Cesare Bissoli
(NPG 1998-08-20)
Uno degli ultimi numeri di Concilium (1997, 1), dedicato alla figura del Cristo, ha messo bene in risalto che nel famoso, cruciale «interrogatorio» di Gesù a Cesarea di Filippo (cf Mc 8,29), è proprio Gesù che stimola la soggettività dei suoi discepoli per accertare la propria identità, come se egli per realizzare pienamente la sua rivelazione dovesse necessariamente «intercettare» la reazione degli uditori, e d’altra parte come se costoro non potessero dire la piena verità di Gesù, la sua oggettività, senza far rimbalzare in se stessi gli esiti del prolungato contatto con Lui in un giudizio valutativo, di stima o di rifiuto. È l’ennesima prova, e tra le più alte, secondo cui la Parola di Dio giunge a noi, si fa nostra soltanto come reagita. La Bibbia è la codificazione dell’atto colloquiante di Dio e delle reazioni di intere generazioni. È in fondo la dimensione personale della fede che si evidenzia, in quanto il dono di Dio è offerta di amore a persone pensate e volute libere, consapevoli e determinate nel dire il proprio sì e il proprio no.
Tutti gli operatori pastorali ricordano questo?
Sono propenso a ritenere che una certa denuncia della soggettivizzazione della fede (e morale) in atto tra i giovani, soprattutto quando tale denuncia si fa enfatica, dimentica la necessaria presenza dell’io credente nella visione cristiana, immaginando piuttosto l’atto di fede come consenso uniforme ad un dato precostituito, il che può volere anche dire più facile controllo della coscienza credente. D’altra parte rimane vero che di soggettività si può esagerare, diventando inconsapevolmente fondatori di una nuova religione, o di un certo angoletto di essa, ad esempio l’area etica. Qui l’eccedenza soggettiva perviene, non a dialogare, ma a crearsi motivazioni e significati cui aderire.
In sintesi la questione non riguarda la presenza o meno di una soggettività nel credere (ci deve essere, e vigorosa, per essere cristiani), ma di quale tipo di soggettività si tratta, quale orientamento assume, per quali ragioni si produce, su quali motivazioni poggia.
IL FENOMENO
Segni dal vissuto
Parto da ricordi vissuti personalmente, piccoli, ma illuminanti.
* Si era durante un «campo pasquale» con un centinaio di adolescenti. Si fissò la veglia di preghiera attrezzata in un anfratto dentro un bosco. Ci furono ragazzi e ragazze che si prostrarono davanti al Santissimo per tutta la notte, suscitando l’ammirazione di noi educatori incapaci di fare altrettanto... Eppure la maggior parte di essi, potemmo constatarlo, sentiva insopportabili i 45 minuti della Messa domenicale, da cui erano assenti mesi od anni.
* «Mi vergogno da morire», sussurrava al di là della grata una voce di ragazza. Pensai a qualche fatto grave... «Ho preso (si noti, non ‘ho rubato’) un piccolo oggetto alla Standa»; o altre volte «ho detto una bugia al mio amico».
E magari sussisteva uno stato di guerra in famiglia, o uno scoperto rifiuto degli zingari e dei negri...
* «Per me l’inferno non esiste, punto e basta». Il verdetto del mio giovane amico era perentorio. Provai chiedere le ragioni. Risposta: «Non dice la Chiesa che Dio è buono e perdona tutti?».
* La processione della Madonna era in pieno svolgimento nel quartiere. Altoparlanti invitavano al rosario, la banda intonava canti mariani del tipo «Noi vogliam Dio...», clero in paramenti, cammino fluttuante: donne, bambini, uomini. E i giovani, preadolescenti, adolescenti e più in su? Non mancavano, soltanto che erano, quasi per una parola d’ordine, ai bordi della strada, forzatamente ridendo o indifferenti.
Erano forse attratti dallo «spettacolo», ma non era per loro.
Aree di esperienza cristiana
Se volessimo ampliare questi tre minuscoli flash di soggettività nelle tipiche aree dell’esperienza cristiana, potremmo trovare una certa distribuzione del tasso di soggettività in questo modo, alla luce delle svariate ricerche in proposito.[1]
– In posto eminente, se non il primo, va messa l’area etica, ossia riguardante il senso del bene e del male, del comandato e del proibito. La determinazione di senso e il conseguente grado di normatività non è più emanante dall’esterno, sia trascendente (legge di Dio) sia immanente collettivo (l’ethos comune, i fondamentali costituzionali...), ma dalla propria autonoma decisione collegata a parametri ben più limitati e assai meno cogenti.
È facile vedere come questa autonomia abbia largo spazio tra i giovani (e non giovani) nella sfera della morale sessuale o comunque su quanto tocca la persona nella sfera affettiva ed emotiva.
– Anche nell’area della celebrazione (messa, confessione, ritualità...) si avverte l’approccio soggettivo quanto allo stile e al linguaggio: si preferiscono esperienze che garantiscono coinvolgimento attivo ed emotività. Laddove, come nella confessione, si richiede il coraggio di un confronto aperto con un altro, si ripiega in un «mi confesso da solo davanti a Dio». È notorio che la pratica della comunione eucaristica è quasi del tutto indipendente da quella della confessione. Anche l’area della preghiera (e tantissimi giovani pregano!) è fortemente segnata dalla scelta spontanea di pensieri e di parole proprie.
Tra il canone eucaristico e un rap su Dio di Bon Jovi, vi è da star sicuri che molti adolescenti si trovano più a loro agio con il secondo.
– Nell’area più rigorosamente controllata del dogma, possiamo distinguere due livelli, nei confronti della fede da sapere (i contenuti della fede) e di ciò che la fede conferisce alla persona (il gusto o spiritualità della fede).
Quanto ai dati della fede da sapere, la soggettività si può manifestare come selettività di contenuto, ma soprattutto si manifesta come un impressionante pressappochismo di conoscenze e soprattutto di motivazioni profonde. Di certo la rilevanza canonica per la fede che spetta, ad esempio, al Catechismo dei giovani, non viene avvertita o accolta dai giovani. Un catechismo per loro, è stato detto, è in certo modo operazione fallita. Più facile la mediazione di itinerari accomodati alla propria condizione. In questa area così tartassata della cultura della fede, è facile l’irrompere di una soggettività aperta ad operazioni sincretistiche religiose o latamente spirituali.
Invece in relazione alla spiritualità apportata dalla fede, sgorgante dalla dignità di figlio di Dio, di nuova creatura, di membro del popolo suo..., titoli per sé eminentemente qualificanti la soggettività, questa può restare tanto attratta quanto muta perché probabilmente incapace di avvertirne l’incidenza esistenziale e quindi reagire di conseguenza. Sono parole vere, ma vuote, non riescono farsi esperienza, tradursi in significatività.
– Quanto all’area della appartenenza ecclesiale, sembra prevalere la scelta di marginalità per sé e per i propri coetanei, come per un principio di gelosa libertà. Appare una soggettività poco incline a lanciare e mantenere ponti con le generazioni adulte, tra cui le figure pastorali (il prete), salvo un criterio di scelta gratificante le proprie attese («è un amico», «mi capisce», «è moderno»). Questa selettività circonda marcatamente le espressioni di religiosità popolare (riti, processioni...) quando assumono il formato di massa indistinta, non invece quando gli stessi giovani sono protagonisti, come capita di vedere in questa o quella marcia della fede, o nelle Giornate mondiali della gioventù.
L’INTERPRETAZIONE
Di fronte agli elementi appurati, non mi pongo in termini negativi, perché vi sono anche elementi positivi o comunque suscettibili di una certa spiegazione, rivelatori di certe attese cui far fronte. È quanto intendiamo fare adesso.
Le ragioni soggiacenti
Intendo cogliere cause o condizioni o fattori influenti che, a mio parere (ma non è l’unico), determinano e orientano la soggettività giovanile credente.
* Certamente, come per tanti altri fenomeni, il venir meno della fede e la crisi della stessa ragione oggettiva, il fascino del pensiero debole circonfuso di un’etica della tenerezza, delle misure soft, aprono la via ad un «fai da te» della fede, ad un «rifare i conti» in casa propria, tanto più incoraggiati dal conformismo di massa. In verità la questione della soggettività non è solo giovanile.
* Non si può negare, su testimonianza dei giovani stessi, che l’universo cristiano di pensiero, di simboli e di pratiche appare loro lontano, estraneo, forse vero, ma non seducente. Ciò comporta due operazioni: l’essiccarsi di una fonte comune di significati e di motivazioni che hanno tenuto per generazioni e per contrappeso la ricerca e costruzione, insieme selettiva e sincretistica, di altri mondi vitali, dato che di significati e di motivazioni bisogna vivere.
* Tra le ragioni di tale nuova soggettività, estranea o difforme da una parte alla matrice cristiana e dall’altra avvalentisi di certi suoi elementi (si tratta per molti giovani di soggettività non contraria od ostile al cristianesimo), mi sembra di poterne enumerare tre:
– L’oscuramento della fatica del credere. Si è data spesso ai giovani l’impressione che la verità del Vangelo consistesse nella felicità pressoché immediata degli adepti, in una facile soluzione dei problemi del senso e della vita. Un cristianesimo come fruizione. È venuto meno il discorso della croce, parametro essenziale della retta soggettività del cristiano.
– Lo svanimento della responsabilità del credere. Si è data pure l’idea di un fede come un prefabbricato, un luogo bene attrezzato in cui adagiarsi secondo il principio implicito che l’obbedienza della fede sia l’accoglienza passiva, l’amen silenzioso. Ne è nata una figura di religione non responsoriale, anzi ir-responsabile, dove la risposta della soggettività non era ammessa, e dunque era fatalmente avviata per altre strade. Un cristianesimo come accettazione passiva.
– Lo svuotamento del linguaggio del credere. Frutto dei fattori precedenti, anche la comunicazione ne ha risentito in termini di ripetitività, di formalizzazione, di amministrazione (si dice ancora così!) del sacro. Un cristianesimo come operazione di rubriche. In effetti questo del linguaggio della fede sembra essere uno dei nodi anche esternamente più vistoso in cui si esprime la soggettività «altra» dei giovani.
Mi chiedo se risuona così spesso nella chiesa l’«interrogatorio» di Gesù a Cesarea di Filippo: «Voi chi dite che io sia?» (Mc 8,29).
Vi risuona, non come momento di spiegazione del testo nell’omelia, ma come fatto vitale nelle diverse stagioni della vita, stagioni che segnano le tappe di un camminare con Gesù per così lungo tempo e dunque suscettibili della domanda del Maestro?
Il mancato appuntamento della soggettività del discepolo con il Vangelo non corrisponde forse ad un mancato appuntamento del Vangelo con la soggettività del discepolo?
Ne è nata fatalmente la dis-sintonia e dunque un esito sfavorevole alla soggettività cristiana. Energie sciupate, più che perverse, mi sembrano i sentieri religiosi percorsi dai giovani. Ma anche un segno dei tempi da interpretare alla luce del vangelo. Occorre ritornare a Cesarea di Filippo.
UNA RICOMPRENSIONE PER UN RI-ORIENTAMENTO
Di nuovo a Cesarea di Filippo
«Gli uomini, chi dicono che io sia? E voi, chi dite che io sia?». La domanda di Gesù può riassumere bene la giusta prospettiva della soggettività credente.
– È soggettività necessaria, anzi inevitabile: «Voi, tu... che io sia?». Non vi è fede senza presa di posizione su di essa.
– Una soggettività non è eguale all’altra: gli uomini ne manifestano diverse tra loro («Giovanni il Battista, Elia, uno dei profeti») e diverse dai discepoli («Tu sei il Cristo»). È il segno certamente che la stessa realtà si può dire in maniera diversificata, nella profondità dell’intelligenza, nelle percezioni del cuore...
– E d’altra parte non ogni soggettività è accettabile così come è. Per Gesù le risposte della «gente» non possiedono la verità della risposta dei discepoli; vi sono dunque soggettività immature e più mature, ed infatti Gesù non smentisce la parziale verità delle risposte della gente, ma con l’ulteriore domanda l’apre all’affinamento, alla perfezione, qualità del resto non raggiunte nemmeno dallo stesso Pietro se leggiamo l’atteggiamento di «satana» che egli assume verso Gesù che intende portare a compimento la rivelazione della sua identità di Messia crocifisso e risorto (cf Mc 9, 31-33).
– Certamente Gesù sconfessa come assolutamente errata ed orribile quella soggettività, pur religiosa, che lo definisce ispirato da Beelzebul, principe dei demoni, ne snatura cioè l’identità, negando in lui la presenza, l’azione e la missione salvifica di Dio. È peccato irremissibile perché peccato contro lo Spirito (cf Mc 3, 22-30). È a suo modo monito potente dei limiti di ogni interpretazione personale del dato cristiano, ed anche criterio negativo di autenticità.
– Ed infatti anche la soggettività corretta, quella di Pietro, non proviene dalla «carne e sangue» (Mt 16, 17), ma è pura grazia del Padre. La soggettività cristiana retta non è frutto di intuizione umana, ma dono di Dio e come tale va coltivata, entro un quadro di riferimento a Dio, nel nome di Gesù e non senza vincolo con la confessione di fede di Pietro, della Chiesa.
Riqualificazione della proposta
Non ci stupisce la soggettività giovanile a riguardo della fede, ma ci impegna a rivitalizzarla (per diversi vi è la soggettività del... silenzio, della spina staccata), riorientarla, irrobustirla. Colgo tre fattori di crescita retta, che raduno nei termini di significatività, affettività, partecipazione.
– Significatività della proposta di fede vuol dire che l’esperienza credente ha di che fare con un messaggio, meglio con delle persone vive (Cristo e i suoi testimoni) che fanno della vita un esercizio di fede perché la fede è entrata nella vita, si è confrontata e ha detto parole che suonano come senso, verità, liberazione, consolazione, speranza ai sogni della vita di un giovane.
– Affettività della proposta di fede vuol dire che l’esperienza credente incontra messaggio e persone che toccano i gangli vitali del cuore, dell’essere accolto, ospitato, stimato, perdonato, reso capace di amare, e nella solitudine del dubbio, della paura, della morte accompagnato da uno straniero amico come ad Emmaus («Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino...?», Lc 24, 32). Poter incontrare nella Chiesa persone buone, prima ancora che muri decorati, idee rigorose, uffici efficienti: ecco una aspirazione espressa da tanti.
– Partecipazione alla proposta di fede significa neutralizzare la spinta a farsi la fede nel proprio privato per assenza di coinvolgimento attivo.
Comporta una «ispirazione catecumenale» dell’annuncio e di ogni altra esperienza cristiana, per cui il soggetto è posto nella condizione di rendersi conto di ciò che gli viene offerto, sa di essere responsabile di una scelta davanti ad un dono, avverte di essere in cammino con tanti, entro una strada segnata che gli consente l’ampiezza del passo, ma non una direzione di marcia diversa.
Dinamiche di crescita
La soggettività credente di una persona è la persona stessa colta nel momento alto della sua coscienza e libertà. Può capitare che essa sia falsata o disorientata, ma allora la via migliore non è di sopprimerla, ma di agire su coscienza e libertà per un esito migliore.
Con realismo, siamo d’accordo, come già nella vita di Gesù, che poco o tanto degli atteggiamenti attuali dei giovani verso la proposta evangelica sono inadeguati e non di rado errati. Si rendono necessarie una robusta correzione di rotta e una solida maturazione. All’educatore cristiano – altra qualifica migliore non c’è – è raccomandabile una dinamica di intervento strutturata su tre momenti: l’incontro, il confronto, l’invocazione.
– Fare della proposta di fede un incontro vuol dire, come già nel vangelo, mettere un giovane in relazione vitale non semplicemente con idee o riti o impegni cristiani, ma con persone vive che incarnano in sé quelle idee, riti ed impegni. In tale modo l’incontro stimola nel giovane la soggettività ad esserci, perché a lui la fede appare come soggettività esistente e convincente in persone concrete.
– Mettere la proposta di fede in condizione di confronto vuol dire collegarla a quell’insieme di fattori che permettono di vedere soggettività credenti diverse dalla propria, e spesso migliori. Questo stimola la soggettività personale a verificarsi e dunque a migliorarsi e correggersi. In questo ambito viene opportuna l’attenzione ad eminenti uomini biblici e postbiblici (figure significative di santi/e, testimoni cristiani/e), ed anche l’attenzione ai documenti di fede (Bibbia, Simboli, dottrina della Chiesa) che altro non sono che codificazioni della fede e prassi di credenti, di un popolo di credenti. Il titolo «Io credo – Noi crediamo» posto sul limitare del Catechismo della Chiesa Cattolica esprime bene nella condivisione e coedificazione la garanzia di sane soggettività cristiane.
– Infine la proposta di fede che va messa – è una esigenza intrinseca – in un contesto di preghiera, aiuta la persona a riconoscere radicata sempre nel mistero della grazia l’esperienza di fede che è pure frutto della propria decisione.
La soggettività credente accetta quindi di essere costantemente aperta all’invocazione, alla conversione, al dono, a costruirsi «nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo» (Ef 4, 13).
NOTA
[1] Tra le più recenti, ricordiamo la ricerca e studio amplissimi dell’Istituto di Teologia Pastorale dell’Università Salesiana, L’esperienza religiosa dei giovani, 4 voll, LDC, Leumann 1995-1997.