Bruno Bignami e Stefano Radaelli
(NPG 2021-08-5)
La dimensione sociale della Chiesa
«I cristiani non si differenziano dagli altri uomini né per territorio, né per il modo di parlare, né per la foggia dei loro vestiti. Infatti non abitano in città particolari, non usano qualche strano linguaggio, e non adottano uno speciale modo di vivere»[1]: la Lettera a Diogneto, un classico della letteratura patristica, non inizia mettendo in rilievo ciò che differenzia i cristiani dagli altri uomini, ma la normalità della vita che essi condividono con tutti. L’incarnazione prevede una esistenza nel mondo, in mezzo alle consuetudini e alla cultura dei vari popoli. La scelta di Dio di incarnarsi nel Figlio ha lasciato il segno su un modo di interpretare la storia: i cristiani non si pensano fuori ma dentro il mondo. «Nel mondo, ma non del mondo», insegna il Quarto Vangelo[2]. La prospettiva teologica dell’incarnazione apre molte finestre sulla visione del cristianesimo. Come suggerisce sant’Anselmo di Aosta nel Cur Deus homo?, «noi intendiamo l’incarnazione non abbassamento di Dio, ma esaltazione della natura umana»[3]. Incarnati significa capaci di amare la storia come luogo teologico. Incarnati significa imparare a vivere culturalmente segnati e storicamente legati a un territorio. Incarnati, infine, significa anche entrare in un dialogo fecondo con il mondo. Si deve al Concilio Vaticano II, tramite la Costituzione pastorale Gaudium et spes, il merito di aver messo in luce il duplice dono che la Chiesa fa di sé al mondo e che il mondo fa alla Chiesa. Ciò non significa scadere nella mondanità, ma indica la capacità di lasciarsi plasmare dalla vita che scorre. Del resto, il cristianesimo stesso si esprime nelle diverse lingue, nei differenti linguaggi e con strutture filosofiche e culturali tipiche del proprio tempo. Non può che essere così! La riflessione è ancora più vera se si guarda all’esperienza umana di Gesù. La tradizione cristiana lo interpreta come il buon samaritano, che si china sulle ferite dell’uomo e vi versa «l’olio della consolazione e il vino della speranza» (Prefazio VIII). La compassione di Cristo per l’umanità sofferente diventa il modello di un’esistenza messianica che non trascura niente dell’umano[4]. Cristo si rivela competente di fede e di perdono, di malattia e di vocazione, di liberazione dal male e di misericordia, di amicizia e di amore. La croce porta a compimento ciò che l’incarnazione ha iniziato. Come ricorda GS 1, «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore». L’immagine dell’eco nel cuore consente di capire che le questioni sociali sono destinate ad essere interiorizzate, a diventare spiritualità che vede e provvede. Il cristianesimo non passa sopra le ferite dell’uomo come una ruspa che ammucchia e lascia nell’indistinto, ma vaglia e incontra i volti nella loro unicità.
Nel magistero sociale di papa Francesco vi è persino il tentativo di agganciare l’importanza delle relazioni con il fondamento trinitario. Ricorda LS 240:
«Le Persone divine sono relazioni sussistenti, e il mondo, creato secondo il modello divino, è una trama di relazioni. Le creature tendono verso Dio, e a sua volta è proprio di ogni essere vivente tendere verso un’altra cosa, in modo tale che in seno all’universo possiamo incontrare innumerevoli relazioni costanti che si intrecciano segretamente. Questo non solo ci invita ad ammirare i molteplici legami che esistono tra le creature, ma ci porta anche a scoprire una chiave della nostra propria realizzazione. Infatti la persona umana tanto più cresce, matura e si santifica quanto più entra in relazione, quando esce da sé stessa per vivere in comunione con Dio, con gli altri e con tutte le creature. Così assume nella propria esistenza quel dinamismo trinitario che Dio ha impresso in lei fin dalla sua creazione. Tutto è collegato, e questo ci invita a maturare una spiritualità della solidarietà globale che sgorga dal mistero della Trinità».
La cura per le relazioni è cura di se stessi e dell’altro. Ci arricchiamo umanamente quanto più entriamo nel vivo delle relazioni che ci costituiscono. Ogni vera novità scava nel cuore e rivede la qualità delle relazioni personali e comunitarie. Non appare strano che le ultime due encicliche sociali, Laudato si’ e Fratelli tutti, mettano al centro le relazioni che definiscono l’umano: quelle con il Creatore e tra le creature. La fraternità è pieno riconoscimento dell’altro come dono e impegno. Lo stile sinodale cui ci sta indirizzando il pontificato di Francesco è di grande aiuto per comprendere la necessità di ridare vita alle relazioni ordinarie. Siamo figli e fratelli, siamo figlie e sorelle, siamo padri e madri. Per questo ci mettiamo reciprocamente in ascolto e non trascuriamo la differenza nel progetto di unità che sottende ogni desiderio di comunione.
La sintesi più promettente di questo modo di pensare la vita cristiana la troviamo nella celebre espressione di EG «Chiesa in uscita». L’espressione ha forse riempito troppe pagine di riviste e di libri, ma ha avuto il merito di ridire la profonda verità della Chiesa stessa. Essa è tale solo se missionaria. E vive la missione solo se non è autocentrata, ma ridefinisce il proprio esserci nel mondo in relazione al servizio e al dono. L’incontro con l’umano non avviene in una camera iperbarica preparata all’occorrenza, ma nelle esperienze elementari del vivere: la nascita, la vocazione, il lavoro, la vita sociale, l’amore, la morte. In queste situazioni c’è sete di senso ed è possibile incontrare l’uomo nella concretezza delle sue domande, dei suoi dubbi, dei suoi fallimenti, delle sue gioie e delle sue speranze. Non c’è esistenza umana che non sia aperta al mistero proprio nei momenti in cui si sviluppa la propria vicenda storica. La Chiesa in uscita non abita un luogo, centrale o periferico che sia, ma incontra l’uomo semplicemente dove si trova. Viene da sorridere pensando a una Chiesa social, preoccupata di abitare i nuovi mezzi di comunicazione per essere riconosciuta. È invece segno di contraddizione una Chiesa nel sociale, capace di condividere l’umanità per servirla e accompagnarla a fare di sé un dono.
Lo stile educativo
Se la vita cristiana non può dirsi senza la sua dimensione sociale, tutto ciò ha conseguenze importanti nel campo educativo. Lo stesso insegnamento sociale della Chiesa nasce in contesti storici particolari con lo scopo di aiutare il discernimento dei credenti nelle diverse situazioni. Non vi è la pretesa di avere già tutto preordinato, ma di fornire strumenti alla coscienza morale perché si lasci interpellare dalla forza del Vangelo e agisca alla luce di ciò che ha compreso. Lo stile educativo della comunità cristiana potrebbe essere pensato intorno a quattro caratteristiche, che corrispondono a quattro figure bibliche.
La prima è la gratuità del buon samaritano (Lc 10,25-37). Non meraviglia che l’enciclica FT si fermi ad analizzare nel secondo capitolo l’atteggiamento di quest’uomo esperto in umanità. Per ascoltare e aiutare il malcapitato, deve fare un gesto fondamentale: fare spazio nella propria vita attraverso il tempo:
«Uno si è fermato, gli ha donato vicinanza, lo ha curato con le sue stesse mani, ha pagato di tasca propria e si è occupato di lui. Soprattutto gli ha dato una cosa su cui in questo mondo frettoloso lesiniamo tanto: gli ha dato il proprio tempo. Sicuramente egli aveva i suoi programmi per usare quella giornata secondo i suoi bisogni, impegni o desideri. Ma è stato capace di mettere tutto da parte davanti a quel ferito, e senza conoscerlo lo ha considerato degno di ricevere il dono del suo tempo» (FT 63).
Il samaritano si ferma. È sufficiente questo banale gesto per mostrare lo stile di cristianesimo nei confronti dell’altro: mettersi in ascolto del suo bisogno, aprire il cuore, lasciarsi commuovere interiormente, destinare tempo all’incontro e dare risposte di solidarietà. Se non si fosse fermato, non sarebbe nato l’incontro. Il sofferente non avrebbe trovato risposta alla sua domanda di vita. Per fare qualsiasi cosa, anche in campo educativo, bisogna partire dal presupposto che occorre dedicare tempo. E a ben pensarci, il tempo è l’unica realtà di cui disponiamo finché siamo in vita. Possiamo essere senza soldi, avere una cultura modesta, non possedere beni da condividere… ma il tempo è ciò che accomuna due esseri umani. È lo spazio concreto di un possibile incontro.
La seconda immagine è la pazienza del contadino. La parabola del grano e della zizzania (Mt 13,24-30) insegna che nella storia non è possibile separare completamente bene e male. La scelta di sradicare il male nella sua totalità non è realizzabile. Il mondo non si presenta come nelle sceneggiature di film americani: i buoni da una parte e i cattivi dall’altra. La virtù della pazienza non significa indifferenza tra grano e zizzania, tra bene e male, ma offrire una nuova opportunità di conversione, operare un discernimento e incoraggiare cambiamenti. Detto altrimenti, stando alle questioni sociali, il compito della Chiesa è educare al discernimento e accompagnare i processi. Papa Francesco in EG suggerisce che «il tempo è superiore allo spazio» (EG 222): incoraggiare i processi significa dare la possibilità al bene di lievitare e di crescere. È illuminante a tal proposito la chiusa del libro Le città invisibili di Italo Calvino:
«L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio»[5].
Le due logiche contrapposte sono due metodi educativi inconciliabili: il primo è quello di star dentro all’inferno e trovare il modo di conviverci con soluzioni accomodanti. Il secondo metodo porta a distinguere in mezzo all’inferno del nostro tempo - pensiamo alle guerre, alle ingiustizie, alle disuguaglianze, alle povertà, alla fame, alla mancanza di lavoro, alle crisi sociali - ciò che inferno non è e dargli spazio. Ne deriva un modello di cristianesimo molto diverso rispetto a quello che si lamenta perché le chiese si svuotano. Si può abitare il mondo alla ricerca dei segni di bene, trovandovi la presenza dello Spirito di Dio che opera nella storia e fa crescere il Regno di Dio. Con una consapevolezza: fare spazio a ciò che inferno non è richiede la capacità di pagare di persona. La dimensione della croce rende presente il mistero pasquale di Cristo nella vita dell’uomo. Si manifesta nell’andare controcorrente, nell’abitare una periferia, nello scommettere su coloro che vengono considerati scarti agli occhi del mondo. Perciò deve prendere sempre più forza un cristianesimo che accompagna i processi e li fa evolvere. Dare spazio al bene è rinunciare a etichettare per incentivare il meglio possibile.
La terza immagine è la comunità del Risorto come luogo di testimonianza della condivisione (At 2,42-47). Il quadro dei primi cristiani che sono perseveranti nell’insegnamento degli apostoli, nella comunione, nell’eucaristia e nella preghiera crea i presupposti per un agire sociale innovativo. La condivisione dei beni permette di andare incontro al bisogno di ciascuno. La comunione precede e dà senso alla disponibilità dei beni. È curioso notare che subito dopo aver descritto questa rappresentazione ideale della Chiesa, il libro degli Atti narra dell’incontro di Pietro e Giovanni con uno storpio alla Porta Bella del Tempio di Gerusalemme. Alla richiesta dell’elemosina Pietro rivela la sua competenza: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, alzati e cammina!». Il gesto di prendere per mano e di rimettere sulla strada della vita il paralitico rende bene l’idea. Una comunità educante non si occupa in prima istanza di cercare fondi, ma di ridare dignità alle persone. Occorre saper leggere non la domanda superficiale (elemosina), ma quella profonda (camminare): solo così la Chiesa interpreta il suo impegno nel sociale con stile di servizio. Ecco perché l’insegnamento sociale della Chiesa mette al centro la persona! Non per una visione individualistica, ma per una sua restituzione alla pienezza delle relazioni sociali in cui è inserita.
L’ultima immagine è la fede di una donna pagana (Mt 15,21-28). La cananea chiede con insistenza che la figlia venga liberata dal male che la tormenta. Gesù sembra reagire d’istinto ricordandole il limite della sua azione nella cerchia degli israeliti. Fa problema la non appartenenza al popolo d’Israele. La supplica della donna giunge a toccare il cuore di Cristo. Essa si paragona al cagnolino che mangia le briciole che cadono dalla tavola del padrone. Stupisce un Gesù che si lascia convertire da una donna straniera e appartenente a un’altra tradizione religiosa. L’episodio evangelico aiuta a capire l’importanza del dialogo trasformante, anche con le altre culture. Ne ha parlato in modo approfondito Francesco nel discorso alla Chiesa italiana a Firenze il 10 novembre 2015:
«La società italiana si costruisce quando le sue diverse ricchezze culturali possono dialogare in modo costruttivo: quella popolare, quella accademica, quella giovanile, quella artistica, quella tecnologica, quella economica, quella politica, quella dei media... La Chiesa sia fermento di dialogo, di incontro, di unità. Del resto, le nostre stesse formulazioni di fede sono frutto di un dialogo e di un incontro tra culture, comunità e istanze differenti. Non dobbiamo aver paura del dialogo: anzi è proprio il confronto e la critica che ci aiuta a preservare la teologia dal trasformarsi in ideologia. Ricordatevi inoltre che il modo migliore per dialogare non è quello di parlare e discutere, ma quello di fare qualcosa insieme, di costruire insieme, di fare progetti: non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà. E senza paura di compiere l’esodo necessario ad ogni autentico dialogo. Altrimenti non è possibile comprendere le ragioni dell’altro, né capire fino in fondo che il fratello conta più delle posizioni che giudichiamo lontane dalle nostre pur autentiche certezze. È fratello».
Mai come in questo tempo avvertiamo la necessità di una Chiesa credibile che sappia dialogare con tutti. Il dialogo culturale è cemento per la società e alimento per l’evangelizzazione. Occorre accantonare ogni pretesa di vincere il braccio di ferro numerico con altre realtà per sposare l’idea di essere minoranza qualificata e profetica. Soprattutto, rimane vero che il dialogo autentico non rimane a livello intellettuale, ma si cala nel concreto, attraverso iniziative condivise. Il fare qualcosa insieme è il modo migliore per esprimere un cammino percorso insieme. Ciò comporta il darsi tempo, l’esplicitazione delle differenze, la conversione al bene di cui l’altro è portatore e la capacità di spendersi perché il progetto trovi realizzazione. Come scrive Michel de Certeu, «non si vive senza gli altri»[6].
Esercizi di pastorale
A partire da tali indicazioni del Magistero pare utile provare ad identificare alcuni elementi che possano caratterizzare ed esemplificare le modalità attraverso le quali dare concretezza ad un'azione pastorale coerente.
Contesti
Uno degli elementi che rende fondamentale la necessità di stare dentro a reti sociali e progetti comunitari, riguarda l’esigenza di essere presenti nella quotidianità dei giovani. Non è più pensabile che possano bastare poche ore di frequentazione significativa e di relazione di qualità per contrastare e compensare messaggi che con sistematicità propongono modelli e valori antitetici non solo ai quelli cristiani, ma anche a quelli della società civile nella quale viviamo. Dobbiamo in qualche modo riuscire a contrastare l'invadenza della rete, come in passato - per la verità non sempre con grande successo - avremmo dovuto contrastare l'invadenza ed il ruolo della televisione. La presenza di figure adulte pronte a supportare i giovani ragazzi e ragazze, deve essere sistematica e quotidiana, riguardare il tempo feriale e non relegata solo ai giorni festivi, deve riguardare tutto il tempo di vita dei giovani, nella scuola e nel lavoro così come nello sport, nella festa e nella cultura.
Contesti caratterizzati da una così intesa presenza, presentano “costi” di manutenzione assai elevati. È un fattore da non sottovalutare, perché il tempo che abbiamo a disposizione “non ci basta mai” e destinarlo ad una priorità piuttosto che ad un’altra esige scelte consapevoli e lungimiranti. Eppure, investire nella manutenzione di reti sociali e comunitarie, appare una scelta ineludibile affinché il nostro agire possa avere qualche possibilità in più di generare un impatto positivo nella realtà sociale e giovanile. Investimento che, vedremo, necessita - per essere credibile - di caratterizzarsi tanto per l’agito quanto per lo stile collaborativo dell’azione.
Pare utile individuare alcuni contesti nei quali ordinariamente esprimere la capacità di fare rete.
Il primo, da un certo punto di vista il più innovativo perché soltanto più recentemente ha avuto una sua formalizzazione sia in contesti progettuali che nella letteratura sociale, e che si sviluppa in relazione alla condivisa percezione della diffusa emergenza educativa, è quello delle iniziative della cosiddetta “comunità educante” e che sempre più spesso si manifesta in quelli che vengono chiamati “Patti educativi di comunità”. Si tratta di iniziative caratterizzate dalla stipula di un accordo fra tutti i soggetti sociali che svolgono una funzione educativa all'interno della comunità a partire dalle famiglie, le scuole, gli oratori, l'associazionismo sportivo e culturale.
Un secondo contesto interessante, e che durante la pandemia si è manifestato in molte situazioni come un punto di riferimento fondamentale, è quello delle iniziative assunte nell'ambito dei cosiddetti Forum territoriali del Terzo Settore. Si tratta di iniziative che tendono a valorizzare e ad orientare tutte quelle iniziative rivolte agli adolescenti e giovani portate avanti dalle organizzazioni non profit del terzo settore territoriale.
Ulteriore contesto particolarmente interessante è rappresentato dai tavoli di partecipazione alla coprogrammazione e coprogettazione promossi dagli enti locali nell’ambito Piani sociali di Zona previsti dalla legge 328. I Piani sociali di zona sono quei particolari contesti nei quali le politiche territoriali, in particolare in ambito sociale, vengono, o meglio dovrebbero essere, concordate tra tutti gli enti di un territorio a prescindere dalla loro forma giuridica ma uniti dal fatto di condividere finalità sociali. In questo ambito, come sarà ben delineato in altre parti del fascicolo, la recente Riforma del Codice del Terzo Settore indica una chiara e rinnovata direzione per la messa in atto di pratiche collaborative nell’ambito della co-programmazione e co-programmazione, offrendo ampi spazi per sviluppare interventi capaci di proporsi con approcci comunitari.
Infine un ulteriore ambito nel quale la pastorale si può declinare in un contesto comunitario riguarda la collaborazione con la cooperazione sociale territoriale, sia per la propria spiccata mission orientata alla promozione della comunità e della promozione della partecipazione attiva dei soggetti che vi operano e sia perché la cooperazione, più di altre forme sociali, vanta una speciale vocazione ad occuparsi dei cittadini in tutto l’arco della propria vita: dalla prima infanzia e via via nell'adolescenza, in gioventù e poi da adulti e anziani, nell'ambito di servizi istituzionali storicamente strutturati come quelli scolastici ed educativi, sia in contesti meno strutturati come quelli dei centri di aggregazione giovanili che, tra l’altro, frequentemente collaborano con gli oratori.
Elementi qualificanti
È però utile anche provare ad identificare alcuni degli elementi che qualificano, o che dovrebbero qualificare, le esperienze di collaborazione e di alleanza tra i diversi soggetti sociali finalizzati a promuovere uno sviluppo armonico e consapevole di adolescenti e giovani. Tali elementi riguardano, prima di tutto, l'opportunità di mettere a disposizione dei giovani ambienti nei quali possano godere della fiducia degli adulti, nei quali possano sperimentarsi, nei quali gli errori e gli sbagli vengono vissuti come opportunità di crescita e di apprendimento.
Un ulteriore elemento particolarmente significativo è rappresentato dalla possibilità di svolgere un'esperienza di gruppo, che consenta di sperimentare relazioni promuoventi e una buona partecipazione e azione.
È chiaro quanto poco facile sia riuscire a costruire situazioni con queste caratteristiche, eppure è proprio nella dimensione della collaborazione e dell'alleanza comunitaria che è da ricercare la caratteristica che può garantire la maggiore efficacia degli interventi.
Aldilà dei contesti formali, più o meno strutturati ed istituzionalizzati, pare importante sottolineare l’urgenza di uscire dai propri ambiti di vita, la cosiddetta confort zone nella quale tendiamo non di rado a richiuderci, per andare ad incontrare i giovani in quelli che sono ogni giorno i loro luoghi di vita ordinari. In questo è importante evidenziare quanto, anche come effetto delle modalità di contrasto alla diffusione della pandemia, assistiamo ora a comportamenti giovanili che si sono ulteriormente polarizzati tra una socialità che si esprime in luoghi all'aperto e in situazioni di massa, e, dall’altra parte, una vita sociale che si ritrae nelle proprie abitazioni, quando non nelle proprie stanze, e che sempre di più utilizza canali di comunicazione digitale quale strumento privilegiato di partecipazione alla vita sociale. Per tale motivo appare evidente quanto una delle sfide fondamentali per stare dentro al mondo ed incontrarvi giovani ed adolescenti, oltre che nella dimensione dell'infrastruttura socio istituzionale, si deve giocare nella capacità di farsi presenti nei nuovi ambienti di vita naturale del mondo giovanile.
In tali contesti, un ulteriore elemento che appare fondamentale e deve caratterizzare il nostro modo di stare all'interno delle reti ed in relazione con il mondo giovanile, riguarda l'utilizzo di codici di comunicazione, un linguaggio che renda comprensibile i messaggi che proponiamo. Non basta praticare le reti fra soggetti sociali ed i canali di comunicazione che ci introducono alla relazione con il mondo giovanile, bisogna anche fare in modo di essere comprensibili oltre che credibili. Per questo dobbiamo mettere in discussione e ripensare il linguaggio con il quale ci rivolgiamo al mondo giovanile, per evitare di rivolgersi soltanto a quelli che dispongono del medesimo nostro vocabolario, parlando una lingua oramai straniera e incomprensibile alla maggioranza dei giovani e dei soggetti sociali.
Formazione degli adulti
Un'altra sfida importante a sostegno dell’azioni in tali contesti riguarda la nostra capacità di essere adulti di riferimento, esempi da imitare e ai quali i giovani si possano ispirare, per fare questo oltre a credibilità e autorevolezza, dobbiamo essere capaci, insieme alle reti comunitarie, di costruire palestre e laboratori nei quali ad adolescenti e giovani sia concesso di apprendere dagli errori, di mettersi in gioco e sperimentarsi facendo in modo che l'errore non diventi fattore che genera etichettamento o stigma sociale negativo, ma piuttosto possa essere condiviso ed elaborato, diventare elemento di maturazione e di apprendimento, sperimentazione e valorizzazione dell’intraprendenza.
In tali contesti è necessario prendersi cura di quanto gli adulti di riferimento e le loro infrastrutture sociali e comunitarie, siano in grado di andare incontro al mondo giovanile, che sappiano prima di tutto ascoltare, sintonizzarsi ed empatizzare con quelli che sono i bisogni sentiti da adolescenti e giovani, perché sarà soltanto a partire dalla capacità di ascoltare lealmente i giovani - come adulti e come reti comunitarie - e di entrare in connessione con tali bisogni che potremo sviluppare una significativa relazione educativa con loro.
La costruzione di contesti orientati da tali principi ed opzioni educative, prima e più urgentemente del costrutto istituzionale, necessita della presenza di adulti (non necessariamente anagraficamente) consapevoli del loro ruolo educativo e competenti nella promozione ed animazione di tali realtà.
Per questi motivi, è di importanza fondamentale la formazione degli operatori e delle operatrici, volontari e professionali, una formazione che sia integrata tra le diverse parti e profili, e capace di riconoscere e valorizzare il diverso ruolo, le diverse responsabilità, che ciascun soggetto sociale può e deve assumere nell'ambito del lavoro con i giovani. In assenza di reali competenze nella promozione e gestione delle reti e delle azioni collaborative, vi è il rischio di etichettare come tali pratiche sociali che in realtà sono definite su basi diverse e controproducenti.
Vi sono poi almeno altre due questioni fondamentali che ci pare opportuno tenere presente nella traduzione pastorale delle indicazioni del Magistero rispetto al lavoro di rete sociale.
La prima riguarda il senso delle iniziative che vengono proposte, cioè l'intenzionalità pedagogica, per la quale mettiamo in campo attività, azioni e progetti. Tale senso, anche quando non esplicitato, deve essere a noi molto chiaro e condiviso, affinché le attività non si riducano ad essere fini a sé stesse, ma siano invece in grado di concorrere al raggiungimento di obiettivi più alti, generativi.
L'altra questione riguarda la capacità di mantenere viva e fedele la nostra identità. L'utilizzo di un linguaggio diverso, di canali di comunicazione nuovi, la nostra capacità di rivolgerci a nuovi mondi giovanili e di interagire con nuovi soggetti sociali, non deve far venir meno la nostra volontà di presentarci per quello che siamo, per i valori nei quali crediamo, per la nostra fede che, anzi, impara ad esprimersi e ad essere comunicata nel nostro agire, nella vita quotidiana delle reti e dei giovani che in queste incontriamo.
NOTE
[1] Dall'Epistola a Diogneto, cap. 5; Funk 1, 317.
[2] Cfr Gv 17,1-26.
[3] S. Anselmo, Perché un Dio uomo?, a cura di D. Cumer, Paoline, Alba 19782, 87.
[4] G. Ruggieri e Metz
[5] I. Calvino, Le città invisibili, Mondadori, Milano 1993, 164.
[6] M. De Certeau, Mai senza l’altro, Qiqajon, Magnano 20072, 43.