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    Attento, il computer deforma la mente


    Raffaele Simone

    (NPG 2003-05-58)

     

    La mente può contare su molti supporti. Il calcolatore, per esempio. Non le dà qualche aiuto? È un aiuto apparente. Rende più facile un’enorme varietà di operazioni, e ne permette addirittura alcune che prima non avremmo neanche potuto immaginarci.

    – E questo non le basta?
    – No. Perché, in cambio, il calcolatore ha una quantità di difetti, il primo dei quali è che proietta sulla mente il proprio modello, e quasi glielo impone.

    – Mi spieghi, per favore. Il calcolatore ha un modello?
    – Il calcolatore ha rivelato presto di avere una mente, una mente sua, sulla quale spesso modelliamo la nostra. Non c’è niente di sorprendente in questo: come tutte le macchine che hanno a che fare con la conoscenza, il calcolatore incorpora una filosofia. Alla stessa maniera, una filosofia era incorporata nella penna che scrive e nella macchina da scrivere. Per questo, direi che il calcolatore è una macchina filosofica, perché impone a chi la usa le proprie concezioni in base a cui è stata costruita. Per esempio, qualunque cosa facciamo con un calcolatore, possiamo disfarla. Possiamo sempre tornare allo stato iniziale, e possiamo modificare il nostro lavoro illimitatamente.

    – E non le pare un grande vantaggio, questo?
    – No, perché il nostro lavoro nasce sin dall’inizio interminato, indefinito, incompiuto e tale resta fino alla fine. Del resto, come tutte le filosofie, anche questa crea le sue malattie. Alcuni vengono presi, davanti a un calcolatore, da una specie di delirio del ritoccare, del rifare, del modificare.

    – E che c’è di male?
    – È semplice. Prima del calcoaltore, il disfare era un’operazione molto complicata, quindi i lavori nascevano solo dopo essere stati pensati a fondo: si rifletteva su quel che si sarebbe scritto, perché si sapeva che il prodotto di questo lavoro non sarebbe stato facilmente modificabile. Ora invece, la modificabilità infinita delle cose che si fanno con il calcolatore ci spinge a non pensare prima, ma a pensare al più mentre scriviamo. O a non pensare affatto. E questo cambia parecchio le cose. Questa differenza era chiara già a Schopenhauer...

    – Ancora lui?
    – Che male c’è, se ha capito alcune cose prima di noi? In Parerga e Paralipomena ha distinto le persone che scrivono in tre categorie: quelle che pensano prima di scrivere, quelle che pensano mentre scrivono, quelle che pensano dopo aver scritto.
    Sembrava una battuta maligna, delle sue, ma invece è una fulminante premonizione...

    – Che cosa ha previsto?
    – Mi pare chiaro: prima del computer prevalevano le prime due forme di scrittura (pensare prima e pensare durante lo scrivere), dopo il computer prevalgono le seconde due (pensare durante e pensare dopo), e specialmente il pensare dopo aver scritto. Non è una differenza da poco.

    – Quindi il calcolatore è un motivo per diventare superficiali...
    – Già, anche se leggo che ci sono scrittori e poeti che scrivono al calcolatore, direttamente, anche opere complesse. Vuol dire che non sentono la stessa distanza dal mezzo che sento io.
    Per la verità, tutta la cultura digitale mi pare ambivalente, in senso proprio.

    – In senso proprio?
    – Sì, perché è al tempo stesso una miniera di risorse straordinarie e una incredibile rete di trappole.

    – Per esempio?
    – Elimina il rapporto intimo con quel che si scrive, quell’intimità che era garantita dalla pagina di carta.

    – Intimità? Mi spieghi meglio.
    – La pagina scritta si teneva vicino agli occhi, era quindi riservata a chi stava scrivendo. Senza dire che aveva una sua materialità, che concerneva solamente l’autore delle cose scritte.
    Il testo era vicino all’occhio, e l’autore poteva avere l’impressione di dominarlo. Lo “sentiva”. Per questo alcuni dicono che non è solo il lettore che interroga il testo. Accade anche l’inverso...

    – E sotto che forma?
    – È semplice: il testo interroga il lettore, ogni lettore. E siccome il lettore tende subito a proiettare sul testo le sue aspettative, la sua cultura, il suo mondo interno, il testo stesso si rivolta e gli chiede: “Che vuoi da me?”. Questa è la domanda iniziale, l’introibo.
    Poi, quando il lettore, incurante di questa reazione, comincia a fare di quel testo quel che vuole o quel che può data la sua intelligenza e la sua cultura, le domande si moltiplicano: “Chi sei tu per costringermi a dire proprio questo?”. “Perché dovrei dire proprio quel che tu vuoi che dica?”. O anche: “Sono costato al mio autore un immenso lavoro, e tu pensi di leggermi così alla svelta? Non hai capito qual è il mio ritmo?”.

    – Ritmo?
    – Certo. Ogni testo ha un suo ritmo, cioè impone al lettore (ma anche al proprio autore) una certa velocità e un certo ordine. Un testo lento non si può leggere velocemente. E un testo veloce si presta poco a una lettura lenta.

    – [...] Allora, i testi interpellano il lettore e spesso gli si ribellano perché lui (o lei) non ha capito quali sono le leggi interne del testo stesso. Sono sempre così avversi, i testi?
    – No, certo. Altre volte il testo è più affabile. E chiede: “Non somiglia anche alla tua vita quel che sto raccontando? Hai provato anche tu la passione che sto attribuendo al tale personaggio! Ammettilo! Quel personaggio sei tu!”... E questo non vale solo quando leggiamo romanzi, cioè opere con personaggi ed eventi. Anche quando leggiamo qualcosa di astratto...

    – Che succede?
    – Che alcune idee, affermazioni, elaborazioni somiglino a cose che abbiamo pensato in qualche parte della mente e abbiamo magari lasciato lì abbandonato. In una quantità di casi il lettore avverte con inquietudine premonitrice che il testo – proprio quel testo, e non altri – vuole dirgli qualcosa.Proprio a lui o a lei, capisce? Nel testo ci sono segnali dispersi, che glielo fanno capire in maniera chiara.
    È il lettore che allora si domanda: “Che cosa vuoi dirmi, che io non capisco a fondo?”. E anche: “Come farò a capire davvero quel che vuoi dirmi?” [...]
    Adesso lo schermo del calcolatore è lontano dagli occhi e dalle mani, è sotto gli occhi di tutti, presenta una pagina immateriale... Non parla più.
    È pubblico, e quindi a momenti anche un po’ indecente... È ridiventato silenzioso... Inoltre, lo schermo non è amico degli occhi, perché li costringe a fare un lavoro di controllo microscopico, ma a distanza – due cose che non stanno insieme. Quindi il testo e il lettore, o anche l’autore, si parlano molto meno.

    – Per cominciare a parlarsi hanno bisogno della carta.
    – Secondo me è proprio così. Il testo su carta è parlante. Quello sullo schermo è fatto per altri scopi. Per questo, chi scrive col calcolatore diventa presbite, o se lo è già per proprio conto soffre una volta di più.
    Ma soprattutto diventa presbite nella mente!

    – La presbiopia mentale mi risulta nuova.
    – Non esiste anche la miopia mentale? La presbiopia mentale si ha quando non si è più capaci di guardare le cose da vicino – cioè di capire le cose piccole, o di capirle in piccolo, o di capirle finemente...
    E non è l’unico problema creato dal calcolatore.Anche altre risorse apparentemente importanti hanno un loro prezzo.

    – Mi spieghi.
    – Anzitutto la connessione telematica, che dà la percezione di essere collegato in ogni momento con tutto il mondo, con chicchessia, di poter fare tutto, o se non altro sapere tutto.

    – Mi pare un grande progresso, questo. Pensi a quando, fino a qualche decennio fa, per procurarci un’informazione banale, per esempio l’orario di partenza di un treno, bisognava andare alla stazione e magari lottare con un impiegato nervoso. Ora possiamo avere la stessa informazione senza muoverci da casa.
    – Proprio questo è il punto. Ora non abbiamo bisogno di uscire di casa, né di incontrare nessuno per avere un’informazione. Quindi: stiamo ridiventando sedentari e soprattutto solitari. Le pare poco?

    – Ma almeno compensiamo questo limite con una grande quantità di informazioni.
    – Le informazioni sono diventate torrenti, fiumi, inondazioni, una piena continua e inarrestabile. Tanto che siamo diventati incapaci di dominarle, di tenerle a mente, di valutare se sono di buona qualità oppure no. L’inondazione di informazioni ci travolgerà, e magari travolgerà tutti i componenti della mente, tutti gli uomini che prima si occupavano di controllarne la qualità. E sto parlando solo delle persone che con la rete non si drogano, ma cercano davvero delle conoscenze. Immaginiamo che cosa può succedere nella testa degli altri, dei giovani, dei bambini. Nel fiume di informazioni possono perdersi.

    – Non me ne passa neanche una! Che altro c’è?
    – Ne ricorderò un’altra. L’uso intenso del calcolatore, soprattutto se è collegato in rete, introduce nei ritmi di pensiero un coefficiente permanente di accelerazione e quindi di fretta.
    Non riusciamo più neanche a sopportare un minimo di attesa dinanzi a un’operazione che stiamo facendo col computer. Il clock della mente, il suo controllo del ritmo e della velocità, è disturbato alla radice dal clock del calcolatore.
    (La Stampa, 4 maggio 2002)

    Da: La mente al punto. Dialogo sul tempo e il pensiero, Laterza 2002


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