Umberto Galimberti
(NPG 2001-09-63)
La musica. Ma cos’è tutto questo bisogno di musica di cui, soprattutto d’estate, i giovani sembrano assetati? Cos’è quell’ossessione settimanale, e d’estate quotidiana, che li ammassa nelle discoteche? E poi le folle dei concerti, le solitudini con i walkman sparati nelle orecchie. Cos’è questo bisogno di suoni, i più primitivi, i più ritmici, i più cadenzati? Non diciamo bisogno d’aggregazione, perché, oltre a una certa misura, la folla non concede più comunicazione; non diciamo crollo delle ideologie per cui, in assenza di idee, è la musica a richiamare le masse; non diciamo droga; non diciamo neppure sesso, perché le dimensioni orgiastiche hanno a che fare più con la castità che con la fusione dei corpi. Tutte queste cose sono in parte vere, ma non arrivano a quella radice a cui, senza saperlo, i giovani tendono nel tentativo disperato di rifondare un tempo, che non sia solo «progetto» e «sguardo al futuro», in cui è completamente e asfitticamente racchiusa la nostra cultura, ma quel tempo originario che ha nel corpo il suo semplice ritmo di cui la musica, e in particolare la musica rock, è la più gelosa custode. Parlo di quel ritmo che è battere e levare, battere e levare, uno/due, uno/due. È il ritmo del nostro respiro, il ritmo del battito del nostro cuore, il ritmo sonno e veglia, il ritmo sazietà e fame, il ritmo del coito, il ritmo che nella vita intrauterina scandisce la prima figura del tempo.
L’incanto del ritmo nella sua eterna ripetizione non è un modello teorico, ma piuttosto una sfida a vivere fuori dal disegno tracciato dall’idea di progresso all’infinito, da cui i giovani spesso si sentono esclusi per le difficoltà a prendervi parte. E quando lo sguardo rivolto al futuro si riduce, forte nasce da un lato l’ insistenza sul presente, ben rappresentato dal battito ritmato dei piedi su questa terribile terra, quando un’altra non è promessa, dall’altro il bisogno di tornare indietro, al passato anzi a quel primitivo ritmo del corpo che, custodendo la prima origine del tempo, apre la speranza di un altro futuro.
In questa operazione regressiva, dove nella regressione c’è anche il valore positivo della possibilità di una rifondazione del mondo, prepotenti si fanno avanti quelle domande che non chiedono la soluzione dei problemi, perché la sfiducia, neppure avvertita come tale, ha già bruciato tutto lo spazio dell’attesa di una possibile risposta. E perciò nella cadenza del ritmo più primitivo si rivive, nel ventre della folla, quella prima esperienza nel ventre della madre, dove il battito del proprio cuore non si distingueva dal battito del cuore materno.
Si raggiunge così quella condizione dove le domande si pongono non in modo teorico, ma corporeo, e con il corpo si chiede qual è l’origine per sapere chi siamo noi, che cos’è il mondo per sapere che cosa ci facciamo, chi è Dio per sapere quale altro Dio si nasconde dietro il racconto che ci hanno fatto. Sono queste delle domande che non si sciolgono in una risposta teorica, ma si vivono solo come domande, con tutta la tensione che la domanda conosce quando la risposta non è all’orizzonte, una tensione che il corpo scarica nel ritmo incessante, ripetuto fino allo sfinimento, perché tutte le domande senza risposta sfiniscono.
Eppure in quest’esperienza del nulla, che solo il rumore fragoroso della musica e degli effetti speciali riesce momentaneamente a non far percepire, in questa assenza del proprio nome perso nella folla che, nel suo anonimato, ha inghiottito tutti i nomi, c’è nell’urlo primordiale collettivo una ripresa dell’atto fondativo delle prime comunità che non si sono raccolte, come vogliono le ipotesi psicoanalitiche, intorno al focolare, ma, come ci ricorda Emanuele Severino, intorno al grido. Grido di guerra, grido di terrore, grido di gioia, grido d’amore, grido di dolore, grido di morte. Anche gli animali gridano, anche il vento quando minaccia la tempesta, anche il mare quando perde la sua calma trasognata, ma solo l’uomo si raccoglie intorno al proprio grido, e quando non ci sono gli eventi che l’hanno provocato, li costruisce artificialmente per rintracciare le trame profonde che hanno fatto dell’uomo un animale in comunità. Interprete di questa trama profonda è la musica che, nel suo ritmo originario, precede la parola che si scambia a comunità già costituita.
Se i nostri giovani per esistere devono ricorrere alla musica-grido, questo dovrebbe farci riflettere quanto la nostra comunità non sia più accogliente, quanto asfittiche e mascherate sono le parole bene educate che lì si scambiano, quanta solitudine di massa si aggira nella nostra città, dove ciascuno è dedito ai soli suoi traffici e dove i mezzi di comunicazione servono solo a renderli più spediti, in quella «menzogna della civiltà», come scrive Nietzsche, nella quale il giovane stenta sempre più a trovare la sua abituale dimora. E perciò lo dice con quel linguaggio originario che è la musica, nel suo tratto più primitivo, quello ritmato, quello del corpo, quello del battito del cuore. Tra tutte le arti, infatti, la musica è l’unica arte che non si vede come invece la pittura o la scultura, che non perviene a un senso finale al di là delle parole in cui si articola, come invece accade nel linguaggio. La musica si sente, come si sentono i gesti d’amore che si incidono nella carne che sfiorano e penetrano. Per questo l’erotico è l’oggetto naturale del musicale, e non si dà musica se non come cadenza erotica, come sua incisione. «In questo regno – scrive Kierkegaard – non abita il linguaggio, né la ponderatezza del pensiero, né il travagliato acquisire della riflessione, ivi risuona soltanto la voce elementare della passione, il gioco dei desideri, il chiasso selvaggio dell’ebbrezza, ivi si gode soltanto in eterno tumulto». Ne scaturisce un’eternità che si nutre di tempo, una spiritualità che si incarna, una sensualità che lascia alle spalle come bassa pianura tutto ciò che viene indicato come vetta dello spirito. Il punto di fusione è l’immediatezza, per cui, come l’erotismo, anche la musica vive l’istante, la successione degli istanti che sorgono l’uno nell’estinzione dell’altro.
Questi istanti non si danno tutti dispiegati, come dispiegati in successione si danno i passaggi con cui un ragionamento si offre allo sguardo del pensiero e della riflessione, ma uno vive la morte dell’altro, come i gesti erotici che si susseguono cancellandosi, perdendo convulsamente la loro successione e affidando la loro memoria ai sensi, perché questa è l’autentica condizione dell’uomo a cui non è dato l’eterno se non per rapidi e fugaci assaggi, e non elevandosi, ma incarnandosi. Più si fa abisso, più si fa universo. Ma nell’abisso non si può stare, così come non si può stare nell’universo troppo vasto e privo di riferimenti. Brevi istanti sono concessi all’uomo per accogliere l’eterno.
Musica e sensualità sono i veicoli e i mediatori, ma per questo occorre essere all’altezza della sensualità e saper avvertire nella musica lo spessore della carne toccata e fuggita. Qui a reggere il tutto è la forza dell’inconsistenza in cui risuona sia la rapidità di una nota, sia la leggera pressione di una carezza. Quanto basta perché la nostra esistenza possa galleggiare tra l’angoscia, l’entusiasmo e la disperazione in cui è gettata la sorte di ogni uomo provvisto di una sensibilità appena decente.
(Repubblica, 30 luglio 1999)