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    Un cantico per le creature /1. Lo stupore di una Enciclica



    Raffaele Mantegazza

    (NPG 2015-07-03)


    Altissimu, onnipotente bon Signore,
    Tue so' le laude, la gloria e l'honore et onne benedictione.

    Ad Te solo, Altissimo, se konfano,
    et nullu homo ène dignu te mentovare.

    Laudato sie, mi' Signore cum tucte le Tue creature,
    spetialmente messor lo frate Sole,
    lo qual è iorno, et allumini noi per lui.
    Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
    de Te, Altissimo, porta significatione.

    Laudato si', mi' Siignore, per sora Luna e le stelle:
    in celu l'ài formate clarite et pretiose et belle.

    Laudato si', mi' Signore, per frate Vento
    et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
    per lo quale, a le Tue creature dài sustentamento.

    Laudato si', mi' Signore, per sor'Acqua.
    la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.

    Laudato si', mi' Signore, per frate Focu,
    per lo quale ennallumini la nocte:
    ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.

    Laudato si', mi' Signore, per sora nostra matre Terra,
    la quale ne sustenta et governa,
    et produce diversi fructi con coloriti fior et herba.

    Laudato si', mi' Signore, per quelli che perdonano per lo Tuo amore
    et sostengono infermitate et tribulatione.

    Beati quelli ke 'l sosterranno in pace,
    ka da Te, Altissimo, sirano incoronati.

    Laudato si' mi' Signore, per sora nostra Morte corporale,
    da la quale nullu homo vivente pò skappare:
    guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali;
    beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati,
    ka la morte secunda no 'l farrà male.

    Laudate et benedicete mi' Signore et rengratiate
    e serviateli cum grande humilitate.

    Francesco d’Assisi


    1. LO STUPORE DI UNA ENCICLICA

    Molte persone in tutto il mondo sono state attraversate da un profondo brivido quando, la sera del 13 marzo 2013, il cardinale Jean Louis Tauran proclamava ai fedeli che il nuovo Papa “sibi nomen imposuit Franciscum”. Il nome, rimandando a Francesco d’Assisi, provocava speranze di rinnovamento della Chiesa e al contempo un ritorno alle radici profonde, teologiche e sociali, del cristianesimo. Ci fu in realtà chi suggerì che il nome fosse legato a Francesco Saverio; ma un altro brivido doveva smentire questa lettura, quello cioè che è corso lungo le schiene al momento di conoscere il titolo della prima Enciclica di Papa Francesco: Laudato si', ovvero un omaggio e una ripresa del pensiero e dell’azione dell’assisiate.
    L’Enciclica, documento straordinario, è già stata letta e commentata da tutti i punti di vista: in questa introduzione ne proponiamo una lettura pedagogica. L’ecologia, intesa in senso globale, sociale e politico, è infatti prima di tutto una sfida educativa; e tutto questo è presente in ogni pagina del documento pontificio, al di là delle sezioni esplicitamente dedicate al tema educativo. Ci sembra infatti che il testo sia leggibile come una proposta e una spinta a educare diversamente, sotto differenti punti di vista, che riassumiamo come differenti “educazioni” che però trovano nell’ispirazione alla speranza e al cambiamento che percorre l’Enciclica il loro punto di aggancio e di coordinamento.

    Educazione alla dimensione epocale del tempo presente,
    ovvero la risposta a chi dice “queste cose sono sempre accadute”

    Francesco inizia il suo discorso sottolineando “ciò che ha di inedito per la storia dell’umanità” (17) [1] il tempo presente e la sua crisi. Non siamo di fronte a una delle crisi cicliche dell’economia, ma alla crisi epocale di un pianeta che per la prima volta nella sua storia ha accumulato un potenziale distruttivo tale da poter estinguere la vita sulla sua superficie. E questo non solamente a livello bellico, ovvero per colpa di una guerra totale: “lo stile di vita attuale, essendo insostenibile, può sfociare solamente in catastrofi” (124). Il non vedere il carattere specifico dell’epoca attuale è un elemento di cecità di cui sono responsabile alcune delle pratiche educative attuali; quando si cerca di parlare del buco nell’ozono, degli armamenti nucleari o dell’insostenibilità del nostro stile di vita c’è sempre qualcuno che tira fuori il medioevo e il fatto che anche allora qualcuno credeva di essere arrivato alla fine del mondo. Educare all’epocalità della nostra situazione attuale è una delle priorità di qualunque processo educativo: la Terra oggi è a un bivio, forse assimilabile a quello vissuto dai dinosauri ere storiche fa. E stavolta la specie che rischia l’estinzione propria e delle altre ha colpe specifiche: “mai abbiamo maltrattato e offeso la nostra casa comune come negli ultimi due secoli.” (53). E la questione è legata a qualcosa di estremamente specifico: non un meteorite ci minaccia ma l’abuso di una modalità umana di relazione con il mondo e con la vita, il potere: “mai l’umanità ha avuto tanto potere su se stessa” (104); e probabilmente, mai ha avuto tanta incoscienza da usarlo così male.

    Educazione alla critica del paradigma scientista,
    ovvero la risposta a chi dice “la scienza ci darà tutte le risposte”

    Ovviamente non ci possono essere dubbi che la scienza e la tecnologia ci forniscono importantissime informazioni sulla realtà e opportunità preziose di intervenire su di essa; ma di fronte alla loro pretesa totalizzante (che spesso è addirittura totalitaria) ci sembra opportuno educare i giovani alla limitatezza delle verità scientifiche: “non si può sostenere che le scienze empiriche spieghino completamente la vita, l’intima essenza di tutte le creature e l’insieme della realtà. Questo vorrebbe dire superare indebitamente i loro limitati confini metodologici” (199). È interessante che l’Enciclica utilizzi il termine “irrazionale” per definire un atteggiamento quasi magico nei confronti delle acquisizioni scientifiche, atteggiamento che purtroppo ci è noto da tante lezioni scolastiche; Francesco parla infatti di una “fiducia irrazionale nel progresso” (18), un atteggiamento che peraltro fa dimenticare una verità essenziale, ovvero che “i prodotti della tecnica non sono neutri” (107): lo spettro della presunta neutralità della scienza e della tecnica ci sembra debba essere combattuto in ambito educativo perché copre gli interessi economici e politici che stanno dietro le ricerche e le scoperte scientifiche.
    Se occorre certo educare alle verità parziali e sempre provvisorie cui la scienza può portarci, verità che devono sempre essere revocabili in dubbio, occorre anche un’educazione alle verità attingibili dai linguaggi altri da quello scientifico: “l’ecologia integrale richiede apertura verso categorie che trascendono il linguaggio delle scienze esatte o della biologia e ci collegano con l’essenza dell’umano” (11); la poesia, la religione, l’arte possiedono ciascuna una propria verità [2] che. se non può ovviamente pretendere a sua volta di essere la parola definitiva sul reale, non può nemmeno essere messa a tacere dall’arroganza dello scientismo.
    In una declinazione di pensiero che ci sembra analoga a quella del pensiero critico degli anni Settanta [3] , l’Enciclica insiste sull’affinità elettiva tra l’assolutizzazione del metodo scientifico e il dominio: essa critica dunque l’assolutizzazione del “metodo scientifico con la sua sperimentazione, che è già esplicitamente una tecnica di possesso, dominio e trasformazione” (106). È stato assolutizzando e generalizzando il metodo scientifico (da Bacone in poi) ed eliminando altre modalità di rapporto con il reale e altre vie per l’acquisizione delle verità, che la scienza ha impoverito, anziché arricchirlo, il rapporto dell’uomo con la natura: “l’essere umano e le cose hanno cessato di darsi amichevolmente la mano, diventando invece dei contendenti” (106).
    La scienza e la tecnica soggiacciono alla tentazione della totalità, volendo spiegare tutto in modo definitivo, e il loro metodo, se assolutizzato, è pericolosamente totalitario: “non si può pensare di sostenere un altro paradigma culturale e servirsi della tecnica come di un mero strumento, perché oggi il paradigma tecnocratico è diventato così dominante, che è molto difficile prescindere dalle sue risorse, e ancora più difficile è utilizzare le sue risorse senza essere dominati dalla sua logica. (…) Di fatto la tecnica ha una tendenza a far sì che nulla rimanga fuori dalla sua ferrea logica, e «l’uomo che ne è il protagonista sa che, in ultima analisi, non si tratta né di utilità, né di benessere, ma di dominio; dominio nel senso estremo della parola» (Romano Guardini)” (108). Paradossalmente proprio questa pretesa di totalità da parte di un frammento di realtà qual è il metodo scientifico fa “perdere il senso [autentico] della totalità” (110), esattamente come accadeva per l’idolo, che spacciandosi per il Tutto ostruiva lo sguardo dell’uomo e gli impediva di orientarsi verso la vera totalità. Per questo la scienza, che tanto parla di conoscere tutto, in realtà poi produce, attraverso i suoi metodi educativi, la più frammentaria delle iper-specializzazioni (questo è evidente per esempio in ambito medico). Ma la cosa più grave è che la scienza idolatra se stessa e il suo metodo, e così facendo esclude quelle “domande sui fini e sul senso” (113) che sono invece sostituite da mere domande funzionali. Dunque si chiede e si insegna a chiedere “come si fa?” e non più “perché farlo?”, o nell’efficace linguaggio dell’Enciclica: “abbiamo troppi mezzi per scarsi e rachitici fini” (156).
    Spesso dunque la scienza esibisce un’arroganza che oggi è visibile soprattutto nella questione dei new media; l’Enciclica invita a un uso critico dei media “che, quando diventano onnipresenti, non favoriscono lo sviluppo di una capacità di vivere con sapienza, di pensare in profondità, di amare con generosità” (47). Soprattutto nella scuola l’enfasi sconsiderata sul web e sulle nuove tecnologie rischia di far perdere ai ragazzi e soprattutto ai bambini competenze insostituibili e irrecuperabili. In questo senso i media “ci impediscono di prendere contatto diretto con l’angoscia, con il tremore, con la gioia dell’altro “ (47). Una nuova tecnologia sarà friendly finché si vuole, ma il carattere distintivo del suo essere “nuova” sta nel fatto che per la prima volta la tecnologia non è un supporto al potere, ma è letteralmente una nuova forma di potere che non mette più in discussione i fondamenti del mondo nel quale essa si autoriproduce [4] , che crea problemi inediti piuttosto che risolvere i problemi ai quali si applica [5] (è esperienza di tutti che il flusso perverso di e-mail inutili ha reso folle l’utilizzo di uno strumento semplice come la posta), che è per essenza legata al controllo, che mette in campo l’ipermediazione della esperienza [6] (per cui ad essere realmente grave a livello educativo non è il problema della mediazione, che c’è sempre stato fin da quando i primi ominidi hanno utilizzato i primi utensili, ma della mediazione della mediazione che porta alla perdita vertiginosa del reale, alla immagine dello schermo che trasmette lo schermo, alla virtualità di tutti i discorsi, alla loro anonimia ed equivalenza orizzontale).
    Occorre dunque riscoprire i vecchi oscurantismi dei quali la Chiesa in passato è stata anche portatrice? Condannare i nuovi Bruno e costringere all’abiura i nuovi Galilei? Ovviamente no. In un passaggio che ricorda l’ultimo Pasolini, l’Enciclica chiarisce che “semplicemente si tratta di ridefinire il progresso. Uno sviluppo tecnologico ed economico che non lascia un mondo migliore e una qualità di vita integralmente superiore, non può considerarsi progresso” (194). Il che significa combattere una scienza che si autolegittima senza porsi le domande “Sono utile?” “Per chi sono utile?” “A quali costi?”, e imparare a intendere per progresso il tentativo di ottenere una vita dignitosa per tutti, l’eliminazione della paura, una morte giusta.
    Questa consapevolezza, questa dimensione sociale del progresso e della ricerca, dovrebbero entrare nei processi di formazione dei giovani ricercatori e dei futuri scienziati, processi che invece spesso sono caratterizzati da un agghiacciante tecnicismo ed espellono tutto ciò che profuma di umanistico o semplicemente di domanda di senso.

    Educazione alla critica della ragione strumentale e dell’antropocentrismo,
    ovvero la risposta a chi dice “il risultato è tutto”

    Che anche l’educazione oggi sia caratterizzata dalla “logica efficientista e immediatista” (181) per la quale contano solamente i risultati immediati e spendibili, è chiaro a chiunque svolga una professione pedagogica. La ragione strumentale, la cui pretesa totalizzante era già stata denunciata dai pensatori francofortesi alla metà del secolo scorso [7] , si è ulteriormente estesa e potenziata grazie allo sviluppo della scienza e della tecnologia. Ma questa ragione è strettamente legata a progetti totalizzanti di dominio: “molte volte è stato trasmesso un sogno prometeico di dominio sul mondo che ha provocato l’impressione che la cura della natura sia cosa da deboli” (116). Tacciare di debolezza ogni posizione che contesti il primato del dominio è purtroppo un antico vizio di quest’ultimo; ma la vera debolezza è in realtà la cecità di chi non sa operare la “rinuncia a fare della realtà un mero oggetto di uso e di dominio” (11). È interessante notare come in questo passaggio l’Enciclica critichi anche il cosiddetto “valore d’uso” presente negli oggetti; se classicamente si contestava il dominio del “valore di scambio”, ovvero la riduzione di un oggetto a merce, ora si giunge a contestare anche la sua riduzione a strumento; nell’oggetto, soprattutto quando si parla di oggetti naturali e dunque viventi, c’è più del loro valore economico, ma anche più della loro utilizzabilità. Non è solo il valore di scambio che costituisce la merce, a cristallizzare l’oggetto, ma anche l’esclusiva preminenza del valore d’uso lo mortifica, riducendolo alla sua pura funzionalità; quella stessa che è contestata dal gioco, dall’arte, dal teatro: a nessuno verrebbe in mente di sedersi sullo sgabello di Duchamp o di usare la sua ruota di bicicletta per ovviare a una foratura. Picasso racconta di aver usato il manubrio di una bicicletta trovato in una discarica per costruire una testa di toro; scontento, riportò la scultura nella discarica dove un operaio la prese per costruirvi un manubrio di bicicletta. Così dialettico è il turbinio delle trasformazioni nel gioco e nell’arte!
    Questa posizione contiene anche una critica esplicita a certe idee ecologiste ipocrite per le quali occorre salvaguardare la natura per il suo valore per l’uomo (peraltro sinistramente analoghe alle posizioni che affermano che occorre accettare l’immigrazione perché ci apporta forza lavoro per mestieri che gli italiani non vogliono più svolgere, mentre l’atteggiamento verso il migrante deve essere fondato sull’assoluto rispetto dell’altro senza alcun fine ulteriore): “non basta pensare alle diverse specie solo come eventuali “risorse” sfruttabili, dimenticando che hanno un valore in se stesse. Ogni anno scompaiono migliaia di specie vegetali e animali che non potremo più conoscere, che i nostri figli non potranno vedere, perse per sempre” (33). La biodiversità è dunque un valore per se stessa, e non per le ricadute sulla vita umana, che ovviamente sarebbe molto più felice in un mondo in cui le specie possano essere rispettate, ma che non può pensare di porre ancora una volta la sua felicità come motivazione di un atteggiamento ecologico. L’estinzione delle specie (ma anche la morte inutile di una singola creatura) causate dall’incuria umana è un danno per il creato perché sottrae voci al coro delle creature: “per causa nostra, migliaia di specie non daranno gloria a Dio con la loro esistenza né potranno comunicarci il proprio messaggio (33). Volta al positivo, questa posizione ci spinge ad educare a un rapporto contemplativo e gratuito con la natura, ovvero a considerare gli altri esseri viventi non per quello che possono darci ma per quello che sono: “questa stessa gratuità ci porta ad amare e accettare il vento, il sole o le nubi, benché non si sottomettano al nostro controllo. Per questo possiamo parlare di una fraternità universale.“ (228) [8]
    Tutto questo porta anche a riconsiderare la posizione dell’essere umano nel cosmo e nel creato, che anche nella tradizione giudaico-cristiana è tutt’altro da quel “dominio” che certa catechesi ha voluto sottolineare; al contrario, “la Bibbia non dà adito a un antropocentrismo dispotico che non si interessi delle creature” (68) e che “le considera come se non avessero un valore in se stesse” (69) [9] . Ma anche l’uomo, in fin dei conti, non è un valore assoluto, perché per un cristiano tale assolutezza è propria solamente di Dio: “lo scopo finale delle altre creature non siamo noi. Invece tutte avanzano, insieme a noi e attraverso di noi, verso la meta comune, che è Dio” (83). L’uomo deve anzi imparare a considerarsi come un elemento periferico rispetto alla creazione e al cosmo, come mostrato dal famoso calendario cosmico elaborato dall’astrofisico statunitense Carl Sagan comprimendo la storia dell’universo in un solo anno: procedendo nell’analisi di questo anno di vita dell’Universo che sintetizza circa 14 miliardi di anni, scopriamo che l’11 aprile ha origine la via Lattea, il 25 agosto nasce il Sistema Solare, il 25 settembre nasce la vita così come noi la conosciamo mentre il 13 dicembre nel mare compaiono i primi organismi animali pluricellulari: occorre aspettare l’ultimo giorno dell’anno per avere traccia dell’uomo: il 31 dicembre verso le ore 20.15 inizia la linea evolutiva che dai primati porterà all’uomo, mentre solo verso le ore 23.58 compare l’Homo sapiens sapiens e un secondo prima della mezzanotte del 31 dicembre fa la sua comparsa la civiltà occidentale.
    Così Francesco propone un atteggiamento verso la natura che è anti-idolatrico, perché non fa delle creature delle divinità, e in questo modo le libera da qualunque proiezione umana e le rende ancora più libere di essere se stesse; questo è detto in uno dei passaggi a nostro parere più penetranti di tutta l’Enciclica: “non dimentichiamo che [tra Dio e le creature] esiste anche una distanza infinita, che le cose di questo mondo non possiedono la pienezza di Dio. Diversamente nemmeno faremmo un bene alle creature, perché non riconosceremmo il loro posto proprio e autentico, e finiremmo per esigere indebitamente da esse ciò che nella loro piccolezza non ci possono dare” (88).

    Educazione a un’ecologia politica,
    ovvero la risposta a chi dice “pensate a salvare gli animali e non guardate gli uomini”

    Uno dei rischi dell’ecologismo radicale malinteso è quello di elidere la figura umana, ovvero di considerare sempre l’uomo come ostacolo e nemico nei confronti della natura, dimenticando in questo modo che l’uomo e la donna sono natura e non altro. Francesco ci invita invece a non separare l’ecologia dall’antropologia, un suggerimento preziosissimo soprattutto in chiave educativa (per inciso ciò significa che non ha senso studiare separatamente la storia dalla geografia, al di là dell’ovvia autonomia epistemologica di ciascuna delle due discipline); “non ci sarà una nuova relazione con la natura senza un essere umano nuovo. Non c’è ecologia senza un’adeguata antropologia” (118). Non si tratta dunque di chiedere all’essere umano di elidere la sua presenza nel mondo, ma di rendersi responsabile di azioni che siano in sintonia con il resto della natura, ovvero di lasciare una “impronta ecologica” [10] che sia la più leggera possibile. Anzi, la presenza umana e l’azione dell’uomo sono qualcosa di essenziale per l’armonia del creato: “l’intervento umano che favorisce il prudente sviluppo del creato è il modo più adeguato di prendersene cura” (124).
    Non c’è dunque opposizione tra uomo e natura, così come non c’è opposizione tra le preoccupazioni per la natura e la cura per l’umano: occuparsi dell’una significa prendersi cura dell’altro e viceversa: “un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale” (49) per cui occorre “ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri” (49). Il pensiero olistico dell’Enciclica non vede una alternativa tra intervento ecologico e intervento sociale, perché individua le questioni ecologiche e quelle sociali come diverse facce dello stesso paradigma: “Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale. Le direttrici per la soluzione richiedono un approccio integrale per combattere la povertà, per restituire la dignità agli esclusi e nello stesso tempo per prendersi cura della natura” (139).
    La stessa connessione tra umano e naturale è presente in ambito educativo; non per nulla da sempre la desensibilizzazione nei confronti dell’animale è il punto di aggancio alla desolidarizzazione nei confronti degli esseri umano: “è vero anche che l’indifferenza o la crudeltà verso le altre creature di questo mondo finiscono sempre per trasferirsi in qualche modo al trattamento che riserviamo agli altri esseri umani. Il cuore è uno solo e la stessa miseria che porta a maltrattare un animale non tarda a manifestarsi nella relazione con le altre persone. Ogni maltrattamento verso qualsiasi creatura «è contrario alla dignità umana» (CCC 2418)” (92).
    Ma connettere ecologia e pensiero sociale significa in ultima analisi (ri)connettere entrambe queste dimensioni alla politica; ed è il primato della politica (sempre relativo: non dimentichiamo che ci muoviamo in un orizzonte di pensiero religioso) ad essere sottolineata dall’Enciclica. I mali dell’uomo e quelli della terra sono causati da scelte politiche, che si organizzano in un sistema globale che merita il titolo di “peccato strutturale” inventato dai teologi sudamericani della Liberazione: “La terra dei poveri del Sud è ricca e poco inquinata, ma l’accesso alla proprietà dei beni e delle risorse per soddisfare le proprie necessità vitali è loro vietato da un sistema di rapporti commerciali e di proprietà strutturalmente perverso” (52). Il capitalismo avanzato è dunque strutturalmente perverso (e qui ci sembra che Francesco si allontani anche dal pensiero peronista che pure aveva frequentato nei suoi anni passati), ma tutto ciò non costituisce un alibi per rendere meno gravi i comportamenti individuali. Se viviamo in un orizzonte strutturalmente perverso, ciò non significa affatto che siamo del tutto privi della libertà di operare scelte in controtendenza, né che si possa semplicisticamente affermare che tutti sono colpevoli allo stesso modo: al contrario, “nel cambiamento climatico ci sono responsabilità diversificate” (52).
    Ma di quale politica stiamo parlando? L’Enciclica, abbiamo detto, recupera l’idea dell’autonomia della politica, un’idea che stata aggredita dalle “nuove forme di potere derivate dal paradigma tecno-economico” (53) che hanno portato alla “sottomissione della politica alla tecnologia e alla finanza” (54). In particolare però il Papa (54) sottolinea il carattere idolatrico che l’economia di mercato ha acquisito nelle riflessioni degli esperti, ma soprattutto nella esperienza quotidiana e vitale delle persone [11] , arrivando ad attaccare una “concezione magica del mercato” (190) che richiama alla cieca fiducia del neoliberismo in quella cosiddetta “mano invisibile” che dovrebbe, in un mercato anarchico e del tutto privo di qualsiasi regola, spianare le strade alle magnifiche sorti e progressive dell’Umanità.
    Se il mercato e la sua anarchia e assoluta autonomia come teorizzato dai neoliberisti è il vero idolo del XXI secolo, anche la stessa idea di proprietà, a sua volta assolutizzata, diventa idolatrica: l’Enciclica lo ricorda in una affermazione icastica: “Dio nega ogni pretesa di proprietà assoluta” (67) che non può non ricordare il paragrafo 23 della Populorum Progressio: “la proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto. Nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario”. Ed è alla dottrina sociale della Chiesa così come espressa dal Vaticano II che Francesco si ricollega quando afferma che “il principio della subordinazione della proprietà privata alla destinazione universale dei beni e, perciò, il diritto universale al loro uso, è una “regola d’oro” del comportamento sociale, e il «primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale» (Giovanni Paolo II, Laborem exercens). La tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata” (93). Ovviamente si sta parlando soprattutto della proprietà dei beni essenziali (acqua, terra, risorse naturali), il che rende ancora più esplosivo il pensiero del Pontefice, se solo si pensa alle lotte per l’acqua e al comportamento rapace delle corporations e delle multinazionali quando si tratta di proprietà delle risorse. Un’educazione ecologica in linea con l’Enciclica dunque non può che schierarsi contro ogni assolutizzazione indebita del concetto di proprietà privata; e ci chiediamo quale sia il contesto migliore nel quale far vivere queste acquisizioni se non la scuola, nella quale le pratiche di condivisione dei beni dovrebbero essere la quotidianità (mentre spesso si giunge a far scrivere a ciascun bambino il nome su ciascun pennarello in modo che nessun compagno se ne appropri!).
    Una frase che incontriamo quasi per caso nel testo richiama, a coloro che conoscono la storia del pensiero sociale della Chiesa, tutta l’esperienza della Teologia della Liberazione: si parla infatti di “opzione preferenziale per i più poveri” (121) [12] , un concetto che non significa affatto che la Chiesa ama la povertà, ma che essa, evangelicamente, ama il povero in quanto vittima e vuole liberarlo dalla sua povertà. Ma questo non significa accettare l’opulenza che, nel sistema attuale, è l’altra faccia dell’indigenza: il documento pontificio sposa l’idea della decrescita [13] proponendo “una certa decrescita in alcune parti del mondo” (193), e lo fa attaccando certi tentativi ipocriti di salvare il sistema opulento attraverso l’idea di una “crescita sostenibile”: “il discorso della crescita sostenibile diventa spesso un diversivo e un mezzo di giustificazione che assorbe valori del discorso ecologista all’interno della logica della finanza e della tecnocrazia, e la responsabilità sociale e ambientale delle imprese si riduce per lo più a una serie di azioni di marketing e di immagine” (194). Ci sembra che qui il testo tocchi il punto più alto di radicalismo che certe correnti del presunto riformismo nostrano si sognano purtroppo di condividere.
    Ma che cosa significa oggi fare politica? Anzitutto significa comprendere che solo un’azione politica può contribuire alla costruzione di un mondo vivibile, e che la Chiesa stessa apprezza e valorizza la politica come una delle attività più nobili dell’essere umano. Non siamo più ai tempi del Non expedit, né possiamo condividere l’atteggiamento antipolitico, spesso élitario e ipocrita, che confonde tout court la politica con la cattiva politica. Ma anche la politica richiede una attenzione pedagogica, e nello specifico richiede che il politico stia attento ai processi che mette in atto, a ciò che resterà della sua azione dopo di lui, nella consapevolezza che “siamo più fecondi quando ci preoccupiamo di generare processi piuttosto che di dominare spazi di potere” (178). In un orizzonte soprattutto italiano, nel quale la classe politica sembra avere dimenticato i propri limiti temporali, come se dovesse esistere in eterno, questo richiamo è esplicitamente educativo nel momento in cui chiama la politica e i politici a responsabilità pedagogiche, ovvero alla creazione di una nuova classe dirigente, che non sia in alternativa al passato e che non getti via la memoria (o addirittura la “rottami”, applicando - come è stato fatto - in modo agghiacciante questo termine a persone umane), ma la renda patrimonio delle nuove generazioni che abbiano la forza, la passione e soprattutto le opportunità e gli spazi di occuparsi del futuro del pianeta.

    Educazione alla lentezza,
    ovvero la risposta a chi dice “il tempo perduto è sempre tempo inutile”

    Rispondere a una e-mail “in tempo reale” abbatte le barriere del tempo; ma è davvero qualcosa di così positivo? Non porta a scrivere in modo affrettato, a non lasciar sedimentare le emozioni, a non custodire dentro di sé il mondo dell’altro? Scrivere una lettera prende molto più tempo; ma non è forse vero che proprio questo tempo (e questa piccola fatica fisica) porta a pesare maggiormente le parole e a immedesimarsi in modo più efficace nell’altro, nell’interlocutore? Siamo nel mondo della rapidità, della velocità, della catastrofe del tempo nell’attino, del passato e del futuro nel qui-e-ora: ma “la velocità che le azioni umane gli impongono oggi contrasta con la naturale lentezza dell’evoluzione biologica” (18). L’invito a “rallentare la marcia” (114) non deve essere letto in senso assoluto. È del tutto ovvio che la velocità in alcune situazioni è fondamentale, basti pensare ai soccorsi in caso di catastrofe o alla risposta a bisogni immediati. Ma si sta parlando di una lentezza differente, quella che ci rimetterebbe in sintonia con quei ritmi della natura che abbiamo dimenticato, anzi ai quali abbiamo imposto temporalità forzate e accelerate (basti pensare al mercato delle primizie o a certe tecniche di coltivazione intensiva): il tutto, ovviamente, sotto il segno del profitto, che deve essere sempre più immediato, giacché “all’interno dello schema della rendita non c’è posto per pensare ai ritmi della natura, ai suoi tempi di degradazione e di rigenerazione, e alla complessità degli ecosistemi che possono essere gravemente alterati dall’intervento umano” (191).
    È stata proprio l’ultima declinazione del capitalismo, il cosiddetto toyotismo [14] , a parlare di produzione just-in-time, che abbatte le pause e i limiti temporali (e quanto questa ideologia sia pervasiva è leggibile per esempio se si analizza la cosiddetta Direttiva Bolkenstein che sostanzialmente pretende di applicare i criteri di efficienza delle aziende private ai servizi alla persona) [15] : il tempo è visto come nemico da abbattere all’interno del delirio di un capitalismo che punta allo sviluppo infinito, proponendo agghiaccianti analogie con i sistemi totalitari di dominio [16] ; capitalismo e totalitarismo soggiacciono entrambi all’obbligo auto-imposto della totalità, e il primo abbatte il tempo perché proprio la dimensione temporale ci pone di fronte all’inevitabile limite di ogni nostra azione. La cosa peggiore è che tutto questo delirio accelerato viene oggi proposto come contributo al progresso dell’umanità, al che il testo papale risponde: “Ma dobbiamo convincerci che rallentare un determinato ritmo di produzione e di consumo può dare luogo a un’altra modalità di progresso e di sviluppo” (191) proponendo una idea simile al concetto di “sviluppo senza progresso” a suo tempo denunciato da Pier Paolo Pasolini [17] .

    Educazione al mistero,
    ovvero la risposta a chi dice “ormai sappiamo tutto”

    Da tempo proponiamo l’idea di un’educazione al mistero e all’enigma, un approccio che lascia aperte le domande nel rifiuto di ogni cristallizzazione definitoria o diagnostica, e soprattutto che comprende come ogni domanda prevede colui che se la pone come parte della risposta. Il mistero e l’enigma, a differenza del problema, prevedono la compartecipazione di chi se li pone, non gli permettono di rimanere esterno. Il mistero ci coinvolge, è parte di noi; non ha bisogno di risposte esatte e tanto meno di definizioni, ma di domande ben poste, le cui risposte, sempre parziali e provvisorie, danno luogo ad altre domande. Sono le domande che lo scientismo attuale considera “inutili”, sostituendole con le domande a risposta multipla tanto care agli ideatori dei test di ingresso nelle scuole e delle prove Invalsi. Una sola risposta è esatta, le altre sono da scartare: quale arrogante idea di verità e di cultura sta dietro questo modello educativo? Ci sembra perciò interessante sottolineare che l’idea di mistero è ben presente nel testo che stiamo analizzando: “il mondo è un mistero gaudioso” (12). Un mistero, dunque, ma gaudioso, lieto, felice, un mistero la cui contemplazione dà felicità: Francesco si muove qui nell’ambito di quella mistica cristiana così lontana da ogni declinazione punitiva, penitenzialistica, nemica del corpo, e così vicina invece al dettato evangelico. Il mondo è bello, è gioioso, è tov (bello, buono e giusto) come al tempo della Creazione; e dunque anche le modalità di conoscenza che lo riguardano devono essere gioiose.
    La scienza ci fornisce conoscenze essenziali: ma per fortuna ci aiuta anche a capire che esistono esseri viventi “molti dei quali a noi sconosciuti” (40): non tutto dunque è già stato conosciuto, non tutto è già stato detto, e soprattutto non verrà mai pronunciata (almeno dall’uomo) la parola definitiva sul reale. “L’educazione ambientale dovrebbe disporci a fare quel salto verso il Mistero, da cui un’etica ecologica trae il suo senso più profondo” (210); la contemplazione disinteressata (in senso kantiano) della realtà naturale ci mette sulla strada di una forma di conoscenza altra da (non necessariamente alternativa a) quella scientifica. E questa modalità contemplativa che si pone di fronte al mistero lo ritrova nell’infinitamente piccolo, nel dettaglio, nel particolare scartato dall’arroganza della scienza classificatoria [18] : “quindi c’è un mistero da contemplare in una foglia, in un sentiero, nella rugiada, nel volto di un povero” (233).

    Educazione alla bellezza,
    ovvero la risposta a chi dice “basta che funzioni”

    Ma per quale motivo contemplare l’universo? Perché è bello. La bellezza della natura è qualcosa di assolutamente differente da qualunque produzione umana; spesso l’uomo se ne dimentica, per cui “sembra che ci illudiamo di poter sostituire una bellezza irripetibile e non recuperabile con un’altra creata da noi” (34). Questo non significa affatto svalutare il significato del bello artistico, che anzi contribuisce, come ogni opera umana, ad arricchire il bello naturale. Il paesaggio naturale percepito dall’uomo è sempre paesaggio integrato con l’elemento umano (fosse anche solo per il fatto di essere osservato): laddove strade, case e ponti si fanno dettare dal paesaggio le loro linee e i loro materiali, come l’alpinista si fa dettare dalla montagna la strada per approcciare la cima (e non per “conquistarla”), è presente un esempio di approccio al tempo stesso “umano” e “naturale” alla natura. Ma è certo che nel bello naturale traluce qualcosa di differente, qualcosa di non riproducibile dall’uomo. Anzitutto in ogni creatura possiamo scorgere le tracce della connessione universale che lega tra loro tutti gli elementi della natura: “poiché tutte le creature sono connesse tra loro, di ognuna dev’essere riconosciuto il valore con affetto e ammirazione” (42). Nessuna creatura è dunque riducibile all’esemplare di una “specie”: perché ogni creatura è dotata di una sua propria soggettività e singolarità che rinvia al tutto, ma lo fa da una posizione unica e irripetibile. Per questo sono inaccettabili le posizioni di chi afferma che il sacrificio di un animale è legittimato dal fatto che l’animale non ha una sua soggettività e che semmai occorre proteggere le specie; la specie si declina sempre in soggetti singoli che rinviano, dal loro punto di vista, alla meraviglia del tutto.
    Ma quale deve essere la nostra posizione di fronte alla bellezza? Se vogliamo educare al bello naturale e alla sua contemplazione, occorre educare al silenzio, al non-fare, alla passività, a non lasciare per forza tracce umane nel non-umano, lasciandosene stupire. Solo l’uomo che sa dimenticarsi per un attimo di se stesso, sa trovare una sintonia con la natura; per questo il bello naturale deve essere contemplato in silenzio, con quel mutismo che sottrae per un poco all’uomo il primato consistente nella parola; non sempre dunque siamo chiamati a “fare” in una posizione arrogantemente attiva: “siamo invece chiamati a diventare gli strumenti di Dio Padre perché il nostro pianeta sia quello che Egli ha sognato nel crearlo e risponda al suo progetto di pace, bellezza e pienezza” (53). La rinuncia a una posizione di dominio in favore di una contemplazione anche passiva significa la ”riscoperta e il rispetto dei ritmi inscritti nella natura dalla mano del Creatore” (71). Rischiando l’antropomorfismo (ma perché poi dovrebbe essere un rischio?), l’Enciclica afferma: “Il Signore poteva invitare gli altri ad essere attenti alla bellezza che c’è nel mondo, perché Egli stesso era in contatto continuo con la natura e le prestava un’attenzione piena di affetto e di stupore” (97).
    Dunque il bello naturale non è un oggetto di fonte al quale posizionarsi, magari dopo averlo accomodato su un vetrino di microscopio, ma un ambiente nel quale immergersi e dal quale lasciarsi penetrare: “il mondo non si contempla dal di fuori ma dal di dentro” (220); un po’ come proponeva Kandinsky: Oppure apriamo la porta, usciamo fuori, ci immergiamo in questa entità, diventiamo attivi in essa e viviamo il suo pulsare con tutti i nostri sensi. I rumori, sempre mutevoli per intensità e ritmo, ci avvolgono, salgono vertiginosamente e cadono d’improvviso, indeboliti. Anche i movimenti ci avvolgono: un gioco di tratti e linee orizzontali, verticali, che inclinano col movimento in direzioni diverse, di macchie colorate che si ammassano e si disperdono, e che emettono un suono ora alto, ora basso” [19] . E in questa attività di contemplazione del bello dal dentro occorre imparare a “rimanere pienamente presente davanti a qualcuno senza stare a pensare a ciò che viene dopo” (226), a lasciar scorrere il mondo e il tempo dentro di sé, a cogliersi come momenti di una totalità in divenire piuttosto che come sue guide o suoi dominatori: queste esperienze, finora legate alle pratiche mistiche di alcune religioni [20] o alla sensibilità delle donne che riflettono sulla differenza di genere [21] , possono diventare il nuovo paradigma del rapporto tra uomo e mondo e tra uomo e uomo.

    Educazione all’Utopia,
    ovvero la risposta a chi dice “queste cose accadranno sempre”

    È noto che il primo utilizzo del termine Utopia è legato all’opera di Thomas More, risalente al 1516: More parla di Insula Utopia (ou-topia, non-luogo, che subito nella pronuncia inglese rivela una possibile pseudo-etimologia per omofonia con eu-topia, luogo felice); nel 500 e nel 600 il termine si trasforma da nome proprio a metafora pseudogeografica indicante lo stato ideale fittizio, poi nel 700 passa a denominazione di genere letterario e a concetto politico già ambivalente. Nella prima metà dell’800 passa ad essere nozione peggiorativa di politica sociale, mentre nella seconda metà dell’800 fino a tutto il 900 recupera un senso positivo nel linguaggio filosofico-letterario. Poi, il nulla. Il termine utopia viene letteralmente abbandonato e dimenticato. Eppure ci sembra che nulla sia più urgente oggi che educare i ragazzi e le ragazze all’Utopia. Magari anche a partire da una rassegna delle utopie bibliche: l’utopia di una società contadina nella quale ognuno sta sotto il proprio fico e scorre latte e miele (1Re 5,5; Mic 4,4; Zac. 3,10; Es. 3,8-17; 13,5; 33,2 ss.); l’utopia del re benefattore; (Sal. 72,1-.9; 12-14.17; Sal 101,1,4-8; Is 11,1-5); l’utopia di una legge buona e di un popolo docile (Ger 31,31-34; Ez 36,24-32; Is 2,2-4); l’utopia di una società senza macchia (Ez 40-48).
    L’Enciclica fa propria l’Utopia isaiana di una “riconciliazione universale” (66); è proprio la rinuncia al paradigma predatorio e dominatorio che apre all’utopia: il mondo redento vedrebbe uomini, animali e piante gli uni di fianco agli altri, senza necessità di gerarchie o illusioni di superiorità. Il mondo naturale si riconcilia con l’uomo perché coglie il cambiamento di prospettiva segnato dall’abbandono del comportamento predatorio. Tutto ciò nasce dalla consapevolezza che “la terra ci precede e ci è stata data” (67). Molte persone sono sensibili al fascino degli oggetti naturali dei quali l’uomo e la donna fanno esperienza concreta e diretta, ma che preesistono loro e che essi trovano già fatti sul loro cammino; si tratta di tutti gli oggetti naturali le cui origini risalgono a un’era precedente la comparsa della razza umana sulla Terra: dalle stelle alle catene montuose, allo stesso pianeta che ci ospita. Sono elementi di fronte ai quali la voglia di dominio dell’uomo viene deposta, perché si comprende che l’orizzonte nel quale viviamo non è stato creato né da noi né da nostri simili.
    Ma la declinazione più interessante dell’utopia è ovviamente quella sociale. Educare all’Utopia significa sbloccare l’idea che il mondo viva sotto una specie di sortilegio, che la miseria, il dolore ingiusto e lo sfruttamento costituiscano un destino ineluttabile. E se la creazione e la rivelazione di Dio ha rotto proprio questo cerchio magico del destino, dando luogo a una storia lineare e orientata, allora c’è speranza che il demoniaco cerchio chiuso di sofferenza e sfruttamento nel quale ci sembra di vivere possa esser a sua volta spezzato: “se Dio ha potuto creare l’universo dal nulla, può anche intervenire in questo mondo e vincere ogni forma di male. Dunque, l’ingiustizia non è invincibile” (74). Occorre però una consapevolezza: nessuno esce dal cerchio magico da solo, solamente la collettività può salvarsi: “ai problemi sociali si risponde con reti comunitarie, non con la mera somma di beni individuali” (219). E questa collettività, questa comunità, è davvero universale, e comprende tutti i popoli umani, valorizzando il contributo che ciascuno di essi può fornire, anche se questo contributo appare in contrasto con le nostre idee e i nostri concetti: “neppure la nozione di qualità della vita si può imporre, ma dev’essere compresa all’interno del mondo di simboli e consuetudini propri di ciascun gruppo umano” (144). Nessuna cultura ha il diritto di imporre i propri valori e i propri sistemi di vita alle altre: “la scomparsa di una cultura può essere grave come o più della scomparsa di una specie animale o vegetale. L’imposizione di uno stile egemonico di vita legato a un modo di produzione può essere tanto nocivo quanto l’alterazione degli ecosistemi” (145). Quanto questa idea di rispetto delle culture ponga questioni cruciali alla logica dell’evangelizzazione, è uno dei temi sui quali la Chiesa è chiamata a riflettere, senza però perdere la radicale ventata d’ossigeno democratica e dialogante che l’Enciclica, nello spirito conciliare, ci ha donato [22] .
    L’utopia è tempo domenicale, tempo di festa, di sosta, di sospensione del lavoro e della fatica, liberazione dal lavoro più che liberazione del lavoro: è la domenica, “il giorno di riposo, il cui centro è l’Eucaristia, [che] diffonde la sua luce sull’intera settimana e ci incoraggia a fare nostra la cura della natura e dei poveri” (237). E soprattutto è anticipazione del “sabato dell’eternità (…) dove ogni creatura, luminosamente trasformata, occuperà il suo posto” (243). La domenica come anticipazione dello Shabbat è così una premessa imperfetta dei tempi a venire, una loro mimesi incompleta. La radice della parola Shabbat significa “cessare” o “desistere”, veicolando così anche un significato di resa e di astensione. Si tratta di una resa che non sa di sconfitta, ma ci richiama alla nostra creaturalità. La resa, il riposo, l’astensione alle quali ci invita lo shabbat sono legate al fatto che questo giorno porta con sé il sapore dell’eden e qualcosa del mondo a venire. Nello shabbat e nella dimensione del riposo possiamo gustare un tempo sospeso tra promessa e adempimento, un tempo di soglia, tra la nostalgia di un ordine tov e la possibilità concreta di restaurare quel mondo, o qualcosa di vicino a quel mondo, così vicino come la tomba di Adamo è separata dall’Eden solo da una sottile lastra di pietra, così che dell’Eden filtri il soave profumo Lo shabbat ci mostra allora la debole forza del riposo come principio di contestazione nei confronti di un ordine mondiale che ha fatto dello sfruttamento della natura la sua regola; non ci si riposa per poter essere più freschi sul lavoro o più concentrati nello studio; ci si riposa per riposare, per non fare nulla, per fare della pace sabbatica una imperfetta anticipazione della dimensione utopica futura. Ma lo shabbat ha anche l’altro volto, quello dell’invito all’azione perché le condizioni possano essere mutate, perché la pace sabbatica possa essere eterna. Non siamo ancora nel giorno splendente e nuziale della redenzione: dobbiamo chiedere: “Sentinella, quanto resta della notte?” (Is., 21,11), preoccupati del tempo che sembra non scorrere tanto e inchiodato a un cattivo presente. L’alba dello shabbat non è ancora arrivata.
    Ma l’Enciclica ci regala la certa speranza o la sperante certezza che quell’alba sorgerà. Il dovere di preoccuparci per lo stato del mondo non deve togliere il sorriso di chi sa che alla fine pace e giustizia si baceranno. “Che le nostre lotte e la nostra preoccupazione per questo pianeta non ci tolgano la gioia della speranza” (244). Sono forse queste le parole più dolci e forti che ci restano dello stupore di una Enciclica.

    NOTE

    [1] I numeri tra parentesi rinviano ai paragrafi dell’Enciclica.
    [2] Cfr. Percy Bhysse Shelley, In difesa della poesia, Milano, Mimesis, 2013.
    [3] Cfr. Max Horkheimer e Theodor Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Torino, Einaudi, 1979.
    [4] Cfr David Lyon, Massima sicurezza Sorveglianza e “guerra al terrorismo”, Milano, Cortina, 2005.
    [5] Cfr. Robert Redeker, Il disumano. Internet, la scuola, l’uomo, Troina, Città Aperta, 2000.
    [6] Cfr. Manfred Spitzer, Demenza digitale. Come la tecnologia ci rende stupidi, Milano, Corbaccio, 2013.
    [7] Cfr. Max Horkheimer, Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale, Torino, Einaudi, 1970.
    [8] Cfr. Pedro Trigo, Creazione e mondo materiale, in Ignatio Ellacuria, Il popolo crocifisso in Ellacuria e Sobrino, (a cura di), Mysterium liberationis. I concetti fondamentali della Teologia della Liberazione, Assisi, Borla, 1992, pag 556.
    [9] Cfr. Andrew Linzey, Teologia animale, Cosmopolis, Torino, 1991, pag. 40.
    [10] Cfr. Mathis Wackernagel, William E. Rees, L’impronta ecologica. Come ridurre l’impatto dell’uomo sulla terra, Milano, edizioni Ambiente, 2004.
    [11] Cfr. Hugo Assmann e Franz Hinkelhammert, Idolatria del mercato, Assisi, Cittadella, 1988.
    [12] Cfr Gustavo. Gutierrez, Teologia della Liberazione, Brescia, Queriniana, 1972.
    [13] Cfr. Serge Latouche, La scommessa della decrescita, Milano, Feltrinelli, 2009.
    [14] Cfr. Marco Revelli, Lavorare in Fiat, Milano, Garzanti, 1990.
    [15] Ne propiniamo un’analisi nel nostro La parte del torto. Lessico essenziale di educazione alla politica, Torino, Tirrenia, 2006.
    [16] Cfr. Wolfgang Sofsky, L’ordine del terrore. Il campo di concentramento, Roma-Bari, Laterza, 2000.
    [17] Cfr. Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Milano, Garzanti, 1990.
    [18] Cfr. Raffaele Mantegazza, Color di lontananza. Educazione e utopia in Theodor W. Adorno, Milano Angeli, 2005.
    [19] Wassily Kandinsky, Punto e linea su piano in Tutti gli scritti, Milano, Feltrinelli, 1973, vol. I pag. 11.
    [20] Cfr. R. Mantegazza, Oceani di silenzio. Tracce educative nella mistica cristiana. Eckhart, Porete, Silesius, Elledici/Leumann, Torino, 2013.
    [21] Cfr. E. Schüssler Fiorenza, In memoria di lei. Una ricostruzione femminista delle origini cristiane, Roma, Claudiana, 1990.
    [22] Una analisi di quanto queste questioni siano cruciali per esempio nella storia dell’arte è reperibile nello splendido libro di Francois Boespflug Le immagini di Dio. Una storia dell’Eterno nell’arte, Torino, Einaudi, 2012, soprattutto nel capitolo conclusivo,


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