Fare proposte e prendere decisioni; aspetti della comunicazione nel gruppo
Francesco Cravero
(NPG 1989-07-58)
«Ogni discorso resta a mezzo,
ché l'uomo non riesce a concluderlo» (Qoèlet 1,8).
Fra il dire e il fare... stanno i «processi decisionali»: fare proposte e prendere decisioni. Il modo con cui suggerimenti e conclusioni vengono formulati e scambiati in un gruppo, la dice lunga sul gruppo stesso, sulla comunicazione interna ad esso, sulle patologie della comunicazione...
È questa area delle proposte, questo territorio delle decisioni che vorremmo, in qualche modo, esplorare.
«Mi passi il sale?»
Il viaggio parte da un presupposto: il modo con cui si formula il proprio dire è significativo. Le forme: «La mia proposta è questa, punto e basta!» e «Per il momento la mia proposta è questa, ma ho bisogno che mi aiutate a chiarirla», avranno pertanto un significato diverso, non verranno considerate equivalenti con il pretesto che «tanto è solo questione di modi di dire». Le intenzioni di chi pronuncia l'una o l'altra frase insomma, oltre a non essere accessibili, qui non sono pertinenti, non interessano; scommettiamo sulla forma, ci fidiamo delle parole.
Un esempio: le espressioni «Puoi ,passarmi il sale?» e «Saresti così gentile da passarmi il sale?», in base all'ottica in cui ci siamo posti, non si equivalgono. La seconda chiede all'interlocutore di pronunciarsi, a parole o con i fatti, sulla propria gentilezza, sul proprio essere; la prima si limita a sondare la possibilità dell'interlocutore di compiere una certa azione, tant'è che ad essa si può rispondere letteralmente con un: «Sì (sono in grado di passarti il sale)» e sentirsi replicare: «Visto che puoi, me lo passi? (Cafone!)». Nell'esplorazione seguiremo linearmente questo percorso:
- i fatti, ossia alcune espressioni tipiche dell'area che ci interessa;
- gli strumenti, per «leggere» le espressioni.
- l'interazione fatti/strumenti;
- il dialogo, spunti per una interazione educativa.
«Si potrebbe...»
- Prima situazione: il gruppetto degli amici che deve decidere come occupare il sabato sera.
In un simile contesto sono tipiche queste espressioni: «Cosa facciamo 'sta sera?»; «Andiamo a...»; «Cosa fanno gli altri?»; «Joe, John e Johnny vanno da...; andiamo anche noi?», ecc. (l'eccetera è un invito ad ampliare la lista, preparandosi in questo modo a verificare la portata del discorso e a «farsi delle idee» sulle proprie situazioni comunicative).
Rileviamo un primo dato: il discorso si snoda sull'asse/noi - loro/; ogni parlante, ogni «io» cioè, si appropria del «noi».
- Seconda situazione: a scuola.
Un insegnante dirà semplicemente alla classe: «Prendete il libro a pagina...»; o «Prendete il diario, al...; scrivete: compito in classe di ...», ecc.
Qualora intenda far partecipi gli studenti di un processo decisionale, porrà delle alternative: «Volete fare prima... o prima...?»; o chiederà: «Qualcuno ha delle proposte da fare?».
Nel primo caso, «il prof» si rivolge a un interlocutore collettivo da cui non riceverà una risposta particolare, ma un coro di assenso o di dissenso (magari per alzata di mano); nel secondo, selezionerà un solista dal «coro», proprio come per le interrogazioni.
La comunicazione si svolge dunque principalmente sull'asse/io - voi/; in alcuni casi si modifica in/io - tu/.
- Terza situazione: la verifica.
Le revisioni a volte, in un gruppo, procedono a suon di: «Noi non volevamo...»; «Voi ci avete fatto fare...», ecc.; o, sull'altro versante, con: «Ci sembra che voi non abbiate preso sul serio...», ecc.; più raramente nella variante: «Mi sembra che voi non vi siate impegnati molto...», ecc.; insomma, sull'asse/noi - voi/.
In altri casi, invece, le revisioni assumono un aspetto estremamente personale, quasi da confessione: «Io ho fatto... pensavo (io)... ma poi... sicché (io) mi sono detto... mi dispiace e vi chiedo scusa/l'ho fatto e lo rifarei!» e via dicendo, in una dinamica comunicativa che parte da «io» e si dirige forse più su se stessa che sugli altri (/io -io/ o /io - noi-voi/); mentre il primo caso tratteggiato, lo ricordiamo, era tutto un /noi - voi/ o, al massimo, un /io - voi/.
- Quarta situazione: i programmi.
Il passaggio dai sogni e dai progetti alle decisioni è spesso l'ambito in cui, ancora per ciò che riguarda il gruppo dell'animazione, la comunicazione si fa sintomatica.
«Si potrebbe...»; «Sarebbe bello...»; «Sarebbe opportuno...», ecc.; o, peggio, «Si voleva...»; «Si pensava...»; «Si era pensato di ...»; è raro che una proposta nasca con un «Io vorrei...» o un «Mi piacerebbe...», specie se il contesto comunicativo è un minimo strutturato, se prevede cioè ruoli, posizioni, eventuali conflitti. Le proposte sono di nessuno, non hanno padri.
Il «sì» impersonale deresponsabilizza il parlante (non sono «io» a fare questa proposta), i tempi verbali del passato sciolgono i legami fra «io» (presente e parlante) e la proposta: l'idea è di nessuno, è stata di nessuno.
La decisione finale, sancita da un «Allora siamo tutti d'accordo?», definisce il secondo polo della comunicazione: da /nessuno/a/tutti; manca la costituzione di un soggetto complesso: «noi».
- Quinta: provocazione.
«Ecco dunque, fratelli, la nostra proposta: scegliete fra voi sette uomini, stimati da tutti, pieni di Spirito Santo e di saggezza, e noi affideremo loro questo incarico... Questa proposta degli apostoli piacque all'assemblea. Allora...» (Atti 6,3-5).
«Abbiamo infatti deciso, lo Spirito Santo e noi, di...» (Atti 15,28). Notiamo solo, di sfuggita, una certa cura che i due stralci citati dimostrano nello specificare chi parla, a chi e «da dove» (in che posizione, in che relazione si pone cioè chi parla con l'interlocutore).
Questi fatti pongono degli interrogativi, quantomeno delle curiosità: chi ha la parola (in un gruppo, nella chiesa); come si prende-parola, e che valore ha questa parola; come si costruisce un «voi», chi ha diritto di dire «noi»; perché nei processi decisionali di un gruppo i parlanti «si cancellano», divenendo «tutti» e «nessuno»?
Che valenze e implicazioni educative ci sono, infine, dietro a questi apparentemente innocui «modi di dire»?
Non azzarderemo risposte (non ne abbiamo); proveremo però a «pensarci su».
«Da dove parli?»
Contenuto e relazione
Ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e uno di relazione, di modo che il secondo classifica il primo ed è quindi metacomunicazione (comunicazione sulla comunicazione).
Vediamo il caso di un calcolatore. Per comunicare con esso è necessario ricorrere a notizie e a comandi. Se per esempio un calcolatore deve moltiplicare due cifre, bisogna fornirgli questa informazione (le due cifre) e l'informazione su tale informazione: l'istruzione «moltiplicare».
Contenuto e relazione «lavorano», in una situazione comunicativa, in modo assai simile: il primo trasmette i datidella comunicazione, il secondo il modo con cui tale informazione deve essere assunta.
«Sto scherzando»; «Questa è una confidenza»; «Questo è un ordine»; «Questa è una promessa»; ecc. sono esempi dell'aspetto di relazione di una comunicazione; si tratta insomma di una specie di istruzione per l'uso: «Prendi queste mie parole come uno scherzo, come una promessa, come...».
Queste istruzioni per l'uso, oltre a definire il modo corretto con cui vanno assunti i contenuti, manifestano il modo con cui il parlante considera, concepisce, la sua relazione con l'interlocutore.
«Questo è un ordine» dirà dunque, congiuntamente al modo con cui considerare i dati della comunicazione, che la relazione fra parlante e interlocutore è di tipo gerarchico, e simili.
Detto altrimenti: ogni comunicazione implica un impegno e perciò definisce, qualifica, la relazione fra due soggetti di comunicazione.
Il più delle volte, infine, i due aspetti di contenuto e di relazione vengono trasmessi con codici diversi. La lingua la fa da padrona per ciò che riguarda i contenuti, mentre spesso la dimensione relazionale viene veicolata dall'intonazione, da gesti, dalla distanza fra interlocutori (codice prossemico), ecc.
(Si «rileggano» le situazioni precedenti, e/o le proprie, prestando attenzione ai due aspetti di contenuti e di relazione e ai codici impiegati per veicolare questi messaggi.)
I luoghi del discorso
«Dalla cattedra», «dal pulpito», «da uomo a uomo», «da boss», «da padre», «da amico», «da animatore», «da responsabile di un certo settore»... si parla da un luogo.
Coscienti o meno che se ne sia, soddisfatti o critici verso il proprio «posto», parliamo da un luogo; e a volte chi ci parla, più che dirci delle cose, ci conferma, ci dice cioè il luogo in cui siamo, osannandolo, accettandolo o contestandolo.
Parliamo da un luogo e spesso lo viviamo come ciò che autorizza il nostro discorso, come ciò che lo rende accettabile, degno di attenzione, veritiero.
Il luogo da cui parla (e da cui si ascolta) e il luogo da cui gli altri ci parlano, contribuiscono a definire la relazione comunicativa: non si dicono certe cose a un professore, né certe altre a un prete, né altre ad un padre, ecc., perché contesterebbero la locazione degli interlocutori.
Comunicare, allora, non è solo dire cose («cosa vuoi dire dicendo che...?»), ma darsi di relazioni: «Come mi vuoi, dicendo...?»; «Cosa vuoi da me, dicendo...?»; «Che luogo vai cercando?».
In ogni comunicazione, per dirla altrimenti, non ci sono solo osservazioni, dati, denotazioni; c'è una proposta, una domanda. I messaggi sono invocazioni di relazione che propongono la ricerca di un accordo circa le future regole di relazione.
Riassumiamo. In ogni messaggio si riscontrano dunque un aspetto di contenuto e uno di relazione. Il secondo classifica il primo e, indirettamente, manifesta (e/o costruisce) la relazione fra due soggetti.
Con una metafora di ordine spaziale, il luogo da cui si parla, abbiamo accennato al complesso rapporto fra messaggi, relazioni e «posti»: ruoli, immagini di sé, compiti comunicazionali...
Torniamo ora ai nostri modi di dire; vediamo che relazioni manifestano e in che luoghi si pongono.
Gli implicati, i latitanti e gli altri
Riprendiamo le espressioni propositive e decisionali che abbiamo già incontrato; a dei «modi di dire» abbiamo associato degli assi comunicazionali i cui poli non sono altro che il «luogo» da cui si parla.
Il rapporto fra poli-luoghi diversi è indicativo, dunque, di relazioni; queste paiono rientrare, grosso modo, in quattro classi o logiche.
- La logica degli schieramenti, quella del /noi - voi/, logica che prevede luoghi (e/o soggetti) fissi, più o meno in opposizione; potremmo indicarla con il «Siamo solo noi» della nota canzone.
- La logica della assunzione o della responsabilità:/io - io/, /io - tu/,/io -voi/; dove il soggetto assume il proprio luogo, se ne rende responsabile, da lì parla e contratta la sua posizione oltre che le sue idee. Musicalmente: «C'è chi dice no, io non ci sto».
- La logica del «Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale», della latitanza: è il caso del «si» impersonale, del /nessuno - tutti/. Il soggetto comunica da un luogo vuoto; rifiuta di ammettere che ciò che dice c'entra con lui, lo impegna, lo tira in ballo, lo mette in discussione e in relazione.
- La logica, infine, della inclusione (della comunione?); del «noi» che parla a «noi», del «noi» che si parla, che discute. (Per dirla con una canzone?)
Insomma, il luogo da cui si parla può essere abitato e contrattato (logica della assunzione); può essere bloccato (logica degli schieramenti: «io sono il mio posto, ho un posto, occupo un posto», con tutta la sicurezza e la rigidità che questo comporta); può essere negato (latitanza: «io non ho posto, parlo da un non-luogo; sono parlato ma io, io non ho detto niente»).
Un «noi» fatto di «io» negati non porterà ad alcun «noi»; un composto da «io» bloccati, conduce allo scontro o nega il «farsi» del dialogo. Solo un «noi» di «io» abitati può costruire il «noi» della logica della comunione.
È chiaro che la quadripartizione proposta non esaurisce i fatti, la realtà; da essa, però, possiamo trarre ancora alcune indicazioni.
La logica degli schieramenti e quella della latitanza sembrano avere un che di pato-logico; sono delle logiche chiuse, ripetitive, bloccate, assenti. Per «aprirle» non è sufficiente un intervento sui contenuti, bisogna lavorare sulle relazioni, sull'aspetto relazionale dei messaggi.
Da un posto all'altro
Quando in un gruppo vige la logica della latitanza (non è il caso di essere drastici; può trattarsi anche solo di alcuni casi o di alcuni ambiti della vita del gruppo) si è di fronte a soggetti che non riescono o non vogliono assumere il proprio «posto», oppure a dei «posti» non adatti alla situazione.
Se si esclude ad esempio che in un gruppo le decisioni vengano prese secondo «democrazia formale», e si esclude pure un criterio basato su una netta gerarchia di ruoli-responsabilità (entrambe le opzioni prevedono una chiara e precisa distribuzione di luoghi), rimane da chiedersi come effettivamente vengano prese, da dove. Non è semplice rispondere con precisione, ma la questione non si cancella con un «si era pensato di...».
Se è la logica degli schieramenti invece a regnare («noi/voi», «i grandi/i piccoli», ecc.), bisogna supporre che nella comunicazione non passi mai, o poco, un aspetto di relazione del tipo: «il luogo da cui tu parli mi interessa, ha un peso».
Per parlare bisogna avere un posto, il che non esclude che lo si possa guadagnare proprio parlando, e per comunicare bisogna anche saper far posto, parlando.
Non basta poi che la parola dell'altro sia importante per me, bisogna che lui lo sappia, che io glielo comunichi, che la relazione lo trasmetta.