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    Sono ancora «religiosi» i ragazzi?



    (NPG 1999-09-12)


    La rilevanza assunta dalla religione nella formazione dell’identità dell’adolescente è oggi oggetto di valutazioni diverse. Le tesi sostenute da chi si occupa del problema tendono in genere a ridimensionarne il peso. L’educazione religiosa inciderebbe limitatamente alle strutture periferiche della personalità. Ma i comportamenti collettivi sembrano non condividere questa tesi: le famiglie infatti, molto spesso anche quando si tratta di coppie genitoriali che non manifestano una pratica religiosa significativa, non cessano di orientare i figli verso di essa, denotando con ciò la fiducia che conduca ad esiti di qualche rilievo e manifesti influenze positive.
    Quale delle due valutazioni sia più vicina alla realtà non è facile dire, anche per la carenza di una documentazione sistematica e rigorosa. Si tratta infatti di temi assai scarsamente indagati dalla ricerca sociale.

    Esperienza religiosa e socializzazione religiosa

    Una difficoltà aggiuntiva è data dal carattere polisemico che il linguaggio comune attribuisce alla parola «religione».
    Con essa si può infatti alludere a tutto ciò che attiene alla dimensione della credenza e alla esperienza del sacro, e si può pensare alla religione come apparato, insieme di luoghi, legami, esperienze di socializzazione e di socialità, deputati certo a fare esperienza del sacro, ma anche a trasmettere modelli culturali, identità, valori, norme etiche utili a fini di regolazione sociale.
    Nel primo caso sarebbe più corretto parlare di esperienza religiosa, o del sacro; nel secondo, di socializzazione in ambiente religioso, comprendendo in essa aspetti che appaiono rilevanti soprattutto sul piano culturale. Per brevità si parlerà di socializzazione religiosa.
    Si può ritenere che in passato le due dimensioni fossero sostanzialmente indistinguibili, sia nel senso forte che dall’esperienza religiosa derivava un preciso modello culturale ed uno solo, sia nel senso debole che la prima era assorbita dalla seconda.
    Oggi invece il legame tra di esse si è allentato e si è fatto più complesso.L’esperienza religiosa può cioè essere relativamente indipendente da forme culturali determinate e gli individui possono manifestare tratti della socializzazione religiosa senza che tutto ciò sia collegato ad una precisa esperienza del sacro. Se a queste dimensioni si aggiunge quella del comportamento socioreligioso, riassumibile nella componente della pratica e dell’appartenenza visibile ad una chiesa, il quadro si articola ulteriormente.Vi può essere infatti pratica senza appartenenza e appartenenza senza pratica. Vi può essere sentimento religioso senza pratica e/o appartenenza, e viceversa.
    Gli interrogativi perciò si complicano.In particolare ci si può interrogare sulla effettiva diffusione dell’esperienza religiosa, sull’incidenza che essa manifesta nell’informare i modelli culturali e comportamentali e dunque sull’identità sociale del soggetto, sul significato e la valenza che assume nella formazione dell’identità personale una socializzazione religiosa senza esperienza religiosa.
    Non è improbabile che le considerazioni citate, volte a ridimensionare il peso della religione nella formazione dell’identità del minore, siano, in parte almeno, dovute al fatto che esse sono incentrate sull’esperienza religiosa, esperienza che si ritiene essere oggi assai meno rilevante e diffusa di un tempo.
    Mentre chi, come le famiglie, denota con il proprio comportamento una maggiore fiducia potrebbe prestare invece più attenzione agli aspetti di socializzazione religiosa, intesa come canale di trasmissione dei valori culturali e dei riferimenti etici.

    La religiosità in Italia

    Come è ben noto dire religione vuol dire in Italia alludere alla religione cattolica. Vale per gli adulti e dunque anche per i bambini e le bambine. Gli adulti che si dichiarano appartenenti ad altra religione (o confessione religiosa) sono nel nostro paese una quota assolutamente minoritaria della popolazione, di poco superiore al 2%. Anche se la pratica costante, su base settimanale, riguarda una minoranza della popolazione (attorno al 30%), quasi il 90% si definisce cattolico.
    A guardare questi semplici dati il minore dovrebbe trovarsi a crescere in un contesto culturale apparentemente omogeneo, segnato dalla comune identità cattolica, che sembra costituire un tratto caratteristico dell’identità culturale del paese, tale da differenziarlo nettamente da molti altri paesi europei.
    In realtà anche il contesto italiano appare sempre più modellato su base pluralistica. Ciò che differenza il pluralismo religioso affermatosi in Italia è di non manifestarsi come una differenziazione di religioni e confessioni religiose, ma come una forma di pluralismo interno al campo cattolico. Sotto la comune identità si evidenziano infatti modalità profondamente diverse di intendere e praticare la religione cattolica. Tali diversità coinvolgono il piano delle credenze, quello delle pratiche e quello dell’appartenenza alla chiesa.
    Ciò appare chiaramente, non appena nelle domande sull’autocollocazione religiosa si aggiunge la modalità «credente a modo mio», nella quale finisce per collocarsi una quota significativa dei rispondenti, che altrimenti si sarebbero definiti cattolici.
    Accanto all’insieme dei praticanti si evidenzia cioè una quota rilevante della popolazione che può essere inquadrata nel modello di religiosità «senza chiesa».
    Inoltre, mentre i praticanti sono una minoranza sia pur consistente, come si è detto, rimane molto alto in Italia il ricorso alla ritualità straordinaria in occasione di momenti particolarmente rilevanti del corso di vita, o di festività di speciale risalto, così che pochi sono coloro i quali possono ritrovarsi totalmente estranei alla religione cattolica.
    In sintesi, i modelli di religiosità che caratterizzano il mondo adulto sono largamente differenziati: ai praticanti, essi stessi sempre più spesso caratterizzati da tipi diversi di religiosità, si affianca una parte, maggioritaria, della popolazione la quale se non esclude la dimensione religiosa e l’identità cattolica, non prevede nemmeno forme troppo impegnative di vivere l’esperienza religiosa e l’appartenenza ad una specifica confessione.
    Il contesto nel cui ambito si attua la socializzazione dei bambini e delle bambine, dei ragazzi e delle ragazze è dunque ampiamente pluralistico, e questo suo carattere non può che essere evidente anche ai loro occhi, quanto meno a partire da una certa età.

    UNA DIFFUSA SOCIALIZZAZIONE RELIGIOSA DEI PREADOLESCENTI

    Per sviluppare le nostre considerazioni di seguito porremo al centro dell’attenzione i ragazzi nel periodo della preadolescenza, fase che in Italia coincide grosso modo con la frequenza alla scuola media inferiore. Come si vedrà, si tratta di un periodo per molti aspetti cruciale nel processo di socializzazione religiosa dei ragazzi e delle ragazze.
    Sulla fase precedente del resto non esiste una documentazione adeguata. Si può ritenere che la socializzazione religiosa extrafamiliare abbia inizio di norma in corrispondenza con l’inizio della scuola elementare, ma i livelli di pratica nell’infanzia sono senza dubbio largamente inferiori a quelli che verranno sperimentati nel corso della preadolescenza, se non altro perché l’«obbligatorietà» della frequenza alla messa festiva è nell’infanzia considerata come socialmente poco vincolante.
    Il pluralismo nelle scelte religiose che caratterizza gli adulti non si riflette, come ci si potrebbe attendere, in un grado altrettanto elevato di differenziazione nelle pratiche religiose dei ragazzi e delle ragazze. Se si guarda agli indicatori espliciti di pratica, si può agevolmente accertare quanto esteso sia nel nostro paese il processo di socializzazione religiosa.
    Secondo le rilevazioni dell’Istat circa il 70% dei preadolescenti frequenta settimanalmente un luogo di culto. Un altro 14% ci va alcune volte al mese. Anche se si considera che questi dati sono leggermente sovrastimati, come potrebbe dimostrare la comparazione con altre metodologie di rilevazione, si tratta in ogni caso di livelli di pratica molto elevati. La dimestichezza con i luoghi di culto raggiunge i livelli più bassi nelle zone centrali delle aree metropolitane ed i livelli più alti nei piccoli centri al di sotto dei 2.000 abitanti. Per quanto riguarda le aree territoriali i livelli maggiori si registrano nel Mezzogiorno e quelli più bassi nel Centro. Le differenze non sono però mai troppo eclatanti.

    1999-09-14
    Pur tenendo conto della diversità dell’offerta, se si guarda al numero di preadolescenti i cui genitori hanno scelto di avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica nella scuola media, questa impressione di una socializzazione religiosa molto estesa esce ulteriormente rafforzata. Nell’anno scolastico 96/97 il 95,7% degli iscritti alla scuola media inferiore si è avvalso di tale insegnamento (96,8% nelle scuole elementari).
    Contrariamente a quanto molti si attendevano non si nota, negli ultimi quattro anni, alcuna tendenza ad una riduzione nella quota degli avvalentesi. Solo in alcuni grandi centri tale quota si pone su livelli significativamente inferiori, compresi tra il 70 e l’80%.
    Purtroppo non esistono fonti altrettanto sistematiche per sondare l’altro momento cruciale, sotto il profilo formale, della socializzazione religiosa dei ragazzi, e cioè la frequenza al catechismo. Indagini condotte a livello locale sembrano però indicare livelli di frequenza molto alti, persino superiori a quelli fatti segnare dalla frequenza alla messa festiva.
    La grande maggioranza dei e delle preadolescenti manifesta in sostanza una pratica esplicita costante, frequenta il catechismo e, a scuola, si avvale dell’insegnamento della religione cattolica; tutto ciò con una omogeneità territoriale notevole.
    Oltre a ciò molto numerosi sono coloro che frequentano qualche associazione o gruppo educativo di carattere parrocchiale, anche se ovviamente in quote non comparabili con quelle appena viste. Quanti non è dato saperlo, ma si può facilmente ritenere che lo spazio educativo extrascolastico sia in buona maggioranza gestito da organizzazioni che si riferiscono, quando non vi appartengano direttamente, alla chiesa cattolica.
    Meno peso essa riveste invece oggi, rispetto ad un recente passato, nell’ambito della gestione del tempo libero. Gli oratori assumono ancora, in questa età, un certo rilievo, ma lo sviluppo dell’associazionismo sportivo non confessionale ha sottratto il primato in questo campo alle organizzazioni promosse dalla chiesa.
    L’esposizione alla socializzazione religiosa riveste dunque nel nostro paese un rilievo vastissimo in questa età della vita, con ogni probabilità senza confronti con quanto si può rilevare negli altri paesi europei.
    Livelli di pratica così elevati, i più alti riscontrabili tra le età della vita e l’estesa partecipazione al catechismo, appaiono rafforzati dal fatto che, nella grande maggioranza delle diocesi italiane, il termine della scuola media inferiore coincide con il completamento formale del percorso dell’iniziazione cristiana. Il sacramento della confermazione che lo conclude è infatti somministrato di solito in prossimità di quel termine.

    Il crollo della pratica religiosa dopo la preadolescenza

    Sorprende perciò molto coloro che si occupano dell’educazione religiosa dei giovani quanto avviene negli anni collocati immediatamente dopo la preadolescenza. Il triennio successivo, compreso tra i 15 anni e il passaggio alla maggiore età, denota infatti una evoluzione nettissima nei livelli di pratica. Come si può osservare in tabella, quella costante, su base settimanale, subisce un arretramento di dimensioni eclatanti. In tre anni più di un terzo dei frequentanti la abbandona. La tendenza continuerà anche negli anni successivi fino a portarsi su una frequenza settimanale nei luoghi di culto tale da coinvolgere solo un individuo ogni quattro, tra 25 e 34 anni di età. Successivamente si assiste ad una ripresa, ma ben lontana dal riportarla ai livelli sperimentati nel corso della preadolescenza. In sostanza e arrotondando: un ragazzo ogni quattro non manifestava fin dall’inizio una pratica significativa, due hanno smesso o hanno optato per una pratica saltuaria, uno solo l’ha conservata.
    Di pari passo la frequenza al catechismo, anche per la riduzione dell’offerta, si riduce a ben poca cosa, mentre diminuisce la partecipazione all’associazionismo educativo. Rimane alta invece la scelta, a questo punto operata dai giovani adolescenti in prima persona, di avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica, scelta che coinvolge l’88,1% dei frequentanti le scuole superiori, anche in questo caso senza che si manifesti una chiara tendenza alla flessione. Va tenuto presente a questo riguardo che quest’ultima percentuale non è più calcolata sul totale dei giovani in quell’età, dato che siamo al di fuori della scuola dell’obbligo.
    Molte delle riflessioni che sulla religiosità dei ragazzi vengono sviluppate prendono le mosse da questi dati, dal confronto cioè tra un livello di pratica così elevato dei preadolescenti e l’abbandono tanto rapido e drastico negli anni immediatamente successivi. L’abbandono non sarà segno di una esperienza religiosa povera di contenuto? Se così non fosse, quali fattori intervengono successivamente a spiegarlo? E quali elementi di debolezza e di scarsa interiorizzazione erano in ogni caso già presenti nella socializzazione precedente? La preadolescenza, dal canto suo, è un periodo statico, sotto il profilo socioreligioso, oppure il cambiamento è già avvertibile in quel periodo? Come si vede, molti di questi interrogativi si pongono dal punto di vista dell’«esperienza religiosa», e non da quello della socializzazione che i ragazzi hanno vissuto in ambiente religioso, nel suo significato più ampio. Ma gli interrogativi sono in effetti più vasti, coinvolgono entrambi i piani. L’esperienza religiosa potrebbe cioè rivelarsi debole come momento di strutturazione dell’identità, ma la socializzazione ricevuta, al di là degli aspetti propriamente religiosi, potrebbe rivelarsi più consistente e significativa anche sul piano della formazione dell’identità.
    Dal punto di vista sociologico l’interrogativo posto dall’abbandono della pratica non è del resto così difficile, come può sembrare alle persone che sono impegnate nell’educazione religiosa dei ragazzi. Osservare i ragazzi significa guardare come la società si riproduce e in particolare come riproduce le forme della propria religiosità. Certo, tutti i genitori possono avviare i propri figli all’educazione religiosa, ma ciò non impedirà a questi ultimi di notare la pluralità di modi con cui nella società attuale è vissuto il rapporto con la religione. Il cammino che, muovendo dalla preadolescenza, attraversa la giovinezza è dunque anche lo stesso cammino mediante il quale una pratica diffusa, indotta da un mondo adulto spesso non molto coinvolto, si trasforma nell’esperienza di una minoranza e la religiosità di maggioranza può assestarsi, come è logico che avvenga.
    Vediamo dunque come si articola questo percorso che conduce dall’omogeneità apparente della religiosità dell’infanzia e della preadolescenza alla pluralità di forme che caratterizza la vita adulta.

    I PERCORSI DELLA RELIGIOSITÀ

    Ricerche recenti hanno messo in luce innanzitutto come il cambiamento che avviene nel passaggio dalla preadolescenza all’adolescenza non sia riconducibile ad una rappresentazione della religione come esperienza costrittiva, di cui è giocoforza liberarsi. Da questo punto di vista il cambiamento rispetto all’esperienza vissuta dalle generazioni più anziane appare molto netto. Quello che di negativo c’è nelle situazioni che i ragazzi sperimentano durante il periodo della loro iniziazione cristiana non sembra cioè più avere molto a che fare con un tipo di religiosità formalista e costringente, simile a quella che, di norma, avvertono di aver vissuto al loro tempo gli adulti e ancor più le persone anziane.
    Anche per questo le forme che assume la successiva presa di distanza non sono troppo radicali e non si manifestano spesso nella forma della rottura esplicita con la chiesa cattolica.
    Piuttosto il problema sembra stare nella troppo ricorrente associazione noia-religione, avvertita soprattutto durante i riti liturgici, e nella separazione del mondo della religione dalla sfera ludica, nonché da quelle spinte di carattere esplorativo e sperimentativo che appaiono decisive nella formazione dell’identità dei giovani.
    I preadolescenti sembrano riconoscere abbastanza agevolmente che la religione può aiutare a dare un indirizzo alla propria vita, ma percepiscono questo sostegno più sul piano del «dover essere» che su quello del «benessere»; sembrano condividere l’idea che i rapporti umani e quelli sociali sarebbero esposti ad una maggiore precarietà se essa non contribuisse a regolarli, ma sembrano separare questi discorsi dalla sfera della realizzazione personale.
    La religione in loro appare caratterizzarsi per una rappresentazione almeno parzialmente «depressa». Essa dunque, nei limiti in cui non interagisce che molto parzialmente con il gioco, il divertimento, le pulsioni caratteristiche dell’età, finisce per essere collocata in un ambito separato, anche nel senso di specializzato, quello della vita «seria».
    C’è da dubitare che il cambiamento su cui si sta ragionando sia solamente successivo alla preadolescenza. Ciò sarebbe in contrasto con i caratteri di questa fase della vita, per lo più descritta come un periodo di transizione segnato da trasformazioni molto evidenti, in quanto età di scoperta, di uscita dalla famiglia e di ingresso nel mondo sociale, di abbandono degli schemi culturali assimilati acriticamente, verso l’assunzione di modelli rinvenuti nell’ambito delle esperienze condotte con il mondo dei pari.
    Gli anni in cui i ragazzi e le ragazze frequentano le scuole medie sono in realtà di profondo cambiamento. La mancanza di problematicità con cui i preadolescenti si accostano al mondo della religione quando frequentano la prima classe delle medie sarà per molti un ricordo, quando, ormai raggiunta la terza classe, si apprestano a completare il percorso di iniziazione nel quale sono coinvolti. Già tra la prima e la seconda classe il cambiamento è avvertibile. Ancora di più lo sarà tra la seconda e la terza.
    Esso di solito non viene colto nella dovuta ampiezza dagli adulti che si occupano di loro. Ciò dipende dal fatto che il cambiamento è in parte occultato dall’effetto di miraggio introdotto dal permanere delle pratiche rituali osservabili e controllabili. Al catechismo si continua ad andare con la medesima assiduità. La frequenza alla messa festiva e la comunione abituale non subiscono cambiamenti rilevanti. Ma nel vissuto di molti, dove il controllo degli adulti non arriva, qualcosa sta cambiando. Lo si vede nella netta flessione dell’abitudine alla confessione e alla preghiera costante, nella crescita di motivazioni eteronome per frequentare la messa, nella perdita di interesse per il catechismo, nel diffondersi della noia per le occasioni religiose e ancor più nel rarefarsi del sentimento di vicinanza a Dio.
    In sostanza i comportamenti esteriori subiscono un’evoluzione lenta, quasi inavvertibile, mentre le dinamiche interiori sono sotto tensione. I «tiepidi», quelli che non si pongono interrogativi particolari, ma non esprimono nemmeno un distacco netto, e che preferiscono invece assumere una posizione di coinvolgimento moderato, di partecipazione relativa, di osservanza compiacente alle richieste degli adulti, sono ormai la maggioranza. Con i distinguo dovuti all’età, sono quelli che più si avvicinano al profilo di «religiosità di maggioranza»: cioè un atteggiamento diffuso che attribuisce alla religione il significato di scenario di ultima istanza; qualcosa che, come le strutture retrostanti l’azione teatrale, contribuisce a definire il significato di questa, senza però influenzarla direttamente.
    Dal punto di vista dell’esperienza religiosa il punto di arrivo appare abbastanza modesto. Dal punto di vista culturale è comunque qui che si struttura quell’identità sociale e culturale che porterà la grande maggioranza degli italiani adulti a riconoscersi in quanto cattolici, e ciò riveste un rilievo non trascurabile.

    Le differenze di genere

    Il quadro si manifesta articolato anche in rapporto al genere. La differenza tra i ragazzi e le ragazze appare davvero sorprendente. Di primo acchito, se si presta attenzione solo agli aspetti visibili, non appare così evidente. Le ragazze di un anno delle medie preso a caso, ad esempio, esprimono sempre un livello di pratica un po’ più alta dei maschi di quello stesso anno e, nel contempo, più o meno simile a quello dei ragazzi dell’anno precedente. In tutte le dimensioni, si tratti di coinvolgimento durante le cerimonie religiose, di interesse per il catechismo, di sentimento di vicinanza a Dio ed altro ancora, la differenza va sempre in un’unica direzione, evidenzia cioè una situazione di maggior coinvolgimento tra le ragazze.
    Ma è guardando più in profondità che la differenza diventa palpabile in tutta la sua portata. Raramente i maschi riescono ad articolare significativamente il discorso in materia di religione. La loro pare essere una rappresentazione povera, poco personale, in cui prevalgono gli aspetti esteriori, di osservanza rituale, di adattamento passivo; a differenza di una parte delle ragazze che, al contrario, sembrano trovarsi più a loro agio, si esprimono con maggior ricchezza, introducono elementi di riflessione personale, denotano un atteggiamento più attivo, rivelano più spesso una certa dimensione di relazionalità col sacro nel loro discorso religioso.
    Ci si può chiedere fino a che punto queste differenze collegate al genere siano permanenti, quanto siano invece dovute all’età. Negli anni successivi in effetti la differenza di genere risulterà maggiore anche sul piano della pratica esplicita, come si può vedere agevolmente nella tabella, e tale rimarrà nelle età della vita successive. Il ruolo della religione, nello strutturare l’identità dei ragazzi, sembrerebbe dunque significativamente maggiore per le ragazze che non per i ragazzi.

    Preadolescenti e religiosità familiare: una situazione di dissonanza cognitiva?

    Se si pone in relazione la pratica dei genitori con quella dei figli si trova, come appare ovvio, una relazione tra le due variabili. I figli dei praticanti sono in sostanza assai più spesso esposti alla socializzazione religiosa dei figli dei non praticanti, o dei saltuari.
    Tuttavia, nel contesto italiano, ciò che colpisce è l’alto numero di ragazzi, figli di persone estranee alla pratica, che denotano, nel periodo della seconda infanzia e poi della preadolescenza, una partecipazione elevata alla ritualità ordinaria e che conducono a termine completamente il percorso dell’iniziazione cristiana. Ciò è del resto implicito nel fatto che i livelli di pratica dei preadolescenti appare più che doppio di quello osservabile nell’età adulta.
    Una quota elevata dei preadolescenti si caratterizza dunque per il fatto di assumere modelli di comportamento socioreligioso che contrastano con quello di uno dei genitori o di entrambi. Questo fatto non si spiega se non secondariamente con l’esistenza di pressioni ambientali, la spinta omologante dei compagni, che inducono a richiedere la socializzazione religiosa, in un certo senso in contrasto con quanto i genitori desiderano. Al contrario, sono i genitori stessi che di solito orientano i loro figli verso l’ambiente parrocchiale e la pratica religiosa. Basti pensare che, da una indagine condotta in un ambito locale, emerge come il 40% circa dei figli di non praticanti viene invitato dai propri genitori alla preghiera.
    I ragazzi collocati in questi contesti familiari vengono dunque a trovarsi in una situazione che potrebbe essere descritta nei termini indicati dal concetto di dissonanza cognitiva, perché si trovano a ricevere messaggi che li inducono ad esporsi alla socializzazione religiosa, ma non notano comportamenti congruenti nei genitori e ciò, in alcuni casi, è fonte di disagio per il minore.
    Probabilmente però questo aspetto non va troppo enfatizzato. A definire una situazione di dissonanza di un certo rilievo infatti non concorre solamente la dimensione della pratica esplicita. I ragazzi stessi sono portati a non considerarla come decisiva per definire i caratteri della persona credente, e ciò tanto più spesso quanto più vivono una esperienza religiosa di qualche spessore. D’altra parte non sono pochi coloro che, pur vivendo in famiglie scarsamente praticanti, ciononostante si rappresentano i propri genitori come persone religiose. Mentre, al contrario, vi sono ragazzi i quali avvertono nella pratica dei loro genitori aspetti di ritualismo e di formalismo che finiscono per condizionarne negativamente la relazione con l’esperienza religiosa.
    In sostanza, le situazioni di dissonanza cognitiva in rapporto alla religione esistono e sono abbastanza diffuse, ma solo in una parte dei casi assumono il rilievo che si potrebbe supporre, soprattutto a causa del fatto che l’importanza della pratica nel definire l’identità religiosa è stata drasticamente ridimensionata nella cultura odierna.
    Piuttosto il richiamo a queste situazioni, largamente diffuse, induce ad un altro ordine di considerazioni che appare decisivo nel delineare il significato della religione per i ragazzi e le ragazze e la loro evoluzione tra preadolescenza e adolescenza.

    L’ambiguità nella comunicazione «religiosa» intergenerazionale

    In realtà ciò di cui veniamo a conoscenza attraverso gli studi sulla religiosità dei ragazzi e delle ragazze appare sempre di difficile interpretazione. Ad un primo e più superficiale livello di analisi i ragazzi e le ragazze sembrano infatti voler fornire un’immagine positiva della propria religiosità, quasi volessero rassicurare l’interlocutore. Basterebbe citare a questo proposito il numero straordinariamente elevato, se visto con occhi adulti, dei preadolescenti che non hanno difficoltà a dire di avvertire la presenza di Dio oppure la sua vicinanza, come amico o come padre, quasi mai come entità giudicante. Tali ricerche infatti si configurano anch’esse – e non possono non configurarsi – come un luogo di comunicazione tra le generazioni. È il mondo adulto che prende l’iniziativa di interrogarli, e ciò avviene in situazioni e attraverso strumenti definiti da quello stesso mondo, come del resto la gran parte delle situazioni che essi sperimentano.
    Si tratta di un mondo che essi possono vivere come non ostile, ma del quale sono abituati a tener conto perché, in definitiva, da esso dipendono, con una forza che non si darà più in nessun’altra età successiva. Ciò produce in loro atteggiamenti disparati, ma certamente improntati ad una fondamentale esigenza adattiva, che – si comprende facilmente – appare tanto maggiore quanto meno strutturata è la loro identità in senso evolutivo. Si può supporre dunque, con qualche ragione, che le risposte siano fortemente influenzate da questa collocazione particolare nelle età della vita, assai più di quanto non avvenga in altre ricerche condotte sulle età successive; che qualcosa nei messaggi inviati dai ragazzi e dalle ragazze rifletta in buona sostanza le aspettative degli adulti.
    Ora, come possono essere descritte queste aspettative? Ci sono sufficienti elementi per ritenere che i ragazzi e le ragazze ricevano dal mondo adulto, in modo assai più esteso e generalizzato di quanto farebbero ritenere i livelli di pratica di quest’ultimo, un messaggio essenziale: che è giusto, meritevole e doveroso per i ragazzi e le ragazze ricevere un’educazione religiosa ed atteggiarsi di conseguenza. Gli stessi genitori che appaiono scarsamente praticanti non si distinguono troppo, in questo, dagli altri.
    Tutti o quasi in fondo, anche se con intensità diverse, sembrano avere piacere che i propri figli frequentino la chiesa, si avvalgano dell’insegnamento della religione cattolica, vadano al catechismo, ricevano i sacramenti dell’iniziazione cristiana. E perciò inviano ai ragazzi e alle ragazze messaggi conseguenti.
    Ciò avviene per una ragione essenziale, perché si ha il sospetto e la preoccupazione che la semplice formazione offerta in famiglia non sia sufficiente a far crescere personalità in grado di reggere i molti pericoli che si suppone caratterizzino la vita di oggigiorno. La formazione offerta dalla Chiesa cattolica appare perciò come un valido aiuto al compito, sempre più complesso e dagli esiti sempre più incerti, di educare le nuove generazioni.
    Sapere che i propri figli frequentano la chiesa ha in definitiva un effetto tranquillizzante: il loro futuro appare in qualche misura sotto controllo. Ad un altro livello, vedere i propri figli frequentare la chiesa assume il significato di risolvere in loro i dubbi e le incertezze che attraversano le convinzioni religiose degli adulti.
    Nel contesto italiano del resto, così profondamente segnato dal permanere dell’identità cattolica, queste valutazioni sembrano largamente condivise, ben al di là di chi si trova a vivere l’esperienza di genitore di un fanciullo o di un preadolescente. È l’intera società italiana che sembra orientata a mantenere, almeno in parte, alla chiesa cattolica importanti funzioni di carattere etico ed educativo. Ai suoi terminali periferici – le parrocchie – si tende a riconoscere perciò il compito di costituirsi come una sorta di centri di educazione etica territoriale per le nuove generazioni, riconosciuti come tali da una buona parte della popolazione. Prova ne sia lo scarso sviluppo che ha avuto nel paese l’associazionismo educativo non confessionale e la quota elevata di ragazzi e ragazze che frequentano le parrocchie anche in aree fortemente caratterizzate in senso «laico».
    C’è dunque una generale connivenza del mondo adulto nel trasmettere ai ragazzi e alle ragazze un messaggio di quasi unanime orientamento verso la necessità, la doverosità, l’utilità della formazione religiosa, intesa però molto spesso non nei suoi significati intrinseci, ma come surrogato della formazione umana e morale.
    Come reagiscono allora i ragazzi e le ragazze? Nella maggioranza dei casi reagiscono ovviamente assecondando questa richiesta che, in modo oggi delicato, ma non per questo meno pressante, viene loro rivolta, tanto più che ad avanzarla con maggior determinazione sono proprio quegli «altri significanti» costituiti dai loro stessi genitori.
    Ma poiché essi non possono non vedere quanto frastagliata sia l’esperienza religiosa degli adulti, quanto variabili le loro convinzioni in materia di fede, tutto questo moltiplicarsi di messaggi a loro rivolti non può evitare di celarne un altro, e cioè che si tratta di una esperienza legata all’età, da cui si potrà, anzi in un certo senso si dovrà, prendere le distanze quando quell’età sarà passata. Se infatti si tratta di un attributo dell’età, esso dovrà essere abbandonato nei limiti in cui si vuole uscire dalla condizione di minorità.

    L’incomunicabilità dell’esperienza religiosa: il mondo dei pari

    Ma il contesto comunicativo in cui vivono i ragazzi e le ragazze non è costituito solo dai rapporti intergenerazionali. Essi vivono anche rapporti orizzontali con altri, che hanno la stessa età o qualche anno in più. La preadolescenza è anzi proprio la fase della vita in cui tali rapporti diventano per la prima volta realmente importanti, per taluni aspetti quelli più importanti. È attraverso di essi che si comincia sul serio ad esplorare lo spazio ignoto che si estende oltre il controllo operato dal mondo adulto.
    Questo nuovo contesto comunicativo, dal canto suo, appare affatto diverso da quello precedente. Esso non contempla quegli squilibri strutturali che segnano il primo. Le relazioni dovrebbero svilupparvisi con maggior fluidità.
    Ora, in esso la comunicazione dell’esperienza religiosa sembra del tutto assente: la religione appare come una sorta di scatola nera dell’universo discorsivo giovanile. Non sorprende che ciò sia così. Perché questo è lo spazio del gioco, dell’avventura, dell’esplorazione, della trasgressione, luoghi e spazi che con la religione, come si è detto, non sembrano avere nulla a che fare.
    L’assenza del discorso religioso nella comunicazione all’interno del gruppo dei pari potrebbe indurre ad affrettate considerazioni circa la sostanziale irrilevanza di tale dimensione nella vita dei ragazzi e delle ragazze. Ma questa conclusione sarebbe alquanto azzardata.
    Si può, al contrario, avanzare l’ipotesi che la sua assenza non debba essere intesa come espressione di un vuoto religioso di proporzioni così profonde, ma dipenda da altri fattori. La comunicazione tra ragazzi appare infatti anch’essa disturbata da aspettative deformanti, che nella sostanza inducono a ritenere nell’intimo quello che alcuni di questi, quantomeno, vivono. Sono gli aspetti di osservanza rituale che possono entrare nel dialogo interno al mondo dei pari, le tecniche di aggiramento con cui si cerca di evitare il loro carattere vincolato, le piccole solidarietà con cui ci si sforza di ammazzare il tempo in noiose occasioni, gli standard accettabili di comportamento per evitare di incorrere nelle ire familiari, le strategie di fuga o di osservanza passiva.
    Così l’esperienza religiosa entra nella comunicazione tra ragazzi e ragazze nelle sue forme meno attraenti e più gravose. E finisce per trasformarsi in stereotipi e poi a legittimarli come veridici. Le rappresentazioni positive e vivaci dell’esperienza religiosa che esistono e sono documentabili, ed anche di taluni aspetti della socializzazione ricevuta non vengono trasmesse, non entrano in circolo. Come non entrano nella comunicazione le esperienze intime della preghiera, della familiarità con il sacro, che pure ci sono e non sono sempre irrilevanti.
    Provare a comunicare queste esperienze nel gruppo dei pari è infatti rischioso, non è il luogo, non si danno i linguaggi, non corrisponde alle attese: chi provasse a farlo potrebbe facilmente essere considerato un po’ strano, un po’ «bigotto», ed in ogni caso immaturo, succube al mondo adulto.
    Il formidabile compito di crescere, di essere accettati dai ragazzi e dalle ragazze più grandi, di divenire come loro emancipati, il desiderio di sperimentarsi in nuovi spazi vitali ora finalmente praticabili, entra in cortocircuito con il messaggio celato nella comunicazione ambigua proveniente dal mondo degli adulti, rafforza e giustifica gli stereotipi, rende non comunicabile l’«intimità» religiosa.

    La privatizzazione dell’esperienza religiosa

    È possibile, a questo punto, tentare di descrivere il percorso che porterà i più a prendere le distanze dalla religione nell’età successiva. Crescere vuol dire, nel contesto discorsivo della cultura giovanile, ridurre la propria partecipazione alle pratiche rituali, e disinteressarsi, almeno apparentemente, della religione. Ciò appare una scelta in qualche misura interessante e possibile per numerosi motivi, perché si vede che anche gli adulti hanno modalità differenziate di intendere l’essere credenti ed alcune di queste non prevedono un forte coinvolgimento; perché, anche in virtù di ciò, si ritiene che essere credenti non implichi, se non secondariamente, l’osservanza rituale; perché la pressione ambientale proveniente dal mondo adulto flette, mentre aumenta quella espressa dal mondo dei pari; perché il carattere separato dell’esperienza religiosa finisce per rendere eccessivamente simili allo stereotipo del «bigotto» chi persiste a frequentare troppo spesso la chiesa; e perché, infine, quel che si doveva apprendere lo si è appreso e quello che viene proposto sembra essere troppo sotto il segno della noia e troppo lontano dalle spinte vitali dell’età.
    Ma la separazione è inizialmente dalla pratica, non dalla religione in quanto tale, o almeno così non è vissuta. La possibilità di ricorrere ad essa quando se ne ha bisogno permane o si suppone, o si spera, che rimanga.
    In una parola, l’esperienza religiosa si privatizza. Ma questa è evidentemente una strada che porterà molti a distacchi più marcati. Al di là di situazioni personali particolari la religione ha infatti bisogno di momenti pubblici collettivi per poter conservarsi in quanto esperienza di qualche rilievo.
    È per questo che nel determinare il peso che successivamente, passata la preadolescenza, assumerà il mondo della religione, riveste con ogni probabilità un ruolo rilevante il fatto che il minore permanga nell’orbita di qualche esperienza associativa o gruppo parrocchiale. Mentre cioè fino alla preadolescenza le differenze tra coloro che frequentano gruppi connotati per la dimensione religiosa e gli altri non sono così rilevanti, nel periodo successivo il fatto di rimanere agganciati ad una qualche esperienza associativa potrebbe influenzare in modo più netto il peso che la religione eserciterà nella vita adulta. Ricerche condotte in altri paesi hanno del resto dimostrato come la possibilità di accedere nuovamente all’esperienza religiosa sono influenzate direttamente dall’età nella quale si prendono le distanze da essa nel corso della giovinezza.

    RELIGIOSITÀ E IDENTITÀ PERSONALE

    Valutare l’influenza che l’esperienza religiosa e la socializzazione ricevuta in ambito religioso nella costruzione dell’identità appare, come si diceva all’inizio, piuttosto problematico. L’esperienza religiosa in quanto tale, qualora vissuta con un certo grado di intensità, di certo non può non assumere un rilievo notevole, ma si può sostenere che, a questi livelli, si tratti oggi di un’esperienza limitata a minoranze di preadolescenti e di giovani, soprattutto femmine.
    Dato il carattere pluralistico del contesto, la definizione in forme libere della propria collocazione rispetto alla religione è oggi, a differenza di un tempo, una delle opzioni aperte nella fase di transizione alla vita adulta. In quel periodo molti si avvedono che il proprio rapporto con la religione ha bisogno di essere ridefinito. Ma questa non pare avvertita come una questione decisiva ed urgente. Per lo più il lascito delle esperienze vissute nel mondo della religione viene dunque situato in zone periferiche della personalità e della memoria, e lì collocato in uno stato di moratoria a cui potrà essere sottratto quando successive esperienze della vita appariranno tali da rendere necessaria una sua riscoperta.
    La scelta religiosa, come molte altre del resto, tende inoltre a spostarsi in avanti nel tempo. Prova ne sia il fatto che assai raramente oggi orientamenti impegnativi, come quelli che portano alla vita consacrata, si manifestano già nel periodo della preadolescenza o anche della prima giovinezza.
    La riappropriazione dell’esperienza religiosa, quando avviene, sembra in ogni caso aver bisogno di una fase di distacco critico senza di cui la socializzazione religiosa, ancora troppo omologante, cui i ragazzi sono sottoposti, in contrasto evidente con il contesto pluralistico attuale, rischia di porsi come una sorta di nebbia pervasiva di aspetto troppo noto per destare interrogativi seri; un lascito che ormai appartiene alla definizione dell’identità culturale del soggetto cui piace definirsi cattolico, ma che ne influenza modestamente gli orientamenti e la personalità.
    La spinta generalizzata alla socializzazione religiosa cioè, se da un lato diffonde conoscenze ed esperienze relative allo spazio religioso, dall’altro, poiché appare scarsamente coerente con gli orientamenti prevalenti, rischia di limitare la possibilità di accesso all’esperienza religiosa nei suoi aspetti di novità e imprevedibilità; tale spinta delinea una situazione che consente di conoscerla come scelta possibile, ma nello stesso tempo la rende poco interessante in quanto almeno apparentemente già nota e perciò fin troppo scontata. Lo stesso analfabetismo in materia di conoscenze religiose, il disinteresse per uno studio serio dei testi fondamentali della religione prevalente, che molti attribuiscono ai giovani italiani, in contrasto evidente con una socializzazione così estesa, trova qui la sua spiegazione.
    Quanto la socializzazione religiosa contribuisca a trasmettere valori culturali condivisi, offrendo modelli di comportamento utili a rendere più agevole la regolazione sociale è altra questione, su cui risulta, tra l’altro, difficile trovare documentazione adeguata, dato anche il carattere generalizzato con cui viene impartita. Il fatto stesso che le famiglie non cessino di orientare i propri figli verso di essa lascia supporre che sia lungi dal non avere effetti rilevanti, e la funzione esercitata in questo senso della religione cattolica è senza dubbio di grande rilievo. Ma ciò dipende anche dalla povertà e dalla scarsa diffusione che in questo paese contraddistinguono le esperienze di socializzazione extrafamiliare non confessionali e dalla scarsa chiarezza con cui la scuola definisce i propri compiti educativi sul piano dell’etica pubblica e di quella privata.
    Il ruolo assegnato dalla società italiana alla socializzazione religiosa potrebbe rivelarsi in definitiva come notevolmente funzionale alle sue esigenze, ma il costo della funzione assegnatale potrebbe essere quello di rendere meno agevole, per i ragazzi e le ragazze, e non solo per essi, la prospettiva di sperimentare l’esperienza religiosa nella sua interezza.


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