Riccardo Tonelli
(NPG 1997-09-5)
Il momento era davvero difficile. Il processo era una farsa impietosa: l’avevano condannato a morte, prima ancora di incominciare a giudicarlo.
Gesù era solo, contro tutti, colpevole di aver voluto bene alle persone e di aver contestato quei modi di fare, purtroppo tanto diffusi, che nel nome di Dio imponevano soprusi, ingiustizie, distruzione della dignità.
Cercava di difendersi. Non gli stava a cuore dimostrare che aveva ragione lui. Tentava, con le poche energie che ancora gli restavano, di liberare i suoi accusatori dalle trame di morte in cui erano avvolti.
Il sommo sacerdote vuole arrivare presto alla conclusione. Cerca di inchiodare Gesù con le sue stesse parole. Se davanti a tutti si dichiara figlio di Dio in persona... è fatta. Tutti possono udire la bestemmia. Gli ultimi dubbi svaniscono e la condanna a morte è la logica conseguenza, giusta e dovuta. La legge lo ordina. Nessun dubbio e nessun problema.
Lo interroga così sulle sue idee e sui suoi progetti.
Gesù non cade nella trappola. Risponde, con un fil di voce: «Perché mi chiedi queste cose? Io ho sempre parlato forte e chiaro. Tantissime persone mi hanno ascoltato. Chiedilo a loro. Ti possono riferire alla lettera le cose che ho detto. Chiedilo pure agli storpi che ho guarito. Interroga quei poveri lebbrosi che erano stati emarginati da casa propria e sono tornati guariti alle loro città. Prova a sentire il parere dei poveri e degli emarginati, che si sono trovati il cuore pieno di speranza. Prova a sentire...».
Deve interrompersi.
Uno della folla interviene, feroce come se si trattasse di bloccare sul nascere una manifestazione sediziosa. «Così rispondi al sommo sacerdote?». E gli lascia andare un ceffone durissimo. Il volto di Gesù, già pieno di ferite, ricomincia a sanguinare.
Terribile questo servo del sommo sacerdote: spera di far carriera e non bada a spese. Ha scoperto l’occasione propizia e si è gettato a capofitto, avido come un avvoltoio sulla preda.
Gesù lo guarda con decisione. Il suo occhio non è più spento, anche se dal volto tumefatto sgorga il sangue.
Tutti si fermano. Aspettano.
Qualcuno si ricorda di una battuta di Gesù, rimasta famosa. «Se uno ti percuote sulla guancia destra, porgili anche la sinistra». Erano abituati alla logica dell’occhio per occhio. L’invito di Gesù l’avvano notato tutti, strano e sconvolgente come non mai.
«Che cosa fa Gesù, adesso... vediamo se porge l’altra guancia, come aveva raccomandato. Questa è la prova del nove. Vediamo».
Gesù non porge per niente il suo corpo ad altri insulti e a nuove percosse. La sua voce torna ferma, sicura.
«Perché mi hai percosso? È un gesto ingiusto. Mi hanno accusato e mi difendo. Non hai nessun diritto di percuotermi».
Ancora una pausa. E adesso?
Gesù riprende la parola, con un’autorevolezza che assomiglia a quella dei tempi di una volta, quando le folle lo ascoltavano e pendevano dalle sue labbra.
Si rivolge al servo vigliacco. Ma parla a tutti. Lo avvertono tutti... con sicurezza.
«Pensi di esser più forte... perché percuoti un uomo, legato come un malfattore. Ti sbagli. Qui il più forte sono io. Ricordatelo bene, tu e i tuoi amici.
Se voglio, posso far scendere dal cielo una schiera di angeli. Sono pronti a liberarmi. Le cose cambierebbero immediatamente.
Capita così per i re di questo mondo. Sono re anch’io. Anch’io ho il mio esercito, pronto a battersi per me. Non è questa però la mia logica. Sono più forte io. Vuoi la prova? Ecco: perdono te e tutti i miei accusatori. Mi lascio condannare ingiustamente. Io ho deciso così. Non siete voi che mi mettete a morte. Lo voglio io. Questo dimostra chi è più forte».
Gesù non ha chiuso gli occhi di fronte al sopruso. Non l’ha mai fatto. Non lo poteva di certo fare ora, in punto di morte, quando ogni gesto e ogni parola cade come un macigno. Gesù perdona dopo aver denunciato il male e accusato il malfattore. Il suo perdono non è né rinuncia né incapacità. È atto fortissimo di denuncia e d’accusa. È un gesto solenne di libertà e d’amore.
Più tardi, lo trascinano sul Calvario e lo inchiodano alla croce. Sta morendo, sospeso su un legno tra due malfattori. Pensano di averlo vinto, distrutto. Avevano atteso con ansia questo momento. Finalmente l’avevano piegato, annullato. Potevano ricominciare con le loro scorrerie teologiche. Potevano tranquilli continuare ad infierire sulla povera gente nel nome di Dio.
Nessuno avrebbe più osato contestarli.
Una persona buona e gentile tenta l’ultima carta. Possibile che Dio non faccia nulla per il povero Gesù? Non ha meritato assolutamente questa morte infame.
Gli grida, rischiando il buon nome: «Non vogliamo ucciderti innocente. Se sei davvero figlio di Dio... faccelo sapere. C’è ancora tempo. Scendi dalla croce, con un gesto strepitoso. Dio farebbe così... Ti crederemo... tutti. Tu sei salvo e ci hai convinto. Scendi dalla croce».
Aveva un’idea ben precisa su Dio. Dio è più forte dei suoi nemici. Li distrugge. Se Gesù è figlio di Dio, deve dimostrarlo con la forza.
Lo pensava davvero. Lo pensavano tutti. Si ricordavano di Elia, il profeta la cui parola era come il tuono. Ha sfidato nel nome di Dio i sacerdoti di Baal. Li ha vinti, sgominati, avvolti nel fuoco che ha consumato tutto. Pensavano a Mosè, la mano potente di Dio. Si fa strada, dominando e vincendo.
Questo è Dio... Gesù... facci vedere chi è più forte.
Gesù risponde nel suo stile. Resta sulla croce. Allarga le sue braccia in un abbraccio che raccoglie tutti e tutti immerge nella vita e nella speranza.
Lui è il più forte, perché il Dio di Gesù dimostra di essere più forte dei suoi nemici, accogliendo e perdonando. Il suo abbraccio di pace è più potente del fuoco che divora, del turbine che avvolge, della spada che fa giustizia.
Gesù l’aveva predetto, cercando di dare la ragione della sua presenza nel mondo. Non l’avevano capito. Il suo modo di pensare era troppo diverso da quello comune, scandaloso per i benpensanti, giudei e greci che fossero.
Un giorno lontano, quando le cose sembravano andare tutte per il verso giusto e la gente gli batteva le mani e i suoi discepoli incominciavano a fare qualche progetto per il futuro, Gesù aveva raccontato una storia stranissima.
Il padrone di una vigna manda i suoi servi dai contadini per farsi dare quello che gli spettava, secondo i patti del tempo. Ma, quella volta, gli è andata male. I servi sono tornati a mani vuote e ammaccati. I contadini si sono ribellati. Non hanno consegnato nulla e hanno risposto con bastonate.
Il padrone si arrabbia. «Ci vuole una lezione memorabile. Così, davvero, le cose non possono andare». Chiede aiuto e organizza una spedizione punitiva armata. Anche i contadini si organizzano. Tendono un’imboscata ai soldati e distruggono quel piccolo esercito.
Questo è troppo... Il padrone chiede consiglio per progettare una punizione esemplare. Deve dimostrare chi è il più forte.
I suoi consiglieri si scatenano nell’inventare punizioni da manuale. Lui le scarta tutte; non le stima sufficienti. Possono lasciare qualche dubbio su chi sia il più forte.
Decide lui, da solo. «Mando mio figlio». «Sei pazzo... te lo uccidono subito e così è finito tutto. Loro diventano definitivamente i più forti».
Insiste il padrone, tra la meraviglia di tutti: «Ci provino. Non sono più forti loro se uccidono anche mio figlio. Sono io il più forte... perché mi fido di loro, nonostante tutto. La morte di mio figlio è l’inizio della vita nuova di tutti... persino dei suoi assassini».
Allora qualcuno aveva sorriso. «Poveretto... è un illuso. È il difetto di tutti i profeti. Peccato... per il resto è anche simpatico». Adesso qualcuno se lo ricorda. E lo sperimenta. La storia dei vignaioli omicidi risuona come un sibilo di vento, mentre il cielo s’infiamma del bagliore dei lampi e il velo del tempo si squarcia, dall’alto in basso.
Gesù, perdonando e morendo, è il più forte. Ha insegnato, una volta per sempre, come si fa a vincere, quando c’è di mezzo la vita e la speranza.
La lezione vale, anche oggi, per noi che abbiamo la nostalgia di battere tutti in una prova di forza, nel nome di Dio.