo della dimenticanza. Siete rimasti delusi? Vi aspettavate forse nomi famosi e concetti complicati? E invece vi racconto una storia di fate. «Parole per far dormire i bambini», direte. Ma io aggiungo: «e per far sì che gli adulti si sveglino». La psicanalisi è una lotta per rompere l'incantesimo della parola cattiva che ci ha fatto addormentare e dimenticare la bella melodia.
È ascoltare attentamente una canzone che si ode solo nell'intervallo di silenzio del gracidare delle rane e che arriva a noi in piccoli e fugaci frammenti sconnessi. È una battaglia per farci tornare al nostro destino originale, scritto nei fondali del mare dell'anima.
Alcuni pensano che psicanalisi e poesia siano cose da pazzi. C'è anche un adagio: «Ecco un incontestabile fatto: tutti hanno un po' del poeta e del matto». Le rane, udendo le canzoni del principe-poeta, potevano solo commentare: «È poeta! È matto!». E si erano riproposte di curarlo, educandolo alla realtà. Per loro essere normali è gracidare come tutti gracidano. Ma l'anima, in mezzo alla rumorosa monotonia della vita, continua a udire una voce che viene negli intervalli.
Continua a piangere nell'udire una melodia sconosciuta. Continua a sentire la parola di un estraneo che abita in noi e che ci visita nei sogni. Continua a essere bruciata dalla brace della nostalgia di un focolare dimenticato, dal quale siamo in esilio.
È possibile che le rane vivano più tranquille. Anzi non v'è dubbio: per loro tutti i problemi sono già bell'e risolti. Ma esiste una felicità che abita solo nella bellezza. E questa noi l'incontriamo solo nella melodia che suona, dimenticata e repressa, nel fondo dell'anima.
(FONTE: Pedagogia del desiderio, EDB 2015, pp. 25-28)