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    La guerra non dichiarata


    Perché in Italia tutto è iniziato prima del Coronavirus e perché non è ancora finita

    Stefano Paleari

    (NPG 2021-01-25)



    Il nostro tempo è un continuo oscillare tra un ossessionante presente e un anestetizzante passato, tra quotidianità e storia, tra rapidità e lentezza. In questo modo ci sfuggono le tendenze della contemporaneità, quelle che si fermano al passato prossimo, che si annidano nella nostra esistenza percorrendo la generazione. Se facciamo per l’Italia l’esercizio di osservare quello che sta avvenendo con la metrica della contemporaneità non possiamo fare a meno di notare tendenze preoccupanti, tratti capaci di dissolvere la retorica della politica, delle false promesse, dei ripetuti inganni.
    Riconoscerlo ha almeno due vantaggi. Permette in primo luogo di non dare tutte le colpe alla drammatica pandemia che il mondo intero sta affrontando ormai da un anno e, in secondo luogo, offre lo spunto per una riflessione tesa a immaginare una società futura al di fuori dei paradigmi dell’ultimo dopo guerra.
    Da questa premessa è nata due anni fa la riflessione che mi ha portato alla scrittura di un libro La guerra non dichiarata. Un testo che scava nelle tendenze del nostro Paese, nelle sue trasformazioni anche rispetto al confronto europeo e che porta a riconoscere nel periodo successivo alla crisi del 2008, l’inizio di un decennio di guerra. Guerra non tradizionalmente intesa, e infatti si dice “non dichiarata” ma non meno rilevante nella profondità dei processi generati.
    Il tutto per proporre, in termini il più possibile divulgativi e ai giovani, chiavi di lettura della realtà e dei suoi possibili sviluppi, affrontare la complessità bilanciando competenza e chiarezza, esprimere una consapevolezza nel guardare al futuro. Esso si concentra dunque sul periodo successivo alla crisi del 2008 e vuole dimostrare come l’Italia abbia sperato nell’estate eterna. Alla pari di una cicala, ha vissuto alla giornata, cullata nel suo eterno presente alla ricerca di uno o più capri espiatori che le evitassero di fronteggiare le drammatiche tendenze in atto. E così facendo le ha aggravate, sia in termini assoluti, sia in termini comparativi rispetto ai principali Paesi europei, e ciò numeri alla mano. Non capendo, o facendo finta di non capire, che l’Europa è al tempo stesso luogo di cooperazione e di competizione. E che si è credibili tanto più si è capaci di cambiare, di guardare in faccia la realtà e di affrontarla. Per essere “padroni a casa propria” bisogna essere bravi, per chiedere un’Europa diversa bisogna dare un esempio migliore.

    Tra desiderio e possibilità

    Quanto sopra mi permette di esprimere anzitutto un trade-off tra il desiderato e il possibile. Il “desiderato” perché la passione per un Paese migliore non ci deve mai abbandonare e il “possibile” perché tante ricette che si leggono per affrontare i problemi annosi dell’Italia peccano nella prova più semplice, quella di essere o percorribili o efficaci.
    C’è poi un secondo elemento, quello metodologico che, pur nella consapevolezza della supremazia dei principi e dei valori sui mezzi, considera il dato, il numero, come fattore imprescindibile – ancorché materia grezza - per la comprensione dei fenomeni e dei loro possibili sviluppi. Con una precisazione, e cioè che ci sono numeri più rappresentativi di altri; li definirei “numeri sorgente”. A titolo di esempio, la riduzione della natalità e l’invecchiamento della popolazione plasmano l’economia e la società italiana più di ogni altro intervento e si dispiegano in mille rivoli; sono “la goccia che scava la pietra”. Allo stesso modo, i trend nella spesa previdenziale, determinano l’insufficienza delle risorse per scuola, sanità e ricerca e un aggravio per le nuove generazioni. Si vuole, in altri termini, evidenziare come alcuni dati sono una forza di gravità per gli attori sociali ed economici e lo dovrebbero essere anche per le forze politiche e i loro programmi, una specie di test di credibilità.
    In aggiunta ai dati da cui ricavare considerazioni di stato e di tendenza, vi sono quelli che definirei “poli invertiti”, ovvero quelle situazioni nelle quali il mondo sembra funzionare alla rovescia, non tanto per le sopra richiamate forze economiche, quanto per le conseguenze del comportamento dei singoli individui. Il caso più eclatante nel nostro Paese è costituito dal disaccoppiamento tra potere e responsabilità. Sarebbe naturale aspettarsi una relazione positiva tra i due elementi e, viceversa, pulluliamo di situazioni che attribuiscono ampi poteri a soggetti privi di responsabilità e ampie responsabilità a persone prive di un reale potere. Questa inversione delle posizioni conduce a un processo di selezione avversa e crea una società dove le Istituzioni tendono ad essere “perimetri giuridici” privi di sostanza e dove ci si si affida agli eroi del momento (spesso indicati come “commissari straordinari” o “esperti”, anche riuniti in “task force”), ovvero coloro che, malgrado l’impotenza di fondo nel loro agire, si assumono grandi responsabilità.
    Per tornare al titolo del libro, l’uso dei termini merita una spiegazione ulteriore. Perché parliamo di guerra? Il termine risale all’antico germanico e indica contesa, discordia, scompiglio. Non è il bellum latino ma qualcosa di disordinato, con regole poco definite, dove l’affronto è in ogni guisa. E dove si assiste a un radicale cambiamento dello “status quo ante”. E qui c’è il primo obiettivo dell’opera, quello di mostrare la radicalità dei cambiamenti intervenuti negli ultimi anni, in particolare a partire dalla crisi finanziaria del 2008. Un vero e proprio sconquasso, una modifica strutturale e rapida che ha interrotto e invertito i trend storici o ne ha accelerato la cinetica, proprio come in una guerra. Il crollo della natalità, della ricchezza prodotta, della produzione industriale, dei valori immobiliari ne sono solo un esempio. E la generazione nata dopo la Seconda guerra mondiale, più di 70 anni fa, non aveva mai vissuto uno sconvolgimento simile. Il termine guerra è stato per molti anni usato per citare conflitti lontani, o per stigmatizzare l’azione di gruppi militanti privi di rappresentanza riconosciuta. Altre volte il linguaggio della guerra è stato utilizzato metaforicamente per indicare una contesa tra politici o tra soggetti economici, persino l’attività sportiva si abbevera di termini tipici della violenza di un conflitto. Ultimamente, il clima di guerra è stato evocato per descrivere le conseguenze del Coronavirus. Comprensibile, se si vuole identificare una situazione inedita a livello globale. Ma il virus per l’Italia è stato qualcosa di diverso, e cioè una perturbazione che si è abbattuta su un corpo ingracilito dall’incuria e dai rimedi omeopatici. È stato il colpo finale di un percorso già da tempo in atto. Ecco allora che nello scegliere il termine “guerra” per il titolo di questo libro ho voluto trasmettere, spero con efficacia, la portata dei cambiamenti avvenuti ben prima del 2020, lo stravolgimento intercorso e, dunque, per chi legge, la consapevolezza di quanto vissuto. C’è poi una profonda differenza tra una guerra canonica e la guerra di questi anni: come detto, nessuno l’ha dichiarata, non c’è stato l’atto formale di un Governo, di uno Stato. Né vi è stata una chiara identificazione, come nel caso dell’epidemia virale, che fa subito aprire gli occhi e modificare i comportamenti e le aspettative.
    In quanto ora analizziamo, invece, gli effetti e i relativi “danni collaterali” si sono dispiegati in modo intenso e prolungato senza che nessuno dichiarasse formalmente il conflitto. La crisi finanziaria del 2008 apertasi con il fallimento più grande della storia americana, quello della società bancaria Lehman Brothers, è stata l’evento simbolico, la rottura della continuità, una sorta di Pearl Harbor per il mondo intero. Senza attacchi navali o aerei, senza eserciti schierati ma con effetti non meno dirompenti. Non ci sono state le morti fisiche della Prima e della Seconda Guerra Mondiale. Ma ci sono, a più di dieci anni di distanza vincitori e vinti.
    E l’Italia è stata vinta, non con una guerra cruenta ma secondo il principio della “rana bollita” per usare la metafora di Noam Chomsky. Si trova oggi più povera, industrialmente più debole, più indebitata, più diseguale, con i pensionati più giovani e i lavoratori più anziani d’Europa, dove la legge rischia di essere uguale per tutti quelli che se lo possono permettere, dove la politica è il più delle volte ridotta a rappresentanza di rito, a gestione corrente del condominio senza alcuna visione. L’Italia questa “guerra” l’ha persa con quell’ambiguità tipica di un Paese che ha avuto il fascismo e la resistenza, i corpi e gli anticorpi. E anche oggi va alla ricerca di un capro espiatorio, qualcuno con cui prendersela. Ora è il turno dell’Europa, cinica ed egoista, ma prima ci sono stati i partiti politici, i meridionali, l’euro e gli immigrati.

    Che tipo di “guerra”?

    Una guerra non dichiarata e dunque priva di un formale interlocutore, qualcuno con cui ufficialmente prendersela anche da sconfitti riservando il risentimento dei vinti. A meno che non si vogliano guardare come vincitori i popoli che negli ultimi dieci anni sono emersi dal sottosviluppo, o quelli che, ancora oggi poveri, si spingono alle nostre latitudini in cerca di una speranza. In realtà, i vincitori sono dentro di noi. Dentro di noi per i nostri modi di vivere, e dentro di noi perché abitano la nostra comunità quando è abbarbicata al privilegio e alla rendita.
    In questa guerra, come in tutte le guerre, c'è una drammatica questione generazionale. Ricordiamoci che i nati nel 1899 sono stati mandati al fronte, mentre quelli del 1900 hanno evitato la Prima Guerra mondiale e anche la Seconda in termini di coinvolgimento diretto. Le guerre sono spartiacque casuali tra leve anagrafiche o, più in generale, tra generazioni. Gli ottantenni di oggi hanno visto la Seconda Guerra Mondiale e vissuto il periodo successivo come fuga dal disastro. Il periodo più brutto è stato quello iniziale della loro vita, il resto è stato vissuto, nella sostanza, come progressiva e continua conquista. Non sono mancati i periodi difficili e anche drammatici nella storia del nostro Paese, ma niente ha messo in discussione le tendenze di fondo, che sono rimaste al positivo. I cinquantenni di oggi, viceversa, non hanno fortunatamente visto nulla di veramente apocalittico ma hanno la sensazione che qualcosa sfugga al loro controllo, non riescono a immaginare un futuro. Per loro e per i loro figli non pensano di poter vivere la serenità dei genitori. E non solo dopo la pandemia virale.
    Il Ponte Morandi che cade a Genova alla vigilia di Ferragosto del 2018, non per opera di un caccia bombardiere ma per fatica, è l’evento simbolo dell’Italia dopo l’ultimo decennio. Un Paese deperito e rancoroso, invecchiato non solo negli abitanti, nelle infrastrutture, nel parco circolante delle sue automobili ma ancor di più nel suo modo di pensare e di fare, nelle sue Istituzioni, generatrici di emendamenti più che di vere e proprie leggi, e capaci di consegnare il potere alla burocrazia che da mezzo diventa fine, tutela del privilegio e quindi dello status quo dei pochi. Anche perché, questa guerra atipica, non formalmente aperta, non sarà neppure formalmente chiusa o lo sarà addossando tutte le colpe al virus.

    La situazione italiana, a confronto con quella europea

    Evidenzio ora le situazioni che ritengo di maggior interesse a supporto delle tesi di fondo. In tutti, il confronto con gli altri Paesi europei sarà sempre presente, a evidenziare che ci sono ancora strade possibili da percorrere e che senza l’Europa l’Italia rischia di non esistere più nella sua identità politica.

    Le dinamiche demografiche

    Faccio anzitutto riferimento essenzialmente alle dinamiche demografiche. I primi venti anni del nuovo secolo sono trascorsi in un batter d’occhio e gli ultimi dieci hanno innescato cambiamenti impressionanti nei tassi di natalità. Abbiamo perso un quarto di nati e vediamo sparire ogni anno, come minor numero di abitanti, una città delle dimensioni di Padova. Se non corriamo subito ai ripari l’Italia sarà un Paese abbandonato per mancanza di linfa, dove i processi che si sono avviati negli ultimi dieci anni troveranno una crescente accelerazione, come risulta dalla fuga dei giovani verso altri Paesi. Sono partito dai trend demografici perché credo che non si possa da essi prescindere, perché sono causa e effetto di altre dinamiche, perché inducono a ripensare i sistemi educativi, sanitari, lavorativi e previdenziali. Infine, perché sono la cartina di tornasole di una cultura ancorata a un presente continuo, che sembra incapace di immaginare un futuro, più desiderosa di trasferire che di creare, più attenta all’utilità immediata che all’immaginazione del futuro. La struttura del sistema pensionistico e le risorse da esso assorbite, pur in assenza di una crescita economica, rappresentano un chiaro esempio di questa deriva.

    Le macerie economiche

    Entro ora in quello che mi permetto di chiamare “macerie economiche”: prodotto interno lordo, debito, industria, infrastrutture e immobili fotografano il percorso di deterioramento degli ultimi anni. E hanno determinato profondi squilibri e iniquità, paure e ricerca di nuovi beni rifugio. Anche qui i numeri diranno chiaramente la loro. Insieme ad essi, tuttavia, verrà messa in evidenza, malgrado l’insistenza di una certa opinionistica, l’inconsistenza dell’ortodossia della sola eccellenza. Come se il problema fosse quello di avere delle punte senza appoggio, rifugi per élite e per i più fortunati. Un’ortodossia che si contrappone, paradossalmente alimentandola, alla cultura dell’assistenzialismo e dell’esproprio, quella che si svincola dall’impegno e dalla responsabilità dei singoli, scaricando sempre le colpe sugli altri. La valorizzazione delle eccellenze nei vari campi deve andare di pari passo, viceversa, con la crescita dell’insieme, della società tutta. Conta anche la media, verrebbe semplicemente da dire, non solo i valori più alti che, anche nella statistica, sono spesso definiti outlier per dire che vanno esclusi dal calcolo. E così, nel decennio passato, mentre “Roma discuteva, Sagunto veniva espugnata” e contava le macerie economiche. Mentre si discuteva di come eccellere e di come aiutare i più poveri tanto per sollevare le coscienze, si indeboliva chi non era né in un estremo né nell’altro; una deriva che spinge verso il basso chi desidera vedere i frutti delle proprie fatiche.

    Le ferite dello spirito

    Non meno importanti sono le “ferite dello spirito”, le umiliazioni che stanno non già e non solo nelle disuguaglianze nella ricchezza materiale ma nella mancanza di rispetto, nell’incapacità di poter reagire, di far sentire la propria voce. Sono più deboli non solo i più poveri ma anche quelli che vengono privati della cittadinanza, che non trovano ristoro nella giustizia, che sono vittime dell’indifferenza, che non possono accedere a una dignitosa istruzione o alle cure quando ne hanno bisogno. Una giustizia spesso prigioniera del voyeurismo massmediatico che, quando anche ridondante e lenta, si presta facilmente all’eterogenesi dei fini. E una burocrazia tesa non già a far funzionare la macchina amministrativa ma a tenerla parcheggiata; un sistema educativo la cui programmazione è dettata più da logiche corporative che dal bene dei discenti; una ricerca e una conoscenza calpestate perché sotto finanziate e sbeffeggiate da chi ha fatto carriera per scaltrezza e senza sostanza; una sanità denutrita per un lungo decennio e poi troppo tardi esaltata per la generosità dei singoli durante la pandemia virale. Ci sarà un motivo per cui i principali Paesi europei, Germania e Francia in testa, pur con i loro problemi, hanno visto realizzarsi tendenze opposte rispetto a quelle osservate in Italia? Insomma, le ferite dello spirito sono il risultato di una visione tribale della vita di una comunità. Le tribù sono molte e diverse fra loro: possono avere carattere ancestrale ma possono anche assumere tratti castali. E sono in lotta tra loro. Tante tribù e tante caste. Ecco allora l’Italia con sempre meno tessuto connettivo, con delle Istituzioni che si muovono tra ritualità e groviglio giuridico, incapaci di affrontare nello spazio e nel tempo la complessità del mondo. Sono lo specchio di una società “contrattualizzata” dove gli elementi valoriali restano sullo sfondo e la politica è ridotta a offerta commerciale e rincorsa all’effimero. E dove le corporazioni la fanno da padrone.

    Il futuro si chiama speranza

    Questa è la parte conclusiva (non però rituale) della mia analisi: il futuro e la speranza. Siamo in piena emergenza e il Coronavirus è stata la cartina tornasole della sofferenza del Paese. Ma non intendo offrire solo diagnosi; la vita continua e richiede una scelta forte, quella che distingue un declino sicuro da una possibilità. Viene in mente il libro di Mauro Ceruti scritto proprio nel 2009 con l’eloquente titolo Il vincolo e la possibilità. Ecco, vorrei che fossimo consapevoli del vincolo derivante dalla rovinosa caduta per acquisire nuova fiducia nella possibilità. Ciò significa anche non sottrarsi a domande difficili e alle proposte che ne conseguono. Chi pagherà in futuro le pensioni? Che tipo di scuola, sanità, università avremo tra dieci anni? Potremo promuovere nuova imprenditorialità e nuove industrie e da questa rigenerazione attingere per le risorse necessarie? Dovremo imparare a fare meglio con meno, elaborare dei modelli “low cost” senza pagare il prezzo della disuguaglianza e delle diaspore? Porsi queste domande è un modo per sperare ancora, oltreché una necessità; lo si fa già, ovviamente, ma raramente esse vengono poste nell’ambito di una visione d’insieme, un’idea di società, che superi le analisi specialistiche e i singoli interessi.

    Oltre alla diagnosi, intendo “proporre”, con l’umile desiderio di aiutare nelle prospettive. A un Paese sfibrato, inutilmente complicato come il nostro, servono le giuste medicine e la necessaria riabilitazione. Ma serve anche lo spirito giusto per mettersi in discussione e guardare avanti. Quello spirito che tiene al loro posto gli specialismi e le tecniche, che guarda alla comunità nella sua interezza, che ricerca nella semplicità consapevole l’antidoto alla banalità interessata. Per quanto sia difficile contrapporsi e invertire le tendenze in atto, rassegnarsi significa perdere senza nemmeno l’onore delle armi. Per questo, nelle considerazioni conclusive azzardo delle proposte, talvolta volutamente provocatorie. Se queste inducessero una riflessione in chi ancora qualcosa può, in termini di potere e responsabilità, si sarebbe raggiunto un obiettivo: pensare che il domani dipende anche da noi. Non è il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto a far la differenza ma il bicchiere che si riempie da quello che si svuota. Nessuno, certo, può pretendere di vedere la comunità in cui vive a propria immagine e somiglianza ma tutti possono essere orgogliosi di farne parte e dare un contributo. Quell’orgoglio che, anche se vinti, riponiamo nei meandri dell’anima e che non muore mai.
    Il 2008 non è stato solo l’anno della crisi Lehman o l’anno di inizio della diffusione del prodotto del secolo, l’iPhone, con la disfatta di Nokia e Blackberry. O ancora, l’anno della nascita delle criptovalute. Il 2008 è stato anche l’anno della doccia fredda che risveglia dal torpore, dalla linearità del pensiero, che ci interroga su un modello di sviluppo che non ha più fiato, che ci chiede in ultima analisi se è possibile costruire una società migliore anche se non necessariamente più ricca.
    Con questo libro vorrei condividere con i lettori l’atto di consapevolezza di quanto accaduto ben prima dell’evento Coronavirus e di quanto ancora dovrà accadere dopo la pandemia virale prima di intravvedere per il nostro Paese un nuovo inizio. Evitando, dunque, ogni tentativo di mistificazione teso a far credere che tutto è avvenuto, per dirla come Giuseppe Saragat, per colpa del “destino cinico e baro” o di un nemico invisibile. E nella consapevolezza, come suggerisce Winston Churchill che “questa non è la fine. Non è nemmeno l’inizio della fine. Ma è, forse, la fine dell’inizio.”


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