Roberto Carelli
(NPG 2016-08-27)
LA FEDE DI GESÙ E LA FEDE IN GESÙ
La nostra fede, che come abbiamo visto nei paragrafi precedenti ci rende più religiosi, più ragionevoli e più capaci di comunione, trova il suo fondamento primo e ultimo in Gesù: nella sua esperienza di Dio facciamo esperienza di Dio, nel suo essere il Figlio anche noi maturiamo come figli. Egli è infatti, come dice il Concilio, «mediatore e pienezza di tutta la rivelazione» (DV 2) ed è anche, come si legge nella Lettera agli Ebrei, «l’autore e il perfezionatore della fede» (Eb 12,2). “Mediatore”, “pienezza”, “autore”, “perfezionatore”: su queste quattro parole, così dense e solenni, imposteremo la nostra riflessione sul centro della fede. Gesù ci apparirà come il tutto della nostra fede: è Lui che ne dice la verità e ne offre la realizzazione, che ne sta all’inizio e ne rappresenta il compimento; è Lui che dischiude le verità della fede e rende possibile l’atto di fede, che ci dona la fede come dono divino in modo tale che sia al tempo stesso un atto umano (Cf. CCC 153-154); è Lui che ci salva dal male e ci dona la vita eterna, ci fa conoscere Dio e operare in lui, perché – dice Cirillo di Gerusalemme – «la fede è una sola, ma di duplice genere: non riguarda soltanto i dogmi, ma è causa di prodigi»[1].
1. Gesù è il fondamento della fede perché è anzitutto il perfetto Mediatore della rivelazione. È vero che noi credenti riconosciamo Abramo come nostro padre nella fede, ma con Gesù non c’è confronto: Egli stesso, discutendo con i farisei, disse che Abramo «vide il suo giorno e se ne rallegrò», perché «prima che Abramo fosse, io sono» (Gv 8,56.58). È dunque vero che la fede si fonda sulla benedizione ricevuta da Abramo per la sua obbedienza e la sua disponibilità al sacrificio, ma questo è appena paragonabile con l’obbedienza e il sacrificio di Gesù «fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,8): è in Lui che abbiamo ogni benedizione ed è nel suo sangue che abbiamo la redenzione (Ef 1,3.7). Comprensibile la gioia di Abramo nel vedere il suo giorno!
La mediazione di Gesù è poi speciale, perché Egli non rappresenta “una” delle molte parole di Dio, ma è “la” Parola stessa di Dio: «Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ci ha parlato per mezzo del Figlio» (Eb 1,1-2). Gesù non porta soltanto notizie su Dio, ma è l’esprimersi stesso di Dio, e non in forma parziale, ma definitiva: «Cristo è la Parola unica, perfetta e definitiva del Padre, il quale in lui dice tutto, e non ci sarà altra parola che quella… Dio, attraverso tutte le parole della Sacra Scrittura, non dice che una sola Parola, il suo unico Verbo, nel quale dice se stesso interamente» (CCC 65.102). La nostra fede non è in questo senso un’ideologia o una morale, ma una persona e un incontro, e non dà luogo solo a idee e imprese, ma anzitutto a un rapporto d’amore (Deus Caritas est [=DC], 1). La fede è un legame personale, filiale, nuziale: nella fede incontriamo le persone divine, veniamo generati da Dio, impariamo a corrispondere a Dio, ci ritroviamo fra di noi!
2. In questo senso si comprende che Gesù non è solo il mediatore della rivelazione, ma anche la sua Pienezza, precisamente Mediatore in quanto Pienezza. Il motivo è quello che il Concilio ha ben espresso dicendo che Gesù, Verbo fatto carne, «fu mandato come “uomo agli uomini” e “parla le parole di Dio”» (DV 4). Significa che essendo veramente Figlio di Dio e veramente Figlio dell’uomo, Gesù è il rivelatore e il rivelato, il messaggero e il messaggio, colui che annuncia il Regno e il Regno stesso in persona, colui che suscita la fede e il suo contenuto fondamentale. Credere in Dio è dunque inseparabilmente credere in Gesù. Molte le espressioni di Gesù a riguardo: «questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato» (Gv 6,29), e perciò «abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me» (Gv 14,1), perché «chi crede in me, non crede in me, ma in colui che mi ha mandato» (Gv 12,44-45).
In altre parole, Gesù è la pienezza della fede e proprio così il mediatore, perché fra Lui e il volto paterno di Dio, così come fra Lui e il vero volto dell’uomo, non c’è alcuna distanza, ma solo una felice corrispondenza. La sua pretesa è infatti letteralmente inaudita: «chi vede me vede il Padre» (Gv 14,9), perché «io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30), e perché «il Figlio da sé non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre» (Gv 5,19). È proprio l’identità filiale di Gesù, in quanto porta in sé e porta a noi la sostanza del Padre, il motivo per cui Benedetto XVI, indicendo l’Anno della fede, ha insistito sull’unità profonda fra i contenuti della fede e l’atto della fede. Se la fede va sempre insieme «professata, celebrata, vissuta e pregata», e sempre alimentata «con la Parola di Dio e il Pane di vita» (Porta fidei, 9.1), è perché le verità della fede si radicano e coincidono con la coscienza che ne ha Gesù, il quale davvero è per noi «via, verità e vita», cosicché nessuno può giungere al Padre se non attraverso Lui (Gv 14,6): è dunque stringendo un legame più forte con Lui che possiamo addentrarci nelle verità della fede, scrutarne le ragioni e sondarne le profondità.
3. Siamo ora in grado di comprendere il senso e la densità dell’affermazione secondo cui Gesù è “autore e perfezionatore” della fede. Che Gesù sia Autore della fede significa che il rapporto fra Gesù e la nostra fede non è in alcun modo esteriore. Detto tecnicamente, è certamente un rapporto causale, ma va compreso in senso partecipativo. Dal punto di vista del Figlio, significa sottolineare il realismo della sua Incarnazione: Egli è autore della fede perché ne realizza il senso in maniera singolare e insuperabile nella sua umanità. Dal nostro punto di vista, significa dare risalto alla comunione vitale con Gesù: credere è partecipare alla conoscenza e all’amore del Figlio nei confronti del Padre, alla sua obbedienza e alla sua confidenza. Credere in Gesù ha dunque un significato pregnante: vuol dire credere “per Cristo, con Cristo e in Cristo”, innestati nel suo perfetto affidamento al Padre e nel suo abbandono fiducioso alla Sua volontà[2].
Che la fede cristiana sia un innesto nella “fede” di Cristo è reso evidente dalla forma di discepolato che l’annuncio del Vangelo ha assunto fin dalle origini, e soprattutto dalla forma sacramentale che ha assunto dalla Pasqua in avanti: davvero, nella fede non si tratta anzitutto di sapere e di fare, ma di lasciarsi attirare nella vita di Gesù e di entrare in comunione con Lui: la sapienza e le opere irradiano da questo legame, e ne portano immancabilmente il segno, quello della perfezione e quello della sovrabbondanza, cose per l’uomo irraggiungibili, eppure evidenti nella vita dei santi. Per questo la fede ha la forma di un itinerario: credere è incontrare Gesù, ascoltare e accogliere il suo annuncio, conoscerlo e amarlo seguendone le orme, lasciarsi conformare a Lui e rivestirsi dei suoi sentimenti, immergersi nella sua morte e risurrezione, partecipare al suo sacrificio e alla sua gloria, alla sua umiltà e alla sua autorità, essere e rimanere suoi discepoli e diventare suoi coraggiosi testimoni, disposti a dare la vita per Lui, per i fratelli e le sorelle.
4. Ma Gesù è infine il Perfezionatore della fede, colui che la porta a piena maturità. Qui la nostra ammirazione e la nostra gratitudine per Gesù deve toccare il vertice, perché davvero, come dice con commozione la Lettera agli Ebrei invitando a tener ferma la propria professione di fede, «non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato» (Eb 4,15). Infatti Gesù, per obbedienza al Padre e per amor nostro, ha voluto attraversare e lasciarsi attraversare da tutta la nostra fragilità di creature, farsi carico della nostra debolezza nel fare il bene, della nostra vulnerabilità nelle tentazioni, del poco coraggio a credere fino in fondo, della paura di fronte al dolore e alla morte, della poca coscienza di quanto il peccato sia per noi distruttivo e mortale.
Ed ecco allora che accade l’impensabile! La sua già perfetta obbedienza di Figlio viene perfezionata e coronata dalla sua sofferenza, ma proprio così rende anche noi capaci non solo di entrare nella fede, ma di viverla fino in fondo, non solo di lasciarsi riscattare dal suo preziosissimo sangue, ma di collaborare al riscatto di altri, dovesse costarci il sangue: «proprio per questo, nei giorni della sua vita terrena, egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l'obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5,7-9). È grazie a questa estrema obbedienza di Gesù, che ogni credente potrà affrontare vittoriosamente ogni preoccupazione, ogni prova, ogni dolore.
In pratica, prima e dopo tutto, la fede si accende e si sviluppa nel contemplare e comunicare il volto di Gesù.
1. Se credere è immedesimarsi con il Signore Gesù, allora il primo compito, che nella vita cristiana dovrebbe essere permanente, è quello di «tenere lo sguardo fisso su Gesù» (Eb 12,2), farne continua memoria, vivere alla sua presenza, attendere il suo ritorno. In altre parole, farsi attenti a tutte le sue venute: la sua venuta nella carne, nella contemplazione dei misteri della sua vita in compagnia di Maria nel Rosario; la sua continua venuta eucaristica, centro, culmine e fonte di tutta la vita cristiana; la sua venuta nella Gloria, vivendo la vita terrena nella prospettiva della vita eterna.
2. Se la fede si accende nell’incontro con Gesù, allora il compito permanente della vita cristiana è annunciare il suo Nome, propiziare l’incontro con Lui, ritenerlo determinante nel valutare e nel decidere, testimoniarlo con umiltà e coraggio attraverso la parola e soprattutto attraverso una vita sempre più conformata ai lineamenti e alla dedizione di Lui, alla sua umiliazione e alla sua gloria: «abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso assumendo la condizione di servo» (Fil 2,5-7).
LA FEDE E I SACRAMENTI
Si è visto che la fede non è solo credenza, ma anche e più ancora appartenenza. Venire alla fede è conoscere Gesù, riconoscerlo come Parola definitiva di Dio, seguirlo e imitarlo come unico Maestro, conformarsi e immedesimarsi ai suoi lineamenti di Figlio per raggiungere la statura di figli di Dio. La fede è cammino di fede, itinerario che coinvolge corpo e anima, intelligenza e volontà, affetti e legami, vicenda che ha inizio nell’incontro personale con Gesù e si sviluppa nell’intima amicizia con Lui. Trattandosi di un cammino irriducibile alla semplice conoscenza della verità e alla pura obbedienza alla legge, ecco delinearsi il carattere sacramentale della fede.
L’«economia sacramentale» della fede – così ne parla il Catechismo (CCC II,1) – trova le sue radici nel mistero dell’Incarnazione, laddove «il Verbo invisibile si è fatto visibile» (Pref. Nat. II) e «la Parola si è fatta carne» (Gv 1,14). Lì si è realizzato un vero “sposalizio” fra la divinità e l’umanità, è accaduto quel «misterioso scambio» (Pref. Nat. III) per il quale il Figlio di Dio ha assunto tutta la debolezza dell’uomo, affinché ogni uomo assumesse la dignità di figlio di Dio. Ora i sacramenti esistono proprio per questo: perché accada sempre di nuovo questo grande mistero in cui il cielo e la terra si toccano e si compenetrano: Dio si coinvolge nella carne dell’uomo e l’uomo viene coinvolto nella vita di Dio. La lingua stessa testimonia di questo misterioso incontro d’amore: significativamente, il latino sacramentum traduce il greco mysterion!
La Chiesa sa molto bene che la fede non è relativa al pensiero o all’azione prima di riguardare il cuore e la carne. Attenzione! Il nesso fra fede e sacramenti è intrinseco: i sacramenti non sono solo la porta di ingresso (Battesimo) o l’alimento della fede (Eucaristia), come se la fede, poi, fosse altro. La migliore teologia ha chiarito che va pensato il carattere sacramentale della fede stessa, non qualcosa meno di questo: la fede è innesto nell’umanità del Figlio, è intima comunione con Gesù[3]. Un’antichissima esortazione di sant’Ignazio di Antiochia è in tal senso davvero sorprendente: «rivestitevi di umiltà e rinascete nella fede che è la carne del Signore. Rinnovatevi nella carità che è il sangue di Gesù Cristo». La fede non è in prima battuta un fatto mentale o morale, ma eucaristico! Dunque non bisogna pensare la fede e i sacramenti separatamente, ma riconoscere la permanente radice sacramentale della fede. Può sembrare difficile, ma in verità è molto ragionevole: come la vita naturale, prima di sbocciare in coscienza e amore, viene anzitutto dal corpo, dal sangue e dalle cure di una madre resa feconda da un padre, analogamente la vita soprannaturale, che pone in noi la sapienza e la bontà di Dio Trinità, ci è comunicata nel corpo donato, nel sangue versato di Cristo, Figlio del Padre e donatore dello Spirito.
La fede è strettamente legata ai sacramenti, perché la fede è generazione di fede: non un insieme di verità da credere, ma una vita da accogliere, una vita che sprigiona tutta la sua bellezza, bontà e verità per il fatto che accade presso una libertà che la accoglie. Ecco perché la Chiesa qualifica la fede come “virtù teologale”, cioè come partecipazione a un modo di essere di Dio: perché essa è un abito interiore che origina da Dio, non dall’iniziativa dell’uomo; è dono effuso, non capacità acquisita; è frutto della grazia, non esito di uno sforzo. Facile la verifica esistenziale: 1. Esistono molte religioni, e gli uomini sono generalmente religiosi, ma di fatto la fede cristiana non si dà come sviluppo di un sentimento religioso, ma come effetto della Parola e del Battesimo, di un annuncio e di un rito; 2. A convincersi che la fede, prima che corrispondenza alla grazia è una grazia essa stessa, ci si può chiedere: chi trova semplice riconoscere, consentire e abbandonarsi totalmente alla volontà di Dio? Chi ha il coraggio di ritenersi semplicemente libero dalla lotta contro il dubbio, la sfiducia, l’incredulità? E chi può dire di essere naturalmente inclinato a quelle che il Catechismo elenca come le principali conseguenze della fede, e cioè «credere in Dio e amarlo con tutto il cuore», «conoscere la grandezza e la maestà di Dio», «vivere in rendimento di grazie», «riconoscere l’unità e la dignità di tutti gli uomini», «usare rettamente le cose create», «fidarsi di Dio in ogni circostanza, anche nelle avversità» (CCC 222-227)?
Certo, la fede si innesta nella dimensione di fiducia che vi è in ogni uomo, ma poi la supera in tutti i sensi: la purifica e la trasforma, la ridona a se stessa e la porta oltre se stessa. Fino al punto da capovolgere tutte le più elementari sicurezze mondane: ciò che prima contava molto, nella fede non ha più valore; ciò che invece era ritenuto tanto prezioso da essere ingombrante, nella fede diventa perfino «spazzatura» a confronto della conoscenza di Cristo (Fil 3,8); e ciò che prima alimentava e assicurava la vita (ma non poteva evitare la morte) nella fede cede il passo al cibo più sostanzioso e alla roccia più sicura del vivere la Parola (che è morte sicura dell’uomo vecchio, ma anche ingresso in una vita che non finisce). Per questo Gesù diceva: «mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera» (Gv 4,34), e traduceva per noi in termini sacramentali: «perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda» (Gv 6,55).
Vale la pena insistere ancora un poco sulla grazia della fede, anche per non mancare di gratitudine nei confronti di Gesù, che ci ha ottenuto tale grazia a caro prezzo: l’umiltà della sua incarnazione e l’umiliazione della sua passione. Per rendere minimamente l’idea, nel tempo d’Avvento la Chiesa legge ogni anno una bellissima pagina di sant’Ireneo che interpreta la fede come un delicato e drammatico adattamento di Dio all’uomo e dell’uomo a Dio: «se l’uomo riceverà senza vana superbia l’autentica gloria che viene da ciò che è stato creato e da colui che lo ha creato, cioè da Dio, l’onnipotente, l’artefice di tutte le cose che esistono, e se resterà nell’amore di lui in rispettosa sottomissione e in continuo rendimento di grazie, riceverà ancora gloria maggiore e progredirà sempre più in questa via fino a divenire simile a colui che per salvarlo è morto… Il Verbo di Dio pose la sua abitazione tra gli uomini e si fece Figlio dell’uomo, per abituare l’uomo a comprendere Dio e per abituare Dio a mettere la sua dimora nell’uomo secondo la volontà del Padre». L’opera di Dio appare qui talmente grande, che davvero la fede non può che essere l’obbedienza della fede, cioè un progressivo adattamento alla mentalità di Dio e una sempre più profonda assimilazione al Suo modo di essere e di amare. La logica della fede è allora una sola cosa con la logica sacramentale, perché ciò che si dice e che si fa nella liturgia non si orienta a chiudere Dio nelle nostre misure, ma a dischiudere l’uomo alla dismisura di Dio. Nelle faccende del cuore, di Dio come dell’uomo, ci sono cose che non si possono sapere prima di viverli, cose di cui non si può avere intelligenza senza una qualche iniziale esperienza, né averne una vera comprensione senza alcuna iniziazione. Ora, nella fede, l’obbedienza suscita l’intelligenza!
In altre parole, essendo una partecipazione ai sentimenti del Figlio, la fede ha una vitalità e un’energia, una logica e una pedagogia, un modo di comunicarsi e di propagarsi del tutto originali, la cui sorgente risiede nei sacramenti. Il Catechismo, con bellissima espressione, dice che «nella Liturgia lo Spirito Santo è il pedagogo della fede»: è Lui che «risveglia la fede, la conversione del cuore e l’adesione alla volontà del Padre», è Lui che dona «l’intelligenza spirituale della Parola di Dio» e «ricorda ciò che Cristo ha fatto per noi» (CCC 1099.1098.1101.1103). Per questo, se i sacramenti sono “sacramenti di Cristo” e “sacramenti della Chiesa”, nondimeno sono anche chiamati «sacramenti della fede»: non solo infatti «presuppongono la fede, ma con le parole e gli elementi rituali la nutrono, la irrobustiscono e la esprimono» (CCC 1123). Da questo stretto legame fra fede e sacramenti deriva la formula tradizionale latina «lex orandi, lex credendi», che significa: «la legge della preghiera è la legge della fede, la Chiesa crede come prega» (CCC 1124).
Alla luce di queste considerazioni, dovrebbe crescere la convinzione che la fede matura di eucaristia in eucaristia e di confessione in confessione, cioè man mano che il cuore si purifica dal peccato e cresce nella vita di grazia, si scioglie dalle catene dell’orgoglio e si fa docile all’azione dello Spirito. E dovrebbe approfondirsi la convinzione, di fronte alle prove della vita, che la grazia del sacramento del matrimonio per gli sposi, come la grazia dell’ordine per i sacerdoti, rende possibile vivere i doveri del proprio stato anche quando tutto sembra superiore alle nostre capacità di comprensione e sopportazione, alle risorse della nostra volontà e del nostro coraggio: quando si tratta della volontà di Dio, la fede scavalca ogni ostacolo, perché fa spazio, nel cuore della nostra debolezza, alla potenza dell’amore di Dio. La fede, alimentata dai sacramenti, permette al credente di vivere il paradosso di san Paolo: «quando sono debole, allora sono forte» (2Cor 12,10).
Due suggerimenti per educare la fede.
1. La prima cosa è prendere le distanze da percorsi razionalistici che abbiamo percorso e che non hanno portato frutto. L’idea è quella di superare l’esteriorità di fede e sacramenti. Evangelizzazione e pratica sacramentale non possono essere giustapposti, immaginati secondo il prima e il poi. La Chiesa evangelizza celebrando. Nella Chiesa la pedagogia è anzitutto mistagogia. Significa che la fede non va prima spiegata per poi essere vissuta. La fede è esperienza di fede: va vissuta, testimoniata e partecipata. Il momento riflessivo si innesta nel momento pratico, non il contrario. In particolare, occorre aver ben presente che l’Eucaristia è il massimo ma anche il minimo della fede: vale per essa in maniera eminente ciò che il Concilio ha detto della liturgia, e cioè che è fons et culmen totius vitae christianae (SC 10). In essa ci si unisce al Signore Gesù, in essa l’amore per il Signore Gesù raggiunge il livello nuziale.
2. In questa stessa linea, un’altra strategia a nostro avviso decisiva è quella di mostrare la ragionevolezza e la preziosità dell’obbedienza di fede, mettendoli in guardia dal rischio mortale che si corre nel seguire la propria convinzione e il proprio sentimento immediato, spinti dalla visione corrente della libertà come arbitrio e autonomia: confidando in stessi piuttosto che in Dio, ascoltando le parole del mondo piuttosto che la Parola di Dio, saziandosi di ogni altro pane piuttosto che del pane eucaristico non si diventa liberi, si diventa schiavi! Non si può pensare che nei misteri della vita e dell’amore, e a maggior ragione della vita e dell’amore di Dio, prima si capisce e poi si vive. È piuttosto vero il contrario: si entra nella vita fidandosi di testimoni competenti e autorevoli, e entrandovi la si capisce sempre più profondamente, e non per sentito dire, ma per esperienza personale. Nella fede, il frutto dell’obbedienza è la libertà!
LA FEDE E LA CONVERSIONE
Affrontiamo ora uno dei punti più decisivi per comprendere e vivere la fede. L’atto di fede, che è dono di Dio e abbandono in Lui, è in ogni caso un atto pienamente umano, e particolarmente impegnativo, perché comporta un radicale cambiamento di mentalità: l’abisso che separa i pensieri e le vie di Dio dai pensieri e dalle vie dell’uomo (cf. Is 55,9) è colmato solo dalla “metanoia”, un capovolgimento di convinzioni e un cambiamento di abitudini che comporta la morte dell’uomo vecchio e la nascita dell’uomo nuovo, l’interruzione di ciò che si dava per scontato e la disponibilità ad accogliere le sorprese di Dio: «se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate: ecco, ne sono nate di nuove» (2Cor 5,17).
Tutta la Scrittura è attraversata dal duplice invito alla fede e alla conversione: l’annuncio della fede è inseparabile dall’appello alla conversione. La manifestazione pubblica di Gesù, che sta al centro della storia della salvezza e ne inaugura il compimento, inizia con queste parole: «il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo» (Mc 1,15). La fede è sempre continuità e rottura, stabilità e novità: continuità, perché è sempre in gioco la riuscita dell’uomo, il compimento della sua esistenza; ma anche rottura, perché l’edificio della grazia non sorge e non si sviluppa sul terreno del peccato; stabilità, perché si fonda sulla fedeltà di Dio e sulla roccia della sua Parola; e infine novità, a motivo della gratuità e della sovrabbondanza dei doni di Dio, che sorpassano ogni merito e ogni desiderio. La fede chiede dunque conversione, perché credere è lasciarsi spiazzare e mobilitare dall’iniziativa di Dio, che imprevedibilmente contesta, supera e adempie i desideri e le vedute dell’uomo.
Anche la predicazione dei Profeti e degli Apostoli, che prepara la venuta del Messia e proclama che Gesù è il Signore, è un continuo e vibrante appello alla conversione del cuore e della vita, unico sacrificio a Dio gradito, senza il quale ogni altra offerta è ipocrisia. Alta è la voce di Isaia: «smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio per me… non posso sopportare delitto e solennità… lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene» (Is 1,13-16). Similmente san Paolo: «vi esorto dunque, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,1-2).
L’ascolto della Scrittura chiarisce anche che la conversione stessa, come la fede, prima di essere un impegno dell’uomo, è un dono di Dio: il rinnegamento di sé che è richiesto al cristiano è anzitutto il frutto della derelizione di Cristo. È Lui che entrando nel mondo ha detto: «non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà» (Eb 10,5-7). Per meno del Suo sacrificio – si legge nella Lettera agli Ebrei – non avremmo neanche preso coscienza dei nostri peccati! Similmente, con accenti di commossa gratitudine, si esprime san Pietro: «egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti (1Pt 2,24-25).
Il messaggio biblico della conversione, senza il quale non si accede all’orizzonte della fede, è tanto più urgente oggi, in quanto abbiamo smesso di riferire la realtà al mistero di Dio e incliniamo piuttosto a ridurre ciò che ci supera ed è oggetto di fede al controllo della ragione e allo sviluppo delle nostre possibilità. Viviamo in una cultura in cui l’uomo, dopo essersi elevato contro Dio, si ritrova ripiegato su se stesso, e divinizza le misure del proprio desiderio, che in realtà è acceso proprio dal misterioso appello di Dio e non trova pace se non in Lui. Si tratta di un uomo ingenuo e presuntuoso, continuamente esposto alla tirannia dell’opinione e del sentimento immediato, erroneamente convinto che gli affetti debbano essere assecondati nella loro spontaneità, e non sottomessi alla ragione, regolati dalla volontà, risanati e riorientati dalla grazia.
Da qui l’emergenza educativa dei nostri giorni: ai nostri giovani si dice che al cuore non si comanda, che il sentimento amoroso giustifica qualunque scelta, che non ci sono verità ma solo preferenze, che non esistono colpe ma solo sbagli, che bisogna star bene per poter fare il bene, che bisogna amare prima se stessi per poter amare il prossimo, che Dio è contento se io sono contento, e così via. Insomma, una religione dell’io e non di Dio! Vera religione non sarebbe accordo con la volontà di Dio, ma accordo di Dio con la nostra volontà: come se il benessere psicofisico, la libertà interiore, la sintonia con gli altri, la soddisfazione delle opere fossero punti di partenza e non d’arrivo, come se fossero semplici diritti a costo zero. Ecco il punto: passa l’idea di una religione senza redenzione, di una fede senza conversione, di un cristianesimo senza croce, di una vita di grazia senza memoria del peccato originale, di un accordo mistico senza alcuna fatica ascetica.
Certo che a confronto della cultura d’epoca, la cultura cristiana è davvero meravigliosa: più appagante e più realistica! Nella resa della conversione, l’uomo comprende che senza fede farà solo ciò che gli è possibile, ma solo nella fede farà anche l’impossibile: a Maria è annunciato che nulla è impossibile a Dio, al paralitico è data salute e salvezza, la supplica del Centurione viene esaudita, i cinquemila vengono sfamati, Pietro cammina sulle acque, Zaccheo restituisce quattro volte tanto, a Lazzaro è ridata la vita, al ladrone è promesso il Paradiso. E il segreto è sempre lo stesso: convertirsi e credere, sbilanciarsi dall’io a Dio, perdere l’appoggio su se stessi e riporre la propria fiducia in Gesù, lasciarsi accecare per vedere la luce, farsi poveri in spirito per entrare nella gioia del Regno. Forti le parole di De Caussade nel suo famoso trattatello sull’abbandono alla Divina Provvidenza: «è questo il segreto della sapienza divina: impoverire i sensi arricchendo il cuore; il vuoto degli uni fa la pienezza dell’altro... Le tenebre qui tengono il posto della luce, la conoscenza è un'ignoranza e si vede non vedendo… Non vedete che misurate coi sensi e la ragione quel che non si può misurare che con la fede? Occorre fede verso tutto quello che è divino. Se noi vivessimo senza interruzione della vita della fede, saremmo in un continuo scambio con Dio, parleremmo con lui faccia a faccia»[4].
Eppure anche tra i credenti, come gli ultimi Pontefici hanno ripetutamente denunciato, circola l’opinione che non si debba convertire gli altri, che non sia necessario né opportuno: nonostante il mandato esplicito di Gesù stesso, «spesso si ritiene che ogni tentativo di convincere altri in questioni religiose sia un limite posto alla libertà. Sarebbe lecito solamente esporre le proprie idee e invitare le persone ad agire secondo coscienza, senza favorire una loro conversione a Cristo e alla fede cattolica»[5]. È invece pacifico che «l’evangelizzazione di Gesù conduce del tutto naturalmente l’uomo a un’esperienza di conversione», e che «il primo annuncio ha come suo scopo specifico la conversione, che poi rimane una costante nella vita cristiana» (Evangelii nuntiandi 24.139). Anche il Catechismo dice con chiarezza che «la prima opera della grazia è la conversione» (CCC 1989), tanto è vero che Gesù, dichiarando di non esser venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori, lega strettamente l’annuncio del Regno all’opera di conversione (Mc 2,17), parla inoltre della gioia del Padre per ogni peccatore che si converte (Mt 26,28), fa della Confessione il suo primo dono di Risorto (Gv 20,23), affida infine agli Apostoli la missione di chiamare a conversione (Lc 24, 47).
Ecco allora che la maturazione della fede chiede di confrontarsi seriamente con quelle esigenze della fede che chiedono un cambio di mentalità. Ecco le principali.
Convertirsi è:
- riconoscere che Gesù è l’unico Signore, che è Lui la Via, la Verità e la Vita, che solo in Lui ci è rivelato il volto di Dio come Padre buono e misericordioso e la sua volontà di renderci suoi figli, che «in nessun altro c’è salvezza, né è dato agli uomini altro nome nel quale è stabilito che possiamo essere salvati» (At 4,12);
- rinunciare alla propria volontà per consegnarsi alla volontà di Dio, perché «nella tua legge è la mia gioia» (Sal 118,77);
- disperare di sé e diffidare delle proprie risorse, e nondimeno impegnarsi a fondo e affidarsi senza riserve, consapevoli che «è meglio rifugiarsi nel Signore che confidare nell’uomo» (Sal 118,8);
- convincersi che salvare la propria vita è perderla e perderla è ritrovarla, che i beni si custodiscono donandoli mentre trattenerli è perderli, che in fin dei conti «la tua grazia vale più della vita» (Sal 62,3);
- farsi consapevoli che è inutile proteggere il corpo e perdere l’anima, che è stolto affannarsi per la propria vita e dimenticare la vita eterna, che vale la pena vivere coi piedi per terra e lo sguardo al cielo, perché «la nostra patria è nei cieli» (Fil 3,20);
- affrontare le prove sapendo che il sacro è imparentato col sacrificio, che dietro il buio della Croce c’è la luce della Risurrezione, che è meglio patire il male che commetterlo, ed è meglio soffrire ancora piuttosto che smettere di amare, che il male va vinto con il bene e l’odio con il perdono, perché «non c’è amore più grande di chi dà la vita» (Gv 15,13).
NOTE
[1] Catechesi 5 sulla fede e il simbolo, 10-11.
[2] Cf. lo splendido saggio di H.U. von Balthasar, Fides Christi, in Sponsa Verbi. Saggi teologici II, Morcelliana, Brescia 1985, 41-72.
[3] Cf. A. Bozzolo, Mistero, simbolo e rito in Odo Casel. L’effettività sacramentale della fede, LEV, Città del Vaticano 2003.
[4] J.P. De Caussade, L’abbandono alla Divina Provvidenza, San Paolo, Cinisello 2008.
[5] Nota dottrinale su alcuni aspetti dell'evangelizzazione, 3.