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    “Renditi”. Virtù per la speranza


    Paolo Carlotti

    (NPG 2021-05-13)


    Un carattere - ancor di più una virtù - si forma, non è formato da altri o da altro. E per la speranza, umana o cristiana che sia, non basta un carattere, ma occorre una virtù aperta alla trascendenza, meglio se aperta a Dio, ancor di più se aperta al Dio di Gesù Cristo. Nelle note che seguono, che si pongono da un punto di vista teologico-morale e a questo cercano di limitarsi, vorrei sviluppare questo pensiero che, leggendo la proposta fattami di stendere queste righe, mi è letteralmente saltato in mente rimanendovi a lungo. Riavvicinando ancora una volta le parole rivolte a Giovannino Bosco, mi colpisce adesso quel “renditi”, segno di una responsabilità inalienabile e immediata di fronte ad una inadeguatezza da colmare, che risultò colmabile solo da parte sua nel cambio non di qualcosa ma di sé. Non sono in primo luogo gli altri da cambiare, pur difettosi, ma invece è proprio lui che deve cambiare con un cambio che solo lui può apportare e che altri non possono apportare per lui: un compito non delegabile, in cui non si può essere sostituiti da nessuno. Giovannino non era migliore dei suoi compagni riottosi e litigiosi, infatti utilizza i loro stessi metodi violenti: percuote. Non è così - “non con le percosse” - che si può cambiare le persone e non cambiando le persone le situazioni sarebbero rimaste sicuramente le stesse, non sarebbero mutate, ma sarebbero andate avanti in triste ripetizione.
    Infatti, aggiungerebbe la riflessione morale: il miglior e più efficace modo per cambiare lo stato del mondo è far sì che le persone che lo abitano migliorino la loro qualità morale: i sistemi, i programmi, i piani, le istituzioni e quant’altro vengono dopo, molto dopo, pur necessari per la loro specifica finalità ma non oltre. È decisivo e insostituibile la decisione del soggetto personale rispetto a se stesso. Mi sembra risieda qui l’opzione preferenziale educativa che guiderà sempre Giovannino e don Bosco: sollecitare con la propria persona il giovane ad educarsi, al prendersi cura morale di sé, per divenire persona buona e migliorare la società: un compito svolto direttamente da Giovannino, che aveva capito che solo lui poteva farlo e nessun’altro poteva sostituirlo. Come cadono ‘a fagiolo’ le parole di papa Francesco quando lamenta che nella Chiesa in passato si è addirittura preteso di sostituire le coscienze anziché di formarle! Siamo di fronte ad un magistero che è educativo come nessun altro lo fu nel passato! E tuttavia questa verità così semplice ed evidente è oggi quasi dimenticata ed oscurata, da un affollarsi di altre prospettive e considerazioni, che rischiano di disorientare e di confondere. Quel ‘renditi’ la riporta al suo posto, al posto giusto, quello centrale.

    Bontà normativa e bontà virtuosa

    Il compito prospettato non era di poco conto: occorreva cambiarsi in modo tale da indurre cambiamenti nei compagni: una soluzione era esclusa, quella di essere fisicamente più forti in modo tale da farsi temere e potersi imporre, anche con l’uso della forza. Sembrava - e ahimè sembra - la soluzione più logica, anzi l’unica pensabile e praticabile, l’unica che potesse risultare efficace e assicurare un risultato positivo ed effettivo. Va da sé che la forzata omologazione comportamentale, cioè il bene imposto e compiuto per timore, non può essere bene morale della persona ed è una pseudo-soluzione, tanto fallace quanto all’apparenza valida. Non deve essere stato facile, specialmente per un ragazzo, abbandonarla e mettersi alla ricerca di un’altra soluzione e dopo faticosa e dibattuta ricerca riflessiva scoprire che ciò a cui non si dava credito, pian piano appariva come la soluzione giusta e sensata, che si dimostrò ben presto anche molto efficace: la bontà, e sorprendersi di come essa realmente in pratica funzionasse e funzionasse bene, anzi molto bene. Ciò che all’inizio era scartato come debole e inefficace si dimostrava invece nient’affatto debole e molto efficace. Ma si sa che il bene morale non si può compiere per convenienza, anche se la sua pratica risulta molto conveniente e questo lo saprà molto bene il don Bosco adulto: l’essere buoni previene tanti mali e problemi, che creano infelicità e sofferenza.
    Sembra che siano le situazioni esterne che lo hanno cambiato, ma non è assolutamente così, non è mai così. Gli agenti esterni inducono adattamenti, ma non cambiamenti che sono indotti solo dagli agenti e moventi interni. Fu lui, Giovannino a capire e a decidere diversamente fino a rendersi una persona interamente buona. Il bene a cui invitava era un bene suo, che viveva, che aveva realmente dentro. Per questo era una persona credibile e affidabile, perché in lui non c’era un’altra persona: era solo lui e lui buono. Per questo in lui la bontà diventava effettivamente praticabile. Lo stile di vita proposto ad altri era il suo e la coerenza a cui altri invitava era prima di tutto la sua. Non era un funzionario del bene e del sacro, che ha solo un orario di ricevimento e un settore di esercizio. Non viveva la sua vita a pezzi, in tutto e sempre voleva essere virtuoso.
    Una piccola rivoluzione era avvenuta nella testa e nel cuore di Giovannino. La strada della bontà, allora come adesso, non riceve molto credito ed è considerata quella che solo i deboli o gli ingenui o i semplicioni scelgono, una strada che non è ritenuta vincente ma perdente nella arrampicata sociale per una posizione ragguardevole. Il primo cambiamento richiesto a Giovannino fu di pensare in modo profondamente diverso dagli standards sociali della società in cui viveva, proprio dando credito a ciò che era scartato e disprezzato. Doveva essere vicino e amico dei suoi compagni pur non pensando e non comportandosi come loro: una situazione non facile da mantenere, vista la pressione omologante del gruppo, che emarginava o escludeva chi non si adeguava agli standards comuni. Non poteva essere il doppio gioco del dissimulatore, ma l’agire di chi era amico pur nella critica e nel rifiuto di quei comportamenti violenti, che per altro anche lui, Giovannino, aveva avuto. Si trattava di essere amici in modo diverso da cui lo si era stati finora. Giovannino riuscì ad accreditarsi in questo modo diverso presso i suoi compagni. Capì ben presto che questo credito non poteva essere solo una posa e così lo sarebbe stato se avesse continuato ad avere in sé istinti aggressivi, controllati solo esteriormente con azioni buone, che sarebbero compiute da una persona che in sé non aveva ancora bonificato i suoi sentimenti e le sue emozioni, una persona quindi scissa, divisa in sé stessa. Questa scissione sarebbe apparsa ben presto ai suoi compagni e avrebbe corroso il nuovo credito fino a sopprimerlo. Giovannino non voleva far finta di essere buono. Oggi, per noi abitanti del mondo dell’immagine e del virtuale il rischio di essere parvenze di noi stessi, cioè di apparire senza essere, è grande. Inoltre coltivare soltanto una posa sarebbe tanto moralmente insostenibile quanto lesiva della persona e della sua felicità. Eppure proprio oggi, la differenza tra apparire ed essere è essa stessa oscurata se non soppressa, per cui apparire è automaticamente essere e esserci: l’oscuramento mediatico è tout court annullamento dell’identità, la persona è come non ci fosse. La visibilità prevale sulla realtà, che è e c’è in ciò che appare, in ciò che è visibile. Il ‘renditi’ rivolto a Giovannino e da lui ben capito, richiedeva altro e l’uso dei mezzi di comunicazione che Don Bosco adulto promosse, avevano un altro scopo - la ricerca della verità - e un altro modo - inclusivo.
    Per porre azioni veramente buone bisognava essere interamente persone buone, cioè anche nei propri pensieri e sentimenti, occorreva rendersi buoni, non solo esteriormente controllati, che pure è un livello di sviluppo morale da apprezzare come momento intermedio verso la maturità. Non si scoraggiò continuò a dire la verità: diventare buoni e santi era bello e facile. Non bastava un carattere, seppur necessario, occorreva qualcosa di più, una virtù. I comportamenti buoni non bastavano, occorrevano gli atteggiamenti buoni; le azioni buone pure non bastavano occorreva essere persone buone. Solo una persona buona è credibile e affidabile e può interrogare realmente ed efficacemente chi non lo è. Non bastava la bontà normativa di chi compie azioni buone ed evita quelle cattive, ma occorreva qualcosa in più, la bontà virtuosa che punta alla bonifica completa della persona. Ecco cosa voleva dire quel ‘renditi’, cosa implicava per sé e per la propria iniziativa di amicizia e di animazione dei propri compagni di gioco, realtà che risultavano tra loro molto legate, a tal punto che l’assenza dell’una implicava il fallimento dell’altra. Un’azione educativa buona non può essere fatta da persone cattive o anche da persone buone di bontà intermedia, e un’azione educativa che non sia buona, non è un’azione educativa. L’operatore educativo deve essere buono di bontà virtuosa, non gli basta la bontà normativa, che non può fronteggiare non solo la sfida educativa, ma ogni altra sfida, soprattutto oggi. Infatti sarebbe rimbalzata la domanda sulla effettiva consistenza della nuova strada intrapresa, della sua piena praticabilità e quindi se non fosse giusto relegarla nel limbo delle ‘pie intenzioni’, idealizzazioni che giustamente meritano di essere attribuite solo agli sciocchi. Il Don Bosco adulto sapeva tutto questo molto bene, e invitava alla contemplazione e alla pratica della bellezza della virtù: un Hans Urs von Balthasar non avrebbe detto una cosa diversa. La virtù praticata appare nella sua bellezza e Giovannino e poi don Bosco ne ebbero esperienza personale e ne subirono il fascino che durò a lungo, e quando invitavano alla virtù, non bleffavano, non assumevano una posa, dicevano la verità della buona pratica della loro vita. Così la loro vita divenne interrogazione e stimolo prima, ed esempio e modello poi di una vita virtuosa, che permetteva sport e gioco, ricreazione e divertimento veramente belli e attraenti. La virtù rende infatti ogni piacere veramente un piacere, perché è un piacere integrato nell’identità personale e ne diventa espressione. I piaceri ricercati per se stessi, contro il significato della persona, perdono la loro piacevolezza, ubriacano ma non ricreano, inducono facilmente dipendenza e non liberano la libertà. Anche in questo Giovannino doveva resistere efficacemente al suo contesto sociale e lo fece efficacemente promuovendo una logica e una dinamica alternativa, concentrandosi sul positivo, che è la strategia sempre vincente di ogni pratica che vuol sottrarsi al male e mantenersi e incrementarsi nel bene.

    La società dei virtuosi

    Inoltre è importante osservare che Giovannino si formò nel momento stesso in cui aveva bisogno di formazione e non ne aveva, un’evenienza molto ricorrente nell’esperienza morale, soprattutto cristiana. Per usare un’immagine, è stato chiamato a costruire la nave quando questa era già in navigazione in mare aperto e tempestoso. Nel momento del bisogno Giovannino e poi don Bosco continuarono a costruirsi persone virtuose, un compito che non finirà mai, che accompagnerà ogni giorno della loro (e nostra) vita. L’impegno di divenire persone buone nel confronto delle diverse situazioni biografiche e storiche non finirà mai, perché non è da considerare un peso di cui liberarci il più presto possibile, come molti pensano, considerando la vita morale a pezzi e a tempi e modi prestabiliti, per poi ritornare come, ma è la base esistenziale che dà senso e gioia alla vita e alla sua pratica, capace di unificare in coerenza la persona stessa e la sua pluriforme presenza ed azione. La felicità nel tempo è possibile se la persona è unificata in sé: proprio in questo consiste la felicità. Don Bosco era unificato in sé e perciò gli era naturale essere lo stesso in ogni relazione e situazione della vita, dove era presente con l’eccellenza del suo essere persona buona di bontà virtuosa, ben consapevole non solo di offrire ma anche di ricevere molto: il suo cammino di vita cristiana riuscita è stato un cammino condiviso, non è stato una ‘scalata in solitario’. Ha sostenuto molto con il suo buon esempio, ma è stato anche sostenuto dall’esempio di altri. Ha sempre cercato di costruire una ‘società di virtuosi’ con i suoi ragazzi e giovani, una comunità che insieme fosse ricerca di autenticità e in cui ci si aiutasse a vicenda, si portasse i pesi gli uni degli altri e si gioisse delle gioie di tutti come fossero proprie. Oggi i communitaristi, una corrente consistente di filosofia morale afferma che il virtuoso si pensa e si realizza in comunità. Una comunità offre quell’esperienza di riflessione e di pratica che chi inizia a vivere non ha e non può ottenere da solo: nel modo con cui si vive concretamente ogni giorno e nel pensiero motivazionale che questo modo dispone, sono l’aiuto che si offre, sono la vera e autentica educazione.
    All’inizio affermavo che non basta un carattere ma occorre una virtù: ma qual è la differenza tra i due? Il carattere modella certo il mondo pulsionale, emotivo ed affettivo in modo tale che il soggetto ne abbia il controllo, ma la virtù motiva e spinge questo controllo verso valori personali e cristiani specifici. In teoria, anche se improbabile, potrei controllarmi per avere una capacità di violenza lucida e fredda, dove è assente il quadro di riferimento valoriale del bene relazionale comune, elemento imprescindibile per la virtù della giustizia e (poi) della carità. Inoltre ciò che è richiesto è che lo stesso processo di modulazione caratteriale sia motivato e mosso da un intento virtuoso, nel momento stesso in cui avviene e non prima o dopo, intervenendo - diciamo noi - ‘a giochi fatti’. Per esempio la castità implica il carattere continente, ma la continenza non è la virtù della castità, che ha prerogative ulteriori, umane e cristiane.
    Non ho più spazio a mia disposizione e debbo essere continente. Avevo nel sottotitolo indicato le virtù per la speranza, che sono però da rimandare. Tuttavia l’umiltà permette alla persona di fare veramente in modo gratuito il bene, senza imprimervi il marchio del proprio ego e del proprio potere. La fortezza rende capaci di essere realmente alternativi al male, con la resistenza nelle avversità, cioè di fronte a logiche, cioè modi di pensare, e a dinamiche, cioè modi di agire, segnati negativamente, con la convinzione di poter recuperare sempre e tutti e tutto al bene, una possibilità che rimane volutamente sempre aperta. Non saprei individuare qualche riferimento per la robustezza, se non nell’evitare un’esperienza di fede sdolcinata, intimistica e lontana dal mondo. Queste tre virtù sono necessarie alla speranza, oggi.


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