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    Il violinista e il naufrago. Testimonianze di pastorale giovanile in tempo di pandemia


    (NG 2021-01-34)


    Occhi pieni di luce
    Don Davide Pepe *

    “Don il suo messaggio mi aiuta molto, non è una situazione facile, ma siamo circondanti da amici che ci aiutano e sostengono, per questo sono molto felice. È davvero bello rendersi conto delle persone che ci tengono davvero. I miei genitori iniziano a stare meglio e io e mia sorella siamo negative. Spero di poter tornare presto alla normalità e di poter ricominciare a fare la chierichetta, nel frattempo spero e confido che tutto si risolva per il meglio. Grazie per il supporto e per l’interesse, spero di poterci vedere presto.”

    Così mi scrive stamattina Giulia, 15 anni, in giorni in cui i contagi della seconda ondata del Coronavirus hanno una ripresa virulenta e preoccupante. Un messaggio così è molto bello, sa guardare a ciò che conta e continua ad alimentare quel sentimento di stupore e gratitudine, di serenità profonda, che da tempo si è fatto strada dentro di me. In questi mesi di emergenza, mentre erano tante le notizie di timore e agitazione che si susseguivano, poco a poco, ho imparato ad accorgermi dei tanti segni di luce e di speranza che via via emergevano, in modo davvero imprevisto e inimmaginabile. Come prete ho imparato ad educare (o meglio, a sanare!) il mio sguardo, a coltivare “occhi pieni di luce”: di segni di luce ne ho visti molti.
    Sono tanti i ragazzi che hanno avuto il coraggio di affrontare la difficoltà di molte rinunce indesiderabili, facendole diventare occasione per diventare grandi.
    Non dimenticherò mai quando in prossimità dell’estate, alla vigilia delle attività dell’oratorio, una sera ho domandato al mio gruppo adolescenti: “Chi di voi si sentirebbe di dare una mano, in un’esperienza estiva che avrà un sapore diverso rispetto al solito, forse neanche troppo appetibile?”. E i ragazzi hanno cominciato a rispondere, uno dopo l’altro, con una convinzione che non sempre è chiara nelle loro scelte: “Don…io ci sto! Volentieri! E lo faccio per i più piccoli: hanno già sofferto molto in questi mesi, voglio fare qualcosa di bello per loro. Se lo meritano”. Non era l’entusiasmo di una sera, la bontà dei soliti pochi, ma una convinzione che diventava sempre più forte e coinvolgente, fino a dare vita, in oratorio, a una delle estati più belle che abbia mai vissuto da prete. Ho visto gli adolescenti tirare fuori le loro risorse più belle: una generosità e una cura davvero commoventi. Nel frattempo io continuavo solo a stupirmi e meravigliarmi. E lo stupore aumentava riscontrando che non si faceva fatica a reclutare anche un gruppo di giovani genitori disponibili a realizzare l’estate di Summerlife. Mi sono commosso quando qualcuno ha preso addirittura le ferie per occuparsi dei figli di altri.
    E ancora. Tanti giovani si sono buttati con generosità nella rete che, con Caritas e diverse associazioni del territorio, ha tentato di farsi carico dei bisogni della città.
    Momento dopo momento, nelle mille incertezze e disorientamenti, ho visto far accadere qualcosa di stupendo, che non avevo creato io, ma che mi ritrovavo a vivere, senza averlo programmato, organizzato, neanche pensato e voluto.
    Se ripenso ai mesi passati e a queste ultime settimane, mi accorgo di aver ri-scoperto una verità semplice, forse ovvia, ma che, come tutte le cose semplici e ovvie, non sono mai troppo prese in considerazione. Dio, nonostante tutto, sta operando meraviglie.
    Confesso che, all’inizio, la quarantena mi ha messo in difficoltà perché anch’io ho provato lo smarrimento di chi si sente togliere le consuete modalità della pastorale: gli incontri, gli appuntamenti, le relazioni, i riti… Ma poco a poco, l’accorgermi dei “segni di luce” mi ha costretto a ritornare all'essenziale della fede e del mio essere credente, alle radici della mia scelta di consacrazione: la convinzione che Dio è grande, che è all’opera sempre e comunque, al di là delle iniziative, dei percorsi e delle attività che, come comunità cristiana, proponiamo e che tante volte ci affannano.
    Ho provato la gioia di chi si rende conto, perché lo vede con i propri occhi, che pur senza fare nulla, Dio arriva al cuore delle persone, genera cammini e percorsi di crescita autentici.
    Il lockdown, l’aria carica di timore, la paura che entrava nelle famiglie di ciascuno hanno permesso a tanti di scendere in profondità, dentro se stessi. Hanno fatto prendere contatto con domande serie, profonde, hanno acceso il desiderio di una ricerca di qualcosa che desse alla vita uno spessore. Nei sempre più numerosi dialoghi coi miei ragazzi mi sono spesso sentito dire: “Don, sono cresciuto, ho capito tanto. Voglio vivere diversamente. Voglio dare importanza a ciò che conta davvero”. Qualcuno si esprimeva con chiarezza e lucidità, qualcun altro in maniera più sofferta e confusa, ma tutti comunque dentro un processo, magari magmatico, che ho sempre avvertito generativo e fecondo. E a me non era chiesto molto, in verità nulla: solo guardare, e riconoscere, stupirmi.
    Anzi, più di una volta mi è capitato di rendermi conto dell’inutilità delle tante cose e attività con cui riempiamo i calendari, nostri e delle persone. Forse per dire il Vangelo non occorre molto: solo la fiducia nel modo con cui la vita accade, per tutti, giorno dopo giorno. Lo dico senza un sentimento di cinismo o relativismo, ma con occhi guariti dalla meraviglia e dallo stupore.
    Ecco, gli occhi. Forse ho compreso in questa pandemia che è possibile fare il prete “con gli occhi”: essere credente educando lo sguardo e il sentire che nascono dall’ascolto e dal vedere.
    Ho imparato a non sentirmi tanto una guida, quanto piuttosto un fratello che accompagna, senza aver altro da dire e fare se non indicare un nuovo modo di vedere e ascoltare quello che intorno prende forma.
    In fondo non è quello che ha fatto Gesù?
    Mi ha sempre affascinato la passione di Gesù per le parabole. Ho continuamente pensato che Gesù raccontasse le parabole perché era un buon maestro, sapeva spiegare ai piccoli cose grandi, in modo semplice, chiaro per tutti. In realtà Gesù nelle parabole fa qualcosa di più profondo: prende la vita normale, fatta di un pastore che va a lavorare, di un contadino che semina, una donna che impasta e usa il lievito, un’altra che fa le pulizie e perde una moneta, un padre che ha due figli un po’ ribelli…, insomma prende la vita normale fatta di cose semplici e magari scontate, e le osserva, le guarda, le ascolta fino in fondo. Le cose ovvie e banali sanno parlarci di Dio. Così Gesù valorizza la quotidianità: nel fatto che gli uccellini del cielo mangino, che un padre nonostante tutto cerchi sempre il figlio… Gesù impara tanto dell’amore del Padre. E può guardare negli occhi la morte, perché si era allenato a vedere, in tutte le cose della vita, l’amore del Padre.
    Nei mesi scorsi ho cercato di contemplare a lungo lo stile di Gesù, resistendo alla tentazione, che ho visto spesso nella Chiesa, di sostituire il consueto iperattivismo con l’ansia di trovare alternative, per continuare a fare le cose che abbiamo sempre fatto, realizzandole in un altro modo, magari sul web, on-line. Senza smettere, però, di essere agitati, comunque iperattivi: con gli occhi sempre sulle cose da fare, proporre e dire.
    Mi sono domandato spesso se Gesù, nella nostra situazione, non si sarebbe fermato e avrebbe guardato, ascoltato a lungo ciò che accadeva, prima di parlare o agire. Proprio come a lungo si era fermato a guardare la mamma che impastava il lievito, il seme di senapa che marcendo dava forma e vita alla pianta più grande di tutte. Con occhi allenati ad essere “pieni di luce”, avrebbe sicuramente riconosciuto -anche in questi tempi- la mano del Padre che non smette di prendersi cura dei suoi figli e che continua a regalare quell’amore che, come una promessa, rende la vita sempre meritevole e degna di passione e di fiducia. Gesù avrebbe scorto che la buona novella, prima che essere parola da portare, annuncio da difendere strenuamente, è forza che porta e conduce.
    Custodisco nel cuore, come un dono, la convinzione che nella mia comunità sono avvenute e stanno accadendo ora numerose cose belle, ma ancor più la certezza che tutto questo non è stato da me né progettato, né desiderato, e tanto meno ha visto me come protagonista o promotore. Sono accadute, nella quotidianità. Nella vita di ciascuno. L’unica cosa che ho fatto è stato guardare, con occhi di luce, la forza della vita che, dentro le resistenze di tante difficoltà, apriva nei cuori di ragazzi e adulti, e nel mio, sentieri di maturità e fecondità.
    Perché la vita nel suo accadere è sempre capace di realizzare la Pasqua, o meglio: la forza della Pasqua è capace di generare sempre la vita, proprio attraversando momenti di buio, di caos e di perdita. La pandemia per me è stata ed è tuttora questo: l’invito a entrare ancora di più nella Pasqua di Gesù, nel mistero della sua croce e nella forza della sua vita prorompente.
    Troppe volte identifichiamo la croce con il soffrire, ma ad “occhi pieni di luce” essa mostra molto di più. La croce mostra il coraggio e la fiducia di Gesù di lasciare, di farsi portare via tutto. Non capiremo mai fino in fondo Gesù e lo terremo sempre lontano dalla vita, relegato in un rito, se non avremo il coraggio di provare sulla nostra pelle cosa significhi perdere. Avviene certo nella vita di ciascuno, in momenti di vita personale, quando si è costretti a lasciare qualcosa o qualcuno, ma forse, questa volta, è un invito che ci riguarda tutti insieme, come comunità civile e come Chiesa.
    Soprattutto come Chiesa, penso che da questa difficile situazione dovremmo imparare a perdere: saranno ancora tante le cose che perderemo, in termini di persone, presenze, occasioni, tradizioni, riti…, ma sarebbe bello essere comunità che, più che spaventarsi e agitarsi, alimentano una fiducia smisurata nell’azione di Dio che, come forza inesauribile, saprà generare vita. Imprevedibile e inimmaginabile. Nella quotidianità.
    Sapremo essere presenza più umile, meno protagonista. Recupereremo la gioia di essere al servizio di un processo di vita che ci coinvolge, ci supera, ci conduce. Ci lasceremo spogliare e privare tutto ciò che sarà necessario. Senza più paure. Senza rimpianti e nostalgie. Sgorgheranno così quella creatività e quella vivacità necessari per ritrovare nuove forme di vita cristiana. Probabilmente non subito. Sapremo, però, aspettare: rimarremo nel processo. Accetteremo anche di vivere la fare di dovere fare le cose di sempre. Ma almeno con più disincanto. Senza ansie.

    * Classe di ordinazione 2000. Prete ambrosiano nella Comunità pastorale di Corsico.


    Finirà?
    Don Giovanni Boellis *

    «Don vero che tutto finirà presto? Me lo prometti?»

    È la domanda che mi sono sentito rivolgere da un giovane adolescente dell’oratorio in questo tempo di pandemia. In realtà non è l’unica domanda.
    Questo è un tempo di domande. Gli interrogativi si moltiplicano e le risposte sembrano essere molto poche.
    La sa bene chi condivide molto del suo tempo con i giovani.
    I giovani hanno sempre domande interessanti che ti obbligano ad andare in profondità e che chiedono anche a chi li ascolta la serietà di un confronto autentico con la realtà.
    È anche questo il caso della domanda di quel giovane: «Don vero che tutto finirà presto? Me lo prometti?»
    Una domanda che avrei potuto facilmente liquidare così: «Ma che domande sono? Il mondo non sa cosa fare e tu lo chiedi a me?».
    Eppure quella domanda mi ha obbligato ad andare a fondo anzitutto della mia umanità, chiedendomi un bagno di umiltà e di realismo.
    L’umiltà e il realismo di chi è chiamato a riconoscere di non avere una risposta certa a quell’interrogativo così profondo.
    Ma subito dopo è stata l’occasione per riconoscere che con quel giovane io potevo farmi compagno di viaggio per camminare insieme rimanendo in quella domanda.
    E «rimanere» è proprio uno dei verbi che credo caratterizzino il tempo che stiamo vivendo.
    Rimanere è un’azione complessa da porre perché chiede di mettere in campo anche la pazienza dell’attesa per qualcosa che ancora non si conosce fino in fondo; chiede di accettare il proprio limite, di fermarsi e a volte osservare da lontano ciò che accade. Rimanere a volte implica fare i conti con il silenzio che spesso è più assordante del rumore più sonante.
    Rimanere è però anche l’occasione di non lasciare che tutto passi senza coglierne la profondità.
    Rimanere insieme ai giovani è la grande occasione che è data a chi è chiamato ad accompagnarli più da vicino per scoprire che quest’azione non è sinonimo di risoluzione, ma di accompagnamento autentico.
    «Rimanete nel mio amore » (Gv 15,9). Questo è il metodo che Gesù suggerisce ai discepoli nel tempo della fatica e della prova: non propone una soluzione immediata, ma indica un metodo per continuare a camminare insieme.
    A partire da qui riconosco come l’ascolto e l’accompagnamento possano essere due cifre significative del tempo che stiamo vivendo e in particolare del cammino dei giovani in questo tempo.
    Per la mia esperienza e in particolare per la situazione che tutti stiamo vivendo, credo che le domande più grandi e più vere dei giovani siano quelle di essere ascoltati e accompagnati. Non si tratta di avere risposte finite e certe, ma anzitutto di farsi compagni di viaggio autentici.
    Mi sembra che il grido dei giovani in questo tempo sia quello di chi chiede di essere accolto, ascoltato, accompagnato. I giovani non chiedono per prima cosa delle risposte, ma dei compagni di viaggio affidabili con cui condividere domande e cercare strade di verità e libertà autentiche.
    Come dice Papa Francesco nella sua più recente Enciclica “Fratelli tutti”:
    «Ogni giorno ci troviamo davanti alla scelta di essere buoni samaritani oppure viandanti indifferenti che passano a distanza. (… ) Semplicemente ci sono due tipi di persone: quelle che si fanno carico del dolore e quelle che passano a distanza; quelle che si chinano riconoscendo l’uomo caduto e quelle che distolgono lo sguardo e affrettano il passo. In effetti, le nostre molteplici maschere, le nostre etichette e i nostri travestimenti cadono: è l’ora della verità. Ci chineremo per toccare e curare le ferite degli altri? Ci chineremo per caricarci sulle spalle gli uni gli altri? Questa è la sfida attuale, di cui non dobbiamo avere paura. Nei momenti di crisi la scelta diventa incalzante: potremmo dire che, in questo momento, chiunque non è brigante e chiunque non passa a distanza, o è ferito o sta portando sulle sue spalle qualche ferito.» (cfr Fratelli tutti, 69.70)
    Ho la grazia di poter insegnare in due istituti scolastici della provincia di Bergamo: una scuola secondaria di primo grado e una scuola secondaria di secondo grado. La scuola è il luogo delle domande e in questo tempo le domande dei ragazzi sono più profonde del solito.
    Esse raccontano di un’esistenza che vive e si interroga su ciò che gli accade. I giovani con le loro domande ci testimoniano il loro profondo desiderio di vita, di scoperta e di passione per quanto gli accade.
    Tuttavia in questo tempo si percepisce che nei giovani è presente un velo di tristezza e di noia, in ultima analisi di smarrimento. Non è una condizione propria solo dei giovani, ma forse in loro si sente con più forza.
    Così mi accorgo che a chi è data la grazia di camminare più da vicino con i giovani è chiesto anche di saper dire con forza: «È il Signore!» (Gv 21,7).
    Sì, perché, noi quel Signore lo abbiamo incontrato e non possiamo dimenticarlo.
    E proprio Lui è venuto a rischiarare le tenebre.
    Il Signore abita anche questo tempo caratterizzato più di altri da sfumature di buio. Questo però chiede occhi e cuori attenti perché possiamo riconoscerlo all’opera. Chiede di saper osservare bene la tela della storia che forse agli occhi dei più appare semplicemente colorata di nero, ma che, se si osserva bene, è anche abitata da un puntino di luce che ha la pretesa di rischiarare tutta la tela.
    Con un paradosso incredibile questo tempo ha permesso al bene di continuare a fiorire. Penso ai tanti gesti di carità che i giovani hanno preso a cuore, penso alle tante forme creative di vicinanza che si sono moltiplicate in un tempo in cui la parola d’ordine è la distanza, penso alla profondità e alla serietà con cui molti giovani stanno di fronte a questo tempo vivendolo come occasione per diventare strumenti di luce e di speranza.
    San Tommaso diceva “Bonum diffusivum sui” (S. Tommaso, Summa theologiae, I, q. 5 a. 4, ad 2).
    È proprio vero: non c’è situazione in cui anche il minimo pertugio non permetta al Bene di emergere.
    Questo tempo dunque chiede di non abbandonare nessuna domanda, nemmeno quella più scomoda e complicata e neppure quella nascosta nel silenzio di uno sguardo; chiede di non avere fretta di dare o cercare risposte immediate.
    Siamo chiamati a rimanere, all’ascolto autentico, all’accompagnamento sincero per continuare a camminare insieme.
    Così potremo stupirci anche in questo tempo e dire anche noi con forza: «E’ il Signore!»
    Io non ho saputo dare una risposta compiuta a quel giovane compagno di viaggio di cui raccontavo all’inizio, ma ho la certezza rinnovata che ora è possibile camminare insieme.
    È una sfida che rimane aperta. Come molte sono le domande che rimangono.
    E mai come in questo tempo è necessario rimanere, ascoltare, accompagnare, camminare insieme sapendo che il Signore continua ad abitare questo tempo.
    Questo è quello che anche io come prete della diocesi di Milano, chiamato a servire la Chiesa in una città duramente colpita dalla pandemia, ho provato a vivere in questi mesi di lockdown e che continuo a cercare di vivere in questo tempo ancora così incerto, ma certamente abitato dal Signore della storia.

    * Classe di ordinazione 2000. Prete ambrosiano in terra bergamasca a Treviglio e CastelRozzano.


    Una grammatica feriale per conoscere Gesù
    don Gianmaria Manzotti *

    Mi è stato chiesto di condividere alcune riflessioni nate durante il tempo del lockdown e nel post lockdown. Di sicuro, questo tempo ci ha interrogato e ci ha chiesto di adottare stili nuovi. Infatti, proprio quel periodo ha fatto emergere alcune problematiche già presenti e che facevamo fatica a riconoscere perché abituati semplicemente a ripetere un determinato schema.
    Personalmente ritengo che siamo chiamati a cambiare stile accorgendoci sempre più di chi ci sta davanti, valorizzando sempre più la grammatica quotidiana di una famiglia. Posso proprio confidare che le relazioni con i genitori dei ragazzi si sono sempre più saldate durante il lockdown, in quanto ho sentito sia i ragazzi ma anche i genitori, molto di più che in un anno di cammino. Forse è proprio la situazione che ci chiede di trovare l’inedito, qualcosa di nuovo, partendo da ciò che c’è stato consegnato dal passato ma con schemi/stili nuovi.
    Penso proprio che non dobbiamo perdere il treno di riappropriarci di una grammatica quotidiana. Faccio alcuni esempi: segno della croce al mattino, preghiera e riflessioni durante i pasti, confronto in famiglia ecc. Dinamiche di questo tipo, se rifatte proprie da famiglie desiderose di un’autentica formazione spirituale, si rivelano catechesi più genuine e più vicine a ciò che i ragazzi vivono. Durante il lockdown sono stato colpito dalla celebrazione della Pasqua nelle nostre famiglie. Oserei dire che c’è stata una riappropriazione di questa festa, dando contenuto a ciò che si è vissuto nelle case delle famiglie. Diverse famiglie mi hanno detto: “non siamo potuti venire a Messa, ma abbiamo fatto nostra la preparazione e il vivere quei giorni in un modo nuovo”. Sono convinto che oggigiorno più che di programmi dobbiamo investire le famiglie di un nuovo protagonismo, condividendo e confrontandoci sulle scelte pastorali da prendere. Qualcuno potrebbe dire: “Ma non verranno più al catechismo in oratorio?”. Continueranno ad esserci i momenti di ritrovo dove aiutiamo i ragazzi a rileggere la storia della salvezza, ma il grande lavoro oggi è quello di riappropriarsi di una grammatica quotidiana, dove al suo interno i ragazzi possano scoprire il volto del Signore Gesù.
    Inoltre, questa situazione ha portato molti giovani e adulti che si stanno riappropriando di una grammatica quotidiana a porsi molte domande. Tra le tante domande quelle più frequenti sono sul senso dell’esistenza, soprattutto perché toccati dalla perdita di un proprio caro o perché diverse abitudini della quotidianità non erano possibili: andare a scuola/università/lavoro, far visita ai propri cari, ritrovarsi con gli amici, fare sport, ecc. Nella sventura del lockdown sono cresciute delle riflessioni per ridare senso alla propria esistenza. In questo contesto sono nati desideri di dar forma alla propria vita. Desideri che portano ad una grande occasione di evangelizzazione in quanto Gesù da forma alla vita dell’uomo.
    Proprio nella riflessione sulla forma il teologo Balthasar arriverà a scrivere che il cristianesimo o è forma o non è nulla; ed è forma perché è grazia. Un dono chiede di essere accolto in una forma bella in cui il bene irradia. Il cristianesimo è forma, grazia, possibilità aperta da Dio che ci salva e che si incarna. È forma bella perché non è solo essenza, solo una modalità di vivere predefinita. Ciascuno è chiamato ad inventarsi una forma di relazione con Dio, assumendo la tradizione e interpretandola personalmente, come farebbe un artista. È il lavoro di Maria, così come quello dell’autore che interpreta lo stesso spartito in modo nuovo. Il cristianesimo non è solo pulsione, ma una percezione di Dio quotidiana, che prende forma nel vissuto di una singolare vocazione. Concludo facendo mie le parole di Guardini che rilanciano quanto ho detto:
    forse anche la trasformazione della filosofia, o per meglio dire dell’atteggiamento conoscitivo in genere, che segnala il passaggio dall’“epoca moderna” all’epoca attuale, sta spostando il centro di gravità dal pensare al vedere; dall’ambito intermedio dei concetti, così stranamente autonomizzato, a quello delle cose. Ciò a cui si dovrebbe arrivare sarebbe allora il toccare la realtà, l’avvertire il suo urto, l’essere colpiti dalla sua forma dotata di significato, ma questo significa vedere, ascoltare, toccare con mano .
    Infine, è bene sottolineare che tutte le cose hanno il loro ordo e tutte lavorano male se non possono esprimere questo ordo così come deve. Il sentire percepisce qualcosa di vero e di non vero, stabilisce e riconosce l’essere sensato o insensato di qualcosa. Questo sentire implica una sensibilità per il senso dell’esistenza, cioè quello che ben interpreta una madre e un padre, un maestro, un sacerdote, quando si sacrifica per onorare la dimensione più originaria del vivere, quanto gli è stato offerto in dote di più prezioso, cioè il suo essere responsabile del senso, il suo essere creato, il suo essere posto in un mondo dove stabilizzare l’affezione è onorare il suo compito di essere uomo.
    Questo compito di essere uomo è vivere quel dinamismo trinitario che, come ben dice Balthasar, è toccare Dio attraverso i sensi che lui stesso ci ha donato; proprio il teologo scrive: «Non abbiamo bisogno ‒ per dirlo ancora una volta ‒ di procurarci altri “sensi spirituali” per gustare Dio se non quelli donatici da Dio, che all’interno della divina umanità di Gesù sono sufficienti per toccare quel Dio che qui si apre e si inclina verso di noi» .

    * Classe di ordinazione 2018, prete ambrosiano nelle terre della Valsassina in provincia di Lecco.


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