José Manuel Prellezo
(NPG 2015-06-04)
Se prendiamo in mano il vivace e suggestivo libro Memorie dell’Oratorio (MO), in cui don Bosco racconta le prime vicende della sua opera tra i giovani, riceviamo l’impressione che il narratore, ancora fanciullo e adolescente, possedesse già una idea molto chiara di quello che voleva diventare “da grande”: prete, prete dei giovani e per i giovani.
Giovanni Bosco non aveva compiuto ancora tredici anni di età, quando, interrogato sull’argomento da don G. Calosso, cappellano di Murialdo, manifestò senza esitazione il suo desiderio di studiare per diventare sacerdote. E con la stessa schiettezza dichiarò inoltre le ragioni della sua scelta, che dovevano costituire per lui, con il passare del tempo, un vero programma di vita: «Per avvicinarmi, parlare, istruire nella religione tanti miei compagni, che – affermava – non sono cattivi, ma diventano tali, perché niuno di loro ha cura».
Che Giovanni Bosco, con tale risposta, non esprimesse una semplice velleità fanciullesca emergerà molto presto. Infatti, per poter completare gli studi ed entrare in Seminario, egli non ebbe difficoltà a prendere in una mano la zappa e nell’altra la grammatica latina. Ancora di più, mentre frequentava la scuola di Castelnuovo e di Chieri, allo scopo di non pesare sulla magra economia familiare, si occupò in svariate attività – apprendista sarto, ripetitore delle lezioni, «caffettiere e liquorista» –, facendo, però, allo stesso tempo, ogni sforzo per raggiungere lo «scopo principale». Per questo, organizza tra i compagni la «Società dell’Allegria», nelle cui riunioni si alternano amena ricreazione, conferenze e letture su temi religiosi e amichevoli conversazioni; nel periodo estivo si impegna nell’ insegnamento del catechismo ai ragazzi del paese natio e dintorni.
Ma, nel suo cammino verso il sacerdozio, non si scoprono soltanto luci e certezze. Vi si sono presentati anche dubbi e ombre. Giovanni Bosco, parlando della “scelta dello stato” nelle menzionate Memorie, accenna ai fatti che gli “rendevano dubbiosa e assai difficile” la sua deliberazione; e allude pure ai mezzi messi in opera per superare le difficoltà incontrate: riflessione personale, preghiera e pratica dei sacramenti, lettura di libri sull’argomento, consigli d’un amico, guida di un saggio sacerdote, don Giuseppe Comollo.
Più tardi, dopo la sua ordinazione sacerdotale, nel 1841, la presenza di un altro sacerdote, don Giuseppe Cafasso, doveva giocare un ruolo importante sulle scelte di don Bosco: le prime attività catechistiche e pastorali, le visite alle carceri torinesi, il ministero negli istituti della marchesa Giulia di Barolo.
Don Bosco non si limita, però, a seguire suggerimenti e consigli altrui. Li accoglie e li mette in pratica con modalità originali. Nella chiesa di San Francesco d’Assisi, egli inizia la sua opera con un giovane orfano, Bartolomeo Garelli, di sedici anni, che non sa leggere né scrivere né fare il segno di croce; ma egli non rimane in sagrestia ad aspettare altri orfanelli: prende contatto con gruppi di ragazzi «poveri e abbandonati» che «vagano per le vie e per le piazze» della città; si intrattiene e gioca con loro, invitandoli poi a frequentare il suo oratorio. E visitando le carceri della città di Torino, si rende subito conto che in quei «luoghi di miseria spirituale e temporale», molti giovani intelligenti, di buon cuore, capaci di diventare la consolazione della famiglia, erano «rinchiusi, avviliti, fatti l’obbrobio della società» (Cenni, 133).
Dopo le prime esperienze, don Bosco giunge alla convinzione che quei giovani «erano infelici piuttosto per mancanza di educazione che per malvagità». Ed egli stesso confesserà più tardi che i suoi incontri con i giovani carcerati avevano avuto un influsso decisivo nel proprio impegno di dare vita ai suoi oratori, con il fine di prevenire che i giovani arrivassero a quei luoghi di castigo ed evitare che, usciti da essi, rischiassero di ritornarvi.
La scelta dei giovani, specialmente quelli più poveri e a rischio, si fece sempre più chiara e determinata. Alla marchesa di Barolo, che gli chiedeva di «lasciare l’opera dei ragazzi», per poter dedicarsi a tempo pieno, come direttore spirituale, alla fondazione benefica del Rifugio, invitandolo a pensare seriamente alla proposta, don Bosco rispose senza esitazione: «La mia risposta è già pensata. Ella ha denaro e con facilità troverà preti quanti ne vuole pe’ suoi istituti. De’ poveri fanciulli non è così. In questo momento se io mi ritiro, ogni cosa va in fumo» (MO, 151).
A Michele Benso di Cavour, Vicario di Città, che gli consigliava di «lasciare in libertà quei mascalzoni», dice con fermezza: «Non ho altra mira, Sig. Marchese, che migliorare la sorte di questi poveri figli del popolo. Non domando mezzi pecuniari, ma soltanto un luogo dove poterli raccogliere. Con questo mezzo spero di poter diminuire il numero di discoli, e di quelli che vanno ad abitare le prigioni» (MO, 147).
Qualche anno più tardi, al marchese Roberto d’Azeglio, che lo invitava a partecipare alle «feste nazionali», don Bosco dichiara che intende tenersi «estraneo ad ogni cosa che si riferisca alla politica», e manifesta che con la sua opera intende: «Far quel po’ di bene che posso ai giovanetti abbandonati, adoprandomi con tutte le forze affinché diventino buoni cristiani in faccia alla religione, onesti cittadini in mezzo alla civile società» (MO, 198).
In un periodo complesso della storia piemontese, italiana ed europea (passaggio da una fase di restaurazione a un regime democratico con nuove questioni dai risvolti, di fatto, problematici: libertà di culto e di stampa, leggi anticlericali, moti rivoluzionari, aspirazione all’unità nazionale, questione romana), don Bosco non entra nella arena politica. Sente la sua vita sostanzialmente impegnata nel problema dell’educazione popolare della gioventù, «avvertito come quello che avrebbe dato soluzione globale a quello religioso e civile» (Stella).
La scelta di don Bosco è ormai completa e definitiva: prete dei giovani, per i giovani e, direi, prete-educatore dalla parte dei giovani. Egli è convinto che questa «porzione, la più delicata e la più preziosa dell’umana Società, su cui si fondano le speranze di un felice avvenire, non è di per se stessa di indole perversa» (Piano di Regolamento, 107).
Si tratta di una convinzione sviluppatasi nelle visite ai giovani carcerati di Torino, nei contatti con i ragazzi incontrati nelle strade e nelle piazze dei quartieri periferici della città, negli incontri con gli allievi che frequentavano gli oratori festivi e le prime scuole e laboratori artigianali di Valdocco. Ma a questo radicato convincimento era unita la progressiva consapevolezza della necessità della presenza di educatori, «che come padri amorosi parlino, servano di guida ad ogni evento, diano consigli e amorevolmente correggano».
All’interno di questa cornice matura un progetto e una decisione impegnativa: la fondazione di una associazione di educatori. Infatti, nel 1859 don Bosco assieme a un gruppo dei primi giovani collaboratori decidono di «erigersi in Società», con l’impegno e la missione di dedicarsi all’istruzione e all’educazione della «gioventù abbandonata e pericolante».
Oggi (le statistiche sono del 2014) i Salesiani sono 15.298 (con vescovi e novizi) e lavorano in 1.823 Case: Oratori-Centri giovanili; scuole, scuole professionali, convitti e pensionati, opere di promozione sociale, parrocchie e missioni.
Sono presenti nei cinque continenti del globo, in 132 nazioni. Le loro opere si raggruppano per Regioni, Ispettorie e Presenze Locali. Esistono 7 Regioni, con 86 Ispettorie. La Famiglia Salesiana conta circa 400.000 membri.