Alberto Guasco
(NPG 2021-01-16)
“Ipocriti! Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo?” (Lc 12,56). Pesanti come pietre, le parole di Gesù di Nazareth hanno varcato i secoli e sono giunte a noi, provocatorie e capaci d’interrogare il nostro presente. Tuttavia, come sempre, per giudicare occorre conoscere. Perciò, qual è “questo tempo”? O meglio, quali sono i tratti principali del tempo che a noi contemporanei è stato dato di vivere? Come scrisse una volta il prete e poeta Jean Debruynne, ormai per capirlo “non ho bisogno di attendere le notizie: /sono loro a precedermi”. E senza fare né i profeti di sventura né gli ingenui, “questo tempo” parla di nuovi attori globali, di crisi economiche, di rivoluzione tecnologica, di sconvolgimenti del mercato del lavoro, di riduzione dello stato sociale, d’impoverimento di milioni di persone, di flussi migratori, d’emergenza climatica e (se ancora non bastasse) della pandemia mondiale di covid-19.
Proprio riguardo a quest’ultima, c’è chi ha detto che la pandemia sta cambiando il mondo, ponendo davvero fine a quel Ventesimo secolo cronologicamente chiuso vent’anni fa. Ma è davvero così? Per quanto grave, una pandemia ha questo potere o magari quello di svelare, o accelerare, o sancire un complesso di cambiamenti già in corso? Con il sempreverde Manzoni, “ai posteri l’ardua sentenza”: ce lo diranno con qualche certezza in più gli storici del futuro. Per adesso, anche il covid-19 sembra partecipare a quest’epoca di cambiamento. Anzi, come ha affermato papa Francesco (nel discorso di Firenze, 10 novembre 2015, e nella Veritatis Gaudium, 29 gennaio 2018) a questo “cambiamento d’epoca” dai tratti apparentemente così inafferrabili.
Ma che epoca c’era prima? Di chi siamo figli e nipoti? Cioè, storicamente parlando, da dove abbiamo ricevuto quest’eredità così faticosa da portare? Dire “dal passato” vuol dire tutto e niente, perché per definizione il passato è qualcosa che, andandosene via, non porta con sé le proprie conseguenze. Dire “dal Novecento” è già qualcosa di più. Ma allora il problema diventa definire il Novecento, capire che cosa è stato Ventesimo secolo, quanto è durato e quando è finito. I pareri sono discordi. C’è chi ha detto che il Novecento inizia negli ultimi decenni dell’Ottocento, all’epoca della prima grande globalizzazione del mondo, e chi – invece – nel 1917, con lo scoppio della Rivoluzione russa. Per alcuni è stato il secolo degli Stati Uniti e per altri quello della Cina; per alcuni il secolo di Auschwitz e per altri di Hiroshima. Sono interpretazioni tutte valide ma – prese da sole – tutte parziali. Come lo sono tutte le ipotesi che, finora, hanno cercato di capire quando finisce il Novecento e quando inizia il Ventunesimo secolo, il nostro presente.
Per inciso, a domande di questo tipo è sempre difficile, se non impossibile, dare risposte esaurienti. Tornando sui banchi di scuola, chi si sentirebbe di dire con assoluta certezza che la cosiddetta “età moderna” incomincia proprio nel 1492, in scia a Colombo e alle caravelle? Perché non settant’anni prima, con la stampa a caratteri mobili immessa nella storia da Johannes Gutenberg? Perché non con la conquista turca di Costantinopoli del 1453? O ancora, perché non con la Riforma protestante sviluppatasi lungo la prima metà del Cinquecento e oltre? Anche in questo caso dobbiamo concludere che non basta mai un solo fattore per operare un cambiamento d’epoca. Nello specifico dell’esempio, più o meno tra la metà del Quattrocento e la metà del Cinquecento, un pacchetto di eventi politici (l’espansionismo turco), culturali (gli inizi della stampa), economico-geografici (le grandi esplorazioni) e religiosi (la Riforma) sancisce la fine di qualcosa chiamato “medioevo” e l’inizio di qualcosa chiamato “età moderna”.
E se leggessimo così anche il nostro tempo, anche gli ultimi cinquant’anni?
Gli eventi politici
Incominciando dagli eventi politici, come diceva un grande storico, Fernand Braudel, sono quasi sempre la “schiuma” della storia. Eppure, dal momento che la schiuma è l’elemento in cui si vive di più, come è possibile riassumere in poche righe i cambiamenti avvenuti sulla scena mondiale dagli anni Settanta a oggi? Se volessimo inseguire gli assetti generali, dovremmo dire che in due decenni circa – tra gli anni Settanta e Ottanta – si conclude il lungo periodo dell’equilibrio bipolare più noto come età della guerra fredda. Un’età apertasi alla fine della Seconda guerra mondiale e terminata, in successione, con la caduta del suo simbolo per eccellenza, il muro di Berlino (novembre 1989), il collasso dei regimi comunisti dell’est europeo e infine, nel 1991, e la dissoluzione di una delle due superpotenze che fino ad allora avevano dominato la scena mondiale, l’Unione Sovietica. In quanto all’altra superpotenza rimasta sulla scena, gli Stati Uniti, il sogno, o l’illusione, di rimanere l’unico attore mondiale sulla scena – vuoi nelle forme di un soft power magari gestito in collaborazione con gli alleati tradizionali o con la stessa neonata Unione Europea, a sua volta issatasi a protagonista della scena, vuoi nelle forme più dure e imperiali del gendarme internazionale – si è rivelata impraticabile. E ciò perché i cicli storici, per loro stessa natura, non sono eterni. Dunque, dopo un secolo e mezzo di dominio, l’egemonia statunitense è in declino, mentre è in ascesa quella d’un altro gigante fattosi avanti sulla scena mondiale – la Cina, preparata da Deng Xiaoping a quell’appuntamento fin dal 1979 – e altre potenze intermedie (siano di nuovo la Russia, l’India o l’Iran erede della rivoluzione di Khomeini del 1979) imprimono al mondo un aspetto (o un disordine) sempre più multipolare.
Ma poi, accanto ai movimenti di superficie, ci sono mutazioni sotterranee più profonde e forse più importanti. E quest’ultime dicono che, da più di trent’anni, i sistemi democratici hanno raggiunto il loro apogeo e, invece del trionfo definitivo – come nel 1989 teorizzava (o delirava?) qualche analista parlando di “fine della storia” – hanno iniziato a vivere una progressiva parabola discendente. Molti anni fa un grande economista, Joseph Schumpeter, ha sostenuto che la democrazia coincide con il processo elettorale; ed è davvero tale se chi vince in quel processo non si aggiudica un potere preponderante e/o non è una marionetta gestita da altri poteri, che poi decidono veramente. Invece, all’incirca nell’ultimo trentennio, sembra proprio d’aver assistito a questo: alla proliferazione di sistemi democratici a leaderismo crescente (fino a trent’anni fa, nel nostro paese, non avremmo neppur concepito l’idea d’una lista o d’un partito personale) o di sistemi entro i quali gli eletti sono marionette di forze altre che non hanno a che fare con la procedura elettorale. Nel primo insieme è possibile inscrivere le cosiddette democrazie illiberali, in cui le elezioni generali sono formalmente libere, ma poi il suffragio universale si coniuga con forme di autoritarismo politico che si serve di quel suffragio per limitare le libertà civili. È qui che hanno trovato spazio leader quali Viktor Orban in Ungheria. Oppure, più importante, in scia a una Russia che recupera il terreno e il prestigio perduto alla fine del Novecento, Vladimir Putin, a sua volta ispirato dalla “quarta teoria politica” di Alexander Dugin, teorico (o demagogo?) di un “populismo integrale” visto come reazione esistenziale dei popoli alle “distorsioni” della democrazia. Per non parlare di democrazie come gli Stati Uniti, che persistono nel definirsi liberali ma che, poste sotto attacco dal terrorismo islamista, hanno reagito comprimendo i diritti dei propri cittadini: il Patriot act dell’ottobre 2001, varato a seguito dell’attacco alle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre dello stesso anno, è stato uno degli esempi più concreti di tale tendenza. E infine, più generalmente, si pensi alla progressiva affermazione di quel che si può chiamare uno “spirito illiberale del tempo” – con il suo disinteresse, o addirittura con il suo fastidio, per la pratica, le regole e i valori della democrazia – o al venir meno di quell’etica pubblica e di quelle tavole di valori che stanno alle spalle degli assetti di una democrazia. Ecco dunque configurarsi un primo passaggio tra “il mondo di ieri” e quello di oggi, un primo fattore di cambiamento d’epoca. In questo senso, qualunque cosa sarà, la democrazia del futuro sarà diversa dal sistema conosciuto in passato.
Gli eventi economici
Passando dai cambiamenti politici a quelli economici, il sistema occidentale – uno tra i molti cuori economici del mondo, non il solo –, durante il cosiddetto “glorioso trentennio” (1945-1975) si issa a un grado di benessere mai toccato prima nel corso della storia. Ma poi, nel corso dei cinquant’anni successivi, vive la progressiva rottura degli equilibri che ne hanno consentito l’ascesa e la stabilità. Come sempre, è un passaggio che si compie per gradi. Già negli anni Settanta, il mondo valutario e produttivo viene sconvolto da due grandi scosse capaci di determinare effetti a lunga distanza. La prima: il 15 agosto 1971, nel mezzo (o meglio, verso la fine) della guerra del Vietnam, il presidente americano Nixon decreta la fine del sistema di convertibilità del dollaro in oro, stabilito fin dal luglio 1944 dagli accordi di Bretton Woods, siglati allo scopo di scongiurare crisi di sistema come quella del 1929. Ovvero, pone di fatto le premesse per la nascita d’un mercato finanziario privo di regole, parente non troppo lontano di quello responsabile – ben al di là del fallimento della banca d’affari Lehman Brothers (2008) – della devastante crisi economica del 2009. La seconda: lo shock petrolifero seguito alla guerra del Kippur del 1973, con conseguente impennata del prezzo dell’oro nero, pone per la prima volta sul piatto della bilancia non il tema dell’esauribilità delle risorse (il suo ingresso nel dibattito pubblico è molto più tardo) ma quello del loro costo. Da lì a un decennio, se le economie pianificate del blocco sovietico e dei paesi socialisti vanno in crisi per ragioni d’arretratezza strutturale, i paesi capitalisti avanzati affrontano i mutamenti del mercato in due modi: da un lato con l’innovazione (specie nei settori della robotica e della computeristica), dall’altro con una politica di deregulation e di taglio dello stato sociale – anche là dove esso è ben poco presente – che trova i propri capofila negli Stati Uniti dei due mandati di Ronald Reagan (1980-1988) e nell’Inghilterra dei governi di Margaret Thatcher (1979-1990). Quindi, a partire dagli anni Novanta e con sempre più forza nel nuovo secolo, la fine della guerra fredda (quindi del modello socialista quale competitor di quello liberista) e i processi di globalizzazione (cioè i processi di delocalizzazione delle aziende verso i paesi dell’est del mondo) hanno sancito l’avvento (e il trionfo) d’un neoliberismo senza freni, capace di attaccare comunità politiche e stati sovrani e di far esplodere diseguaglianze senza pari. Basti un solo dato: il rapporto Oxfam 2019 ha detto che 26 miliardari possiedono la stessa ricchezza della metà del pianeta, e che l’Italia è in linea con questo trend (il 20% dei suoi cittadini possiede il 72% della ricchezza nazionale). Se è così, non dovrebbe poi stupire troppo che tra quei miliardari ci siano i possessori dei maggiori gruppi economico-finanziari che non rispondono non solo ai milioni o ai miliardi di cittadini di cui decidono le sorti, o di cui posseggono i dati, ma eludono anche ogni sorta di residua vigilanza statuale. Ovviamente, nel corso degli ultimi quarant’anni, tutto ciò ha comportato forti ristrutturazioni, anzi due veri e propri “grandi salti”, nel mercato del lavoro. Il primo salto è avvenuto all’incirca tra gli anni Ottanta e Novanta, con una sorta di contaminazione tra il vecchio mondo dei rapporti tra capitale e lavoro (di cui la vecchia fabbrica fordista è il miglior simbolo) e quello nuovo dei computer (Windows e Macintosh). A seguire, poi, ecco il secondo salto, il passaggio più radicale verso un mondo (e soprattutto un tempo) nuovo, verso il trionfo della rete come luogo di lavoro, delle piattaforme tecnologiche come mediatrici tra mercato e produttori, e dei singoli come “nuovi capitalisti”. Tutto ciò, ancora una volta, ha toccato e tocca il nodo dei rapporti tra le economie, le società e il rapporto tra uomo e lavoro. E, su questo tema, ha riportato e riporta davanti ai contemporanei le domande di sempre, immerse tra l’estremo del lavoro “via di dignità” (come dal 1948 proclama la Costituzione italiana) e il lavoro “schiavo” al servizio di una “economia spietata” (come proclama papa Francesco).
La tecnologia
Partecipe e spesso vettore del cambiamento economico, la tecnologia (o il paradigma tecnocratico che fin dagli anni Settanta preoccupava papa Paolo VI), ha spesso trovato un volto molto concreto – dentro e fuori di battuta – nella realtà virtuale. In questo senso, è ormai evidente a tutti che il mondo vive ogni giorno immerso in un universo mediatico figlio del Novecento – ecco un altro passaggio di tempo e d’epoca – eppure da esso molto lontano. Bastano davvero pochi passaggi per comprenderlo. Simbolicamente e no, il Ventesimo secolo si apre con l’invenzione del cinematografo e con quella della radio, strumenti che, almeno negli Stati Uniti e in Europa, raggiungono una diffusione di massa negli anni Venti e Trenta. Ma negli stessi decenni iniziano le prime sperimentazioni (e non solo sperimentazioni) della grande dominatrice del Novecento, la televisione; che a sua volta raggiunge diffusione di massa nei decenni centrali del secolo, indicativamente tra gli anni Cinquanta (in Italia l’esordio della tv data gennaio 1954) e gli anni Settanta. Ma nei decenni in cui la televisione vive il suo incontrastato trionfo, già si pongono le basi e si perfezionano gli strumenti che da fine Novecento a oggi ne comporteranno il superamento: il computer e la rete. È il 1977, e molti in Italia non hanno ancora la televisione a colori, quando il 22enne Steve Jobs e il 27nne Steve Wozniak si inventano Apple II. Ed è ancor prima, il 1969, l’anno in cui gli americani vanno sulla luna in mondovisione, che – in previsione di una possibile catastrofe atomica – le forze armate degli Stati Uniti pensano a una rete (che allora si chiama Arpanet e che diverrà Internet) digitale in grado di poterle sopravvivere. E questi mezzi, il computer e la rete, raggiungono diffusione di massa proprio negli ultimi due decenni, ai giorni nostri. Se, come si dice, la matematica non è un’opinione, i numeri parlano da sé: nel 1980 i personal computer connessi in rete erano 213, nel 1990 313.000 e nel 2017 1,63 miliardi; in quanto agli internet users, i 16 milioni del 1995 sono passati agli oltre quattro miliardi del 2018. Ha dunque ragione il filosofo Luciano Floridi quando, parlando di “quarta rivoluzione”, individua quale cambiamento epocale dei nostri giorni il passaggio di larga parte dell’umanità dallo spazio fisico all’infosfera, allo spazio virtuale. L’unica cosa certa è l’enormità dei problemi – ma anche delle possibilità – sollevati da questo passaggio. Si pensi a temi più noti e discussi come quelli delle fake news e dell’hate speech. Ma si pensi anche alla comparsa di modalità “non convenzionali” di combattere la guerra, attraverso gli strumenti della disinformazione e dell’hacking. E si pensi, infine – dato il nostro particolare punto di vista – alla comparsa di nuove ideologie (made in Silicon Valley, California) secondo cui l’emancipazione dell’umanità non verrà dalla religione o dalla filosofia, non dalla classe, dallo stato o dalla razza, ma dalle tecnologie informatiche, dall’hi-tech, dal cyberspazio e dai software.
Le migrazioni
In quarto luogo, oltre che a migrare verso la sfera virtuale, gli uomini hanno continuato a farlo (e ancor più nel corso degli ultimi trent’anni) anche in quella reale. D’altronde, lo spostarsi è stato da sempre una cifra fondamentale della storia. E una cifra, occorre ribadirlo, non arginabile. In questo senso, e che Giuseppe Verdi perdoni la parafrasi, la storia è mobile, a storia è fatta da coloro che si muovono, la storia è movimento, e anche i suoi confini sono in movimento. Anzi, è il movimento della storia che rende mobili i confini, anche quando sono fissi o quando diventano muri pensati per arrestarne il flusso. In questo senso, dopo l’anno-simbolo 1989 il numero di quanti non vivono nel proprio paese d’origine è andato sempre crescendo: i 153 milioni di persone del 1990 (il 2,9% della popolazione mondiale) sono diventati 173 nel 2000, 220 nel 2010 e 258 nel 2017 (3,4%). E nonostante siano cresciuti il numero e l’estensione chilometrica dei muri di contenimento dei fenomeni migratori (15 muri nel 1989, circa 70 ora, con altri 40 in corso di progettazione o costruzione) il fenomeno non si arresta. Anzi, come intuì fin dalla fine degli anni Settanta il padre generale dei gesuiti Pedro Arrupe, si pone anch’esso come “segno dei tempi” (che cambiano).
Gli eventi ecclesiali
Così introdotta, che cosa dire della chiesa (cattolica) degli ultimi cinquant’anni, che da comando del maestro dovrebbe vivere nel mondo senza appartenergli? È impossibile elencare, differenziandoli per tempi, temi o aree geografiche, il volume delle questioni con cui si è dovuta misurare all’epoca del magistero di Paolo VI (1963-1978), Giovanni Paolo I (1978), Giovanni Paolo II (1978-2005), Benedetto XVI (2005-2013) e Francesco (2013-). Generalizzando all’estremo, i suoi ultimi decenni di storia possono essere letti alla luce di quell’evento, anzi di quella “primavera” (così papa Giovanni XXIII) o “transizione epocale” (così lo storico Giuseppe Alberigo) più nota come Concilio Vaticano II (1962-1965). Un Concilio, tra gli anni Sessanta e Settanta, faticosamente ma progressivamente impiantato nella vita della chiesa universale e di quelle locali (siano queste traversate dal Sessantotto, o dai colpi inferti loro dalle dittature latino-americane o dai regimi comunisti dell’est europeo). Un Concilio, nei tre decenni successivi, talora fatto diventare parola viva, talora annacquato, talora addirittura lasciato lettera morta; e ciò, con un magistero sempre interpellato o criticato da quei settori ecclesiali che – da opposti punti di vista – hanno ritenuto il Concilio stesso “tradito” o “traditore”. E infine, un Concilio diventato ormai eredità in Francesco, primo pontefice a non avervi partecipato, ma ad esserne figlio. Tra le pieghe di questi decenni, tra passi avanti e ricadute, tra segni d’umiltà e ritorni al trionfalismo, ecco perciò passaggi nodali in materia di rapporti ecumenici o interreligiosi, riguardo l’ebraismo (gli ebrei proclamati “fratelli maggiori” e “prediletti” da Giovanni Paolo II il 13 aprile 1986) e più faticosamente l’islam (si veda il Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune firmato il 4 febbraio 2019 da Francesco e dall’imam della moschea di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyib). Oppure, in materia di pace, dalla Pacem in terris (11 aprile 1963) di Giovanni XXIII, ecco un cammino che arriva a definire la guerra come “avventura senza ritorno” (Giovanni Paolo II, 16 gennaio 1991) e “follia” (Francesco, 13 settembre 2014). E infine, in materia sociale, ecco il percorso compiuto tra la Populorum progressio di Paolo VI (26 marzo 1967) e le recenti e recentissime Laudato sì (24 maggio 2015) e Fratelli tutti (4 ottobre 2020). Ma ci sono anche passaggi non ancora compiuti a pieno su temi da tempo all’ordine del giorno e carichi di futuro – si pensi solo al ruolo dei laici e delle donne in particolare, al nodo dell’autorità papale e del celibato ecclesiastico, alle questioni morali e scientifiche – che davvero rappresentano una porta di ingresso nel futuro. Avrebbe detto Aldo Moro, l’intelligenza più acuta di tutta la storia della nostra repubblica, “sono i segni del travaglio doloroso nel quale nasce una nuova umanità”. Probabilmente, anche un nuovo secolo.