Zbigniew Formella *
(NPG 2021-01-30)
Occorre ricordare che la crescita del ragazzo e la formazione dell’adulto non avvengono mai in maniera lineare: si cresce in modo discontinuo e ci si forma nel tempo. La comunità educante diventa efficace nella misura in cui accompagna i preadolescenti a prendere lo slancio per superare le sfide evolutive. Tale comunità rappresenta il soggetto da rimettere in moto, e viene immaginata come lo spazio relazionale che incoraggia i ragazzi e li protegge dai rischi; il contesto educativo diventa significativo nell’esperienza dei ragazzi nella misura in cui si sentono accolti, in un’età delicata e di transizione, con stima e fiducia nella cooperazione.
Attualmente la sfida fondamentale è quella di “fare squadra” nel campo educativo creando una rete di collaborazioni nella comunità cristiana, nella quale i genitori dei preadolescenti si incontrano con i loro educatori, catechisti, insegnanti, allenatori e cercano di contribuire alla crescita integrale del loro figlio/allievo/educando preadolescente in modo proporzionato, utilizzando strategie adeguate ed efficaci.
L’arte di accompagnare nell’età della transizione
All’interno di uno spazio relazionale significativo i preadolescenti sono diversi da quello che possono apparire in un primo momento. Essendo opportuno riflettere su ciò che deve caratterizzare l’accompagnamento, tratterò le qualità che l’accompagnatore deve dimostrare nei confronti dei preadolescenti all’interno degli ambienti pastorali.
Prima qualità, saper incoraggiare: un vero educatore deve imparare ad incoraggiare i ragazzi che gli sono stati affidati. Ciò che il preadolescente cerca in un adulto che lo accompagni non può essergli dato dai compagni o dal gruppo dei pari. Questi infatti, pur essendo degli importanti compagni di viaggio, condividono il suo stesso status, non possono permettergli di fare quel salto qualitativo richiesto dall’assunzione di un ruolo di responsabilità nella società degli adulti. Anche se la preparazione a questo compito si prolungherà nella giovinezza, di fatto l’adolescente è impegnato a costruire un’identità adulta. Da questo punto di vista allora non è tanto il parere dei pari quanto quello degli adulti a poterlo confermare sulla bontà del suo cammino.
Perché il preadolescente possa costruire un’identità positiva, poggiata su una sufficiente autostima, ha bisogno di sentirsi apprezzato su ciò che fa dagli amici, per non sentirsi solo, e dagli adulti, per essere sicuro che si sta orientando verso la direzione giusta. I giovani hanno un profondo bisogno che chi li accompagna apprezzi le loro qualità, le loro capacità, i loro progetti e le loro aspirazioni. Tutto ciò infatti li rassicura rispetto alla loro crescita e li aiuta gradualmente a inserirsi a pieno titolo nella società degli adulti (Gambini, 2011, 33).
Seconda qualità, saper ascoltare: oggi i preadolescenti hanno sete di essere ascoltati. Chi accompagna un giovane dovrebbe aumentare la capacità di stare in silenzio e mettersi in una attiva predisposizione all’ascolto attivo dell’altro. L’educatore dovrebbe essere attento ai bisogni urgenti dei giovani e distinguerli dai desideri fondamentali che si ricavano tramite un’osservazione ottimale e un buon ascolto, affinché il suo intervento sia mirato all’evoluzione e alla crescita personale atta a superare situazioni di disagio. Tutto il contesto dovrebbe rimanere ovviamente interattivo e continuamente ricalibrabile rispetto alla meta educativa stabilita; attraverso una continua messa in discussione da parte di chi accompagna rispetto al suo operato attraverso un sincero ascolto di sé e dell’altro.
Abbiamo bisogno nei nostri ambienti educativi/pastorali di adulti significativi, capaci di ascolto attivo, in grado di percepire ciò che il preadolescente sente e vive, pur mantenendo quel giusto distacco emotivo che gli permette di mantenersi in una posizione di sostegno, con delle domande adeguate, volte a chiarire piuttosto che a inquisire o peggio ancora plagiare. Questo accompagnamento maturo può aiutare il preadolescente a riflettere, a dare un nome e un significato alle proprie emozioni, a capire quanto gli sta accadendo e a individuare le scelte più giuste da fare. Nel dialogo ricco d’ascolto l’adulto è in grado di esprimere il suo punto di vista, ma solo dopo aver ascoltato a lungo il giovane. Quando, infatti, il giovane si sente compreso e riconosciuto dall’adulto, perché ascoltato, è in grado di realizzare dentro di sé uno spazio mentale che gli permette di cogliere l’importanza del pensiero altrui, utilizzato come elemento organizzatore della propria ricerca o del proprio disagio.
Per definire la propria identità l’individuo deve mettersi alla ricerca dei significati della propria esistenza. La ricerca dei significati è strettamente legata alla quotidianità. Tra i due aspetti esiste una stretta interdipendenza, per cui la domanda di senso è legata alla ricerca di esperienze capaci di offrire significati. Oggi più che mai il senso non è più qualcosa da comprendere in quanto già dato, ma da trovare e vivere in prima persona nelle esperienze della vita quotidiana. Ci si sposta così da una preminenza cognitiva a una esperienziale, dall’accettazione di un dato oggettivo uguale per tutti all’individuazione del nome che le cose acquistano nel momento in cui si entra in relazione con esse (Gambini, 2011, 34).
Terza qualità, il bisogno di fare esperienze: oggi più che in passato chi è chiamato ad accompagnare non può prescindere dal discernimento delle esperienze concrete di vita dei preadolescenti. Sempre di più si fa evidente che la pastorale giovanile deve partire dalla vita dei ragazzi. È abitando il proprio quotidiano, sperimentando le situazioni e sentendo le proprie emozioni che l’adolescente decide cosa fare e quali sono per lui le cose più importanti. Si tratta di una ricerca di significati che si sviluppa nell’esperienza diretta con la realtà ancor prima di essere legata al processo culturale di scambio di significati. Non riusciamo a capire i comportamenti dei nostri ragazzi perché non siamo capaci di sentire, di avere un contatto emotivo con ciò che provano.
L’esperienza diventa, quindi, per il preadolescente uno dei luoghi principali in cui attuare la ricerca di senso e d’identità che gli permetteranno di avere un senso e una direzione nella vita. È ascoltando le percezioni del corpo, le emozioni e i pensieri che il preadolescente cerca di scorgere quali sono le sue motivazioni personali: i suoi gusti, i suoi interessi, i suoi desideri, le cose importanti della vita. È dal groviglio di percezioni, di emozioni, di sentimenti, di immagini, di pensieri che l’esperienza comporta che il ragazzo interpreta “chi è” e “cosa vuole”. Si tratta di una ricerca d’identità e di senso in cui il preadolescente si muove in gran parte a livello emotivo piuttosto che riflessivo. Il percorso circolare e progressivo che il preadolescente deve realizzare per utilizzare proficuamente le sue esperienze sta nel tentativo di offrire alle sensazioni che prova un significato che orienti la sua azione, la quale viene a sua volta verificata a livello esperienziale, così da poter definire sempre meglio il proprio progetto d’azione, cosa vuole fare a medio e lungo termine. Per fare questo percorso è necessario avere al fianco una guida adulta che sappia accompagnare e orientare il processo esperienziale.
Quarta qualità, non attirare i ragazzi a sé ma condurli Verso: nell’ottica di un sano accompagnamento è necessario che l’educatore sia sempre vigile nel non portare i ragazzi a sé. Sempre di più la società moderna è, tendenzialmente, narcisista. Questo narcisismo è entrato anche negli ambienti educativi. Chi accompagna deve sempre accostarsi ai ragazzi come una figura di supporto; il suo operato si esplica nell’essere un sostegno concreto ed efficace per il giovane, ma non deve creare legami di dipendenza o esclusività. Elaborando anche in équipe le modalità e l’intervento educativo e progettando insieme le modalità delle proposte formative. L’accompagnatore deve evitare qualsiasi atteggiamento portato alla autoreferenzialità, ad aprirsi all’alterità, ai punti di vista e ai bisogni degli altri, alla prospettiva del dono, alla passione per il servizio, al vedere la vita come un compito da realizzare per il bene di tutti. Chi accompagna deve sempre sentire forte dentro di sé il senso di appartenenza alla comunità civile ed ecclesiale valorizzando le sue competenze a servizio dei giovani e non al servizio di un suo tornaconto personale. Per questo è fondamentale ridare alla relazione educativa una dimensione esistenziale. Un buon educatore dovrebbe sempre riflettere e porsi queste domande nell’accompagnare un giovane: la persona destinataria del mio servizio è per me unica? Ha per me un nome? Dietro il suo volto leggo una storia? Io partecipo della sua storia e lei della mia? Oppure è soltanto un utente anonimo, funzionale al mio servizio e per me, perciò avere davanti lei o aiutarne un’altra in fondo non fa nessuna differenza? È lei che risponde ai miei bisogni e desideri?
L’attività educativa è paragonabile ad un viaggio che l’educatore e il giovane intraprendono insieme. L’educatore accompagna nel percorso educativo, è facilitatore di consapevolezze e dell’espressione e regolazione emozionale, segue il cammino evolutivo del soggetto, è attento alle dinamiche educative, di aiuto e preventive nel rispetto della globalità della personalità dell’individuo.
Quinta qualità, accompagnare alla vita nella logica del progetto e della vocazione: la più urgente sfida a cui un educatore oggi è chiamato è quella di accompagnare un giovane a trovare un senso e un significato nella sua vita. In tal senso, se l’educare implica lo sviluppo di un senso di responsabilità, ciò rimanda all’educazione come formazione della coscienza, quale funzione capace di “dare senso” alle diverse situazioni nelle quali la persona viene a trovarsi. Dal punto di vista cristiano non si tratta solo di un “progetto” personale, ma dell’entrata in una logica vocazionale, dove il dialogo con Dio e l’ascolto della sua Parola diventano decisivi.
Il ruolo dell’educatore acquista, in tal modo, una centralità assoluta e l’atteggiamento di ricerca, che esclude qualsiasi imposizione, rimanda indubitabilmente al dialogo e alla coerenza personale, oltre che alla condivisione e al rispetto dei personali ritmi di maturazione. Educatore ed educando si trovano, in tal modo, rivolti contemporaneamente verso l’individuazione di valori che vanno considerati non come delle mete già raggiunte, ma come orizzonti esistenziali verso i quali tendere sempre e con rinnovato impegno.
Fondamento di un cammino di educazione al senso della vita è la costatazione che l’uomo si fa tale solo nell’interazione con il tu di un’altra persona e con quello di Dio. La dialogicità, però, non esaurisce l’esperienza umana: l’io e il tu, infatti, sono anch’essi orientati verso altre mete da raggiungere, verso istanze che trascendono. Ogni relazione chiusa in se stessa è destinata a perire. Il che vuol dire che l’autorealizzazione, di cui tanto si parla ai nostri giorni, non può essere lo scopo ultimo dell’uomo, poiché contraddice la fondamentale “autotrascendenza” dell’esistenza umana.
Educare al senso della vita vuol dire, fondamentalmente, riconoscere la libertà non nel “fare ciò che si vuole”, ma nel “volere ciò che si deve fare”, intendendo il “ciò che si deve fare” come un insieme di impegni e di compiti che la persona percepisce attraverso l’ascolto sistematico della sua coscienza, attraverso una lettura attenta della situazione in cui vive, attraverso un confronto coraggioso con gli altri. Giustamente, allora, a quello della libertà va collegato il concetto di responsabilità.
Educare al senso della vita vuol dire illuminare gli ambiti nei quali si snoda lentamente, e spesso intricatamente, la quotidianità. Per questo le giovani generazioni vanno aiutate a mettersi alla prova, ad aprire gli occhi, a fare esperienze nelle quali decodificare i significati utili alla costruzione di un’identità relazionale, aperta allo scambio e capace di entrare in intimità con gli altri, perché solo nella condivisione si può generare. E per fare questo devono essere accompagnati da adulti generativi, ovvero capace di farli crescere e di lasciarli andare.
Tra autonomia ed educazione alla fede
La questione dell’educazione alla fede, forse meglio definita maturazione della propria fede, viene vista nell’ottica dello sviluppo integrale della personalità, che è sempre un processo complesso che include diverse variabili: età, ambiente circostante, tempo, ecc. Nell’età preadolescenziale parliamo del passaggio da una “fede raccontata” da parte degli adulti a una “fede testimoniata” da parte degli stessi adulti. Si tratta anche di un passaggio da “una fede ascoltata” a “una fede sperimentata”, perché in questo periodo, in modo particolare, acquisiscono importanza per i ragazzi le cose toccate personalmente con mano, piuttosto che i concetti astratti, ascoltati e presentati da parte degli adulti. Il vissuto religioso, spirituale all’interno del gruppo dei pari, preparato, condiviso, sperimentato e vissuto in modo molto concreto, non solo teorico diventa fondamentale: per esempio le parole di Gesù: “venite e vedrete” (Gv 1,39); “toccatemi e guardate” (Lc 24,39) hanno un significato particolare per i preadolescenti. L’incontro con la persona di Gesù che vive la propria fede in modo concreto, aiuta ragazzi nel loro percorso di fede, rispettando la loro istanza di coniugare “teoria e pratica”.
Quando si parla di “sviluppo religioso” e della relativa educazione alla fede (accompagnamento da parte della persona adulta), ci si pone tra le dinamiche dell’area psicologica e sociale. Il preadolescente sta uscendo dalla quasi totale dipendenza dal mondo adulto, dove il riferimento ai valori condivisi con gli adulti era il suo riferimento sicuro attraverso il quale non si poneva troppe “domande esistenziali”.
L’educazione religiosa copre tutti gli ambiti della vita umana, con un apprezzamento speciale per la dimensione spirituale, ponendo cioè lo scopo della vita dell’uomo non solo in termini empirici e terreni, ma verso un chiaro orientamento verso la trascendenza. Supporta l’uomo nell’acquisizione di capacità per rivolgersi a Dio, dialogare con Lui e seguire le sue indicazioni, vivendo con fiducia la relazione con Lui, riconoscendo in Dio il garante della sicurezza e della felicità umana per tutta l’eternità.
L’educazione religiosa, con la sua gamma di cognizioni, espande le possibilità di percepire se stessi e il mondo circostante. Le sue proprietà possono essere presentate come segue:
• apertura alle capacità più profonde di una persona, inclusa la capacità di conoscere, amare, essere liberi o vivere senza limiti (immortalità);
• superamento del proprio “allontanamento”, possibile in Dio che offre all’uomo la sua amicizia e amore;
• ricerca di se stessi, cioè scoperta del proprio destino, cioè vivere con Dio nella felicità e nell’amore senza fine.
La difficoltà nell’educare “alla fede” consiste nel fatto che nei processi di educazione alla fede si verificano contemporaneamente due realtà che vanno integrate: quella divina e quella umana. La Chiesa insegna che la fede è un dono di Dio, quindi non è proprietà di un educatore che la trasmette. In questo senso, la Chiesa dovrebbe essere identificata con l’ambiente di vita del processo educativo in cui l’uomo può impegnarsi creativamente nella ricerca e nella scoperta della verità. In questa situazione sia l’educatore che il ragazzo non possono che contribuire alla creazione di condizioni adeguate che consentano l’accoglienza, l’accettazione e lo sviluppo del dono della fede. Quindi stiamo effettivamente parlando della ricerca dei modi giusti per raggiungere la fede e gli atteggiamenti che ne derivano.
BOX 1
Nonni formidabili catechisti
In questo tempo di pandemia la famiglia, piccola chiesa domestica, nonostante tutto, rimane il luogo primo e privilegiato per i preadolescenti del loro incontro con il Signore. In particolare la relazione tra nonni e nipoti costituisce un legame unico, peculiare e insostituibile, dal quale gli uni e gli altri traggono benefici. Il compito educativo fondamentale dei nonni è quello di aiutare i nipoti a crescere in umanità, di accostarli al senso del divenire umano, di insegnare particolari valori a partire dalla loro esperienza di vita. In tal senso l’educazione alla fede si inserisce in questo peculiare ruolo dei nonni. Si sperimenta così la gioia per chi sa “trasmettere” ciò che “forma” l’uomo e lo abilita alla relazione umana e sociale, permettendogli di crescere in tutte le sue potenzialità, a cominciare dalla dimensione spirituale. Attraverso il racconto e la condivisione delle esperienze ciò è possibile.
Per acquisire il livello più alto, un ragazzo pian piano deve “abbandonare” i valori e le regole delle persone che sono significative per lui durante l’infanzia, a favore di regole che inizialmente si applicavano in un gruppo piccolo e sicuro, ad esempio in un gruppo di coetanei. Solo dopo tale “formazione” sarà in grado di entrare in modo sicuro e consapevole nelle regole che governano lo stato, le varie istituzioni, la vita pubblica e simili. Guardando ciò che accade durante la preadolescenza e l’adolescenza dal punto di vista dello sviluppo del ragionamento morale, non dobbiamo sorprenderci del fatto che discostiamo (almeno inizialmente) dei valori e dei principi comunicati dai genitori. Questa dinamica può essere accompagnata da forti emozioni da entrambe le parti. I ragazzi, per esempio possono ricorrere alla ribellione e al comportamento ostentato. Tuttavia, le differenze che sorgono non causano necessariamente conflitto, ostilità e distanza. Quando i genitori rispettano il diverso punto di vista dei figli e i ragazzi non si sentono obbligati a lottare per i propri diritti, è possibile creare una piattaforma per la discussione e lo scambio di argomenti. Oltre ad assumere la prospettiva degli altri, è una comprensione sempre migliore del fatto che la stessa questione può essere vista da diversi punti di vista, e che le persone differiscono per opinioni e convinzioni; il preadolescente così perde gradualmente il suo egocentrismo, grazie al quale può dirigere la sua attenzione su problemi più ampi e, di conseguenza, impegnarsi nell’area del funzionamento sociale, compreso quello religioso.
Verso il progetto e la vocazione
Sembra abbastanza ovvio che non esistono risposte certe a tutte le domande o ricette preconfezionate adatte a tutti i contesti. Occorre insieme produrre idee e metterle in circolazione, dal momento che esistono esperienze positive che andrebbero condivise. La prima cosa importante è saper valorizzare i ragazzi che vivono questa fase di sviluppo e assumere la missione di educatori come una grande opportunità di crescita.
Come rapportarsi con i preadolescenti? Certe idee ruotano attorno ad alcune “parole forti”. Innanzitutto “accoglienza”: non è scontata come si potrebbe presumere, perché implica la capacità di comprensione “simpatica” delle loro storie, a volte già complesse e segnate dalla sofferenza, e di accompagnamento. Seconda cosa, quindi, “ascolto”, quello autentico, che prende sul serio le loro proposte, le loro critiche, le loro resistenze ai nostri interventi. La terza cosa è la “relazione”: prima di ogni altra cosa (contenuti, dottrine, sussidi, riti, ecc.) occorre stabilire un rapporto personale, individuale per quanto possibile, perché capita di avere a cuore il gruppo ma non il singolo individuo.
La virtù che sostiene il tutto? La pazienza, una caratteristica fondamentale di ogni educatore, sostenuta dalla fede e dalla speranza, intesa come capacità di attendere, di “soffrire” per la partenza dei ragazzi a cui si è cercato di voler bene, ma aspettandosi il loro ritorno e in qualche modo preparandolo, con lo stile del Padre Misericordioso (Lc 15,11-32) che accetta di concedere l’eredità al figlio che gliela chiede, pronto, però, a riaccoglierlo senza prediche e rimproveri.
L’atteggiamento che viene richiesto agli adulti è, innanzitutto, quello di essere presenti in maniera intelligente, mettersi accanto, ascoltare i vissuti, stare in ricerca con loro, condividendo le domande di senso che sorgono e camminando insieme, essendo capaci di dare ragione delle proprie scelte di vita. I ragazzi devono percepire la cura per la loro anima, ossia la preziosità della loro persona. La nostra deve essere una preoccupazione gratuita, che non presenta la paura di perdere i ragazzi, perché il seme donato non è nostro, ma contiene la potenzialità della vita dello Spirito e prima o poi, dove e come il Signore vorrà, porterà frutto. Siamo alleati dello Spirito Santo, perché Lui ci precede, è già presente nei ragazzi che incontriamo. Allora, perché avere paura se possiamo contare su una alleanza così forte?
BOX 2
L’educatore, il genitore e il preadolescente di fronte alla vocazione
Il testo del Vangelo che ci sembra particolarmente interessante da contemplare per tutti gli educatori è quello di Gesù dodicenne a Gerusalemme (Lc 2, 41-52). Egli dodicenne dialoga con i genitori che vengono invitati a riconoscere la sua missione specifica, che non dipende né dai suoi genitori né dai suoi educatori, ma da una relazione diretta con Dio. Arriva il momento di accompagnare la persona nella strada individuale, e non tanto educare secondo le proprie convinzioni, cercando di modellare il ragazzo che ci è affidato a nostra immagine e somiglianza. Trovare la modalità di dialogare tra le generazioni è sempre un invito e un impegno reciproco, che però va allargato verso un adeguato spazio di ascolto di Dio, della sua Parola e dei suoi appelli.
C’è un momento preciso in cui ci si deve tirare indietro e ci si deve far parte, lasciando il posto ad una relazione diretta tra il ragazzo e Dio. Questo può essere doloroso, soprattutto perché si scopre che il ragazzo o il figlio non è un possesso dell’educatore o del genitore. Questo può essere fonte di un trauma, ma può diventare un fattore liberante e maturante le persone che accompagnano.
Gli educatori e i genitori vanno aiutati a “lasciar andare” le persone che sono loro affidate, a farle crescere: da questa capacità e coraggio si vede che sono davvero generativi. E il preadolescente, messo di fronte alla sua vocazione, è aiutato a prendere coscienza che è amato e chiamato da Dio, cioè è oggetto di un’attenzione specifica e di una missione personale. La vocazione, in questo senso, è una dinamica che genera dignità e offre un senso e una destinazione alla propria libertà.
La tendenza contemporanea a costruire le proprie visioni sulla base delle informazioni provenienti dai mass media, principalmente da Internet e dalla televisione, può portare alla formazione di un’identità mediatica (personalità online). Un ragazzo oggi tendenzialmente non cerca occasioni per confrontarsi con la propria visione del mondo in situazioni reali; preferisce rimanere a livelli immaginari che non sempre corrispondono alla realtà. Da questo punto di vista, estremamente preziose sono le esperienze di un preadolescente relative all’essere in un gruppo di pari, in una relazione intima o in contatto con una persona significativa, un’autorità adulta, sana e responsabile. Sembra che questo oggi sia estremamente importante quando parliamo dell’educazione alla fede nella dimensione personale e comunitaria.
La dinamica di educazione alla fede viene raccolta in tre grandi dimensioni o movimenti: una trasmissione della fede (traditio), un’assimilazione (receptio), che a sua volta si apre e trova senso in una sempre più convinta restituzione, nella vita e ad altri, di quanto ricevuto e assunto personalmente (redditio). Questo schema caratterizza l’educazione alla fede in ogni fase della vita.
Esula da questo Dossier entrare direttamente nell’ambito dell’iniziazione cristiana dei preadolescenti con tutte le sue fasi e i diversi momenti di ricezione dei sacramenti. C’è un ampio dibattito in corso e ci sono molte prassi differenziate in atto. Semplicemente mi preme ricordare il grande ruolo, soprattutto in questi tempi di pandemia, della famiglia, che da sempre è stata considerata dalla tradizione cristiana una “Chiesa domestica”. Forse proprio in questi tempi di pandemia essa va riscoperta come soggetto di trasmissione e di approfondimento della fede.
BOX 3
La catechesi in famiglia al tempo della pandemia
Questo periodo è stato contrassegnato in diversi contesti (educativi, lavorativi e sociali) a notevoli cambiamenti e trasformazioni. Anche la catechesi deve ripensare e cogliere questo tempo come un periodo da non far disperdere ma da mettere a frutto con creatività. La prima sfida che pone il tempo della pandemia che stiamo vivendo passa proprio da qui, vale a dire dalla possibilità di “sperimentare percorsi nuovi” che conducono a strade ancora poco battute, piuttosto che ripiegare su soluzioni apparentemente più semplici ma anche più sterili e impersonali, come la catechesi on-line. Allora ecco l’opportunità di valorizzare realmente le famiglie come luogo più naturale alla formazione alla fede. Ecco alcuni consigli per poter fare una catechesi esperienziale in famiglia:
• essendo essa luogo di testimonianza cristiana incarnata attraverso l’esempio dei genitori, in modo particolare, i preadolescenti imparano più da quello che vedono e non da quello che sentono dai genitori;
• occorre trovare dei momenti in famiglia dove pregare attraverso un piccolo brano evangelico lasciando i figli liberi di esprimere ciò che hanno sentito;
• occorre pensare a dei gesti concreti di attenzione e carità da poter concretizzare attraverso delle azioni pratiche da fare come famiglia: ai preadolescenti piace prendere degli impegni concreti;
• è opportuno assumere in famiglia un impegno concreto di servizio come, ad esempio, la scelta di un piccolo gesto quotidiano da fare da parte di ogni componente della famiglia.
* Professore di Psicologia dell’Educazione presso la Pontificia Università Salesiana di Roma
Bibliografia
BRZEZIŃSKA A. (2005), Psychologiczne portrety człowieka. Praktyczna psychologia rozwojowa, Gdańsk, GWP.
DIOCESI DI MILANO (2020), Ora andiamo! Linee guida per la pastorale dei preadolescenti, Centro Ambrosiano.
FORMELLA Z. (2020), Psicologia dell’educazione. Tra potenzialità personali e opportunità ambientali, Roma, LAS.
KOHLBERG L. (1986), Essays on moral development. Vol. 2: The nature and validity of moral stages, San Francisco, Harper & Row.
MAREK Z. (2014), Religia pomoc czy zagrożenie dla edukacji?, Kraków, WAM.