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    Dalla «politica nello sport» alla «politica per lo sport»



    Vittorio Peri

    (NPG 1975-02-24)

    Nell'articolo precedente (1974 /11) è stato presentato un modello di società sportiva rispondente a una fondamentale esigenza dei giovani, anche se il più delle volte inconscia: vivere l'esperienza sportiva come gioioso momento di maturazione umana.
    Si è parlato perciò di una società sportiva libera, autogestita, aperta a tutti. Partendo però dalla costatazione che gruppi sportivi del tipo descritto, tali cioè da potersi classificare «primari», sono molto pochi, taluni affermano che è utopico pretendere quei connotati in una società sportiva. A noi, invece, sembra che è ancora troppo poco.
    La contrapposizione è radicata in due diverse concezioni di vita:
    • quella statica, per cui le leggi e i comportamenti si modellano sulla realtà passata e presente (il reale coinciderebbe con la realtà) e ciò che esiste non può non essere così perché è sempre stato così, è anzi bene che sia così ed è impossibile che non sia così;
    • e quella dinamica che, giudicando i fatti come tappe provvisorie di una evoluzione permanente, spinge a guardare il futuro e rende impazienti a realizzarlo, perché le cose non accadono fatalmente, ma bisogna farle accadere. Sulla base di questa seconda «cosmologia» – e dando per scontata la necessità di tendere verso una ricca vita comunitaria all'interno del gruppo sportivo (era il tema dell'articolo precedente) – la riflessione presente vorrebbe spingere gli animatori delle società sportive giovanili a fare un altro passo in avanti: ad assumere cioè un preciso impegno politico nell'area sociale in cui operano.

    SI FA POLITICA ANCHE A NON FARLA

    Ha scritto Arturo Paoli che «oggi il tempo ci mette davanti a due grandi rischi del vangelo: quello di consumarsi in una ideologia politica e in un progetto di liberazione provvisorio, e quello, non meno grave, di vanificarsi in un progetto di relazione con Dio e con il trascendente che lascia libero quasi tutto lo spazio dell'impegno umano. E questo spazio può essere riempito di tutte le incoerenze».
    Concretamente, per i soci di un gruppo sportivo che vogliano dare una testimonianza cristiana queste parole impegnano non solo a trasformare il gruppo da collettività in cui i giovani stanno insieme, in comunità in cui vivono insieme la stessa esperienza, ma anche ad assumere il compito di elaborare una coscienza politica per un'azione politica.
    Se «politico» è tutto ciò che è implicito nel termine società, e non solo nella relazione formale dei cittadini con lo stato, la coscienza politica è la convinzione che tutte le azioni – e le omissioni! – hanno una dimensione sociale. Esse infatti si pongono o come cemento per consolidare lo status quo o come dinamite per demolirlo.
    Tutto ha una dimensione politica. I presunti apoliticismi sono sufficientemente identificabili come azione politica. L'apoliticismo dei disimpegnati, lasciando proseguire indisturbato nella società il gioco delle «potestà e dominazioni» della demonologia sociale, esercita una importante funzione politica.

    LA COSCIENZA SENSIBILIZZATA DIVENTA SENSIBILIZZATRICE

    Politicizzare la coscienza non significa minacciarla nella sua sfera individuale, ma renderla consapevole del suo impegno storico. Politicizzare la vita di una società sportiva non significa aggiungere elementi estranei o di disturbo nella ragnatela dei rapporti interpersonali dei soci o nella specifica attività agonistica; vuol dire sviluppare in loro la responsabilità sul presente e sul futuro della società in cui vivono e sollecitare la loro partecipazione per risolverne i problemi.
    Qui nasce l'azione politica vera e propria.
    Premesso che per definirla è necessario superare, senza escluderla, la stretta visione di «politica di partito», bisogna convincersi che la testimonianza cristiana di un gruppo o l'azione pastorale di un animatore sportivo debbono avere un versante di attività politica se non vogliono lasciare il vangelo fuori della storia.
    Certamente, gli sportivi hanno mille ragioni per lamentarsi dei politici i quali: a) hanno approvato una carta costituzionale che ignora il «diritto allo sport»; b) hanno approvato l'art. 91 della legge comunale la quale esclude dalle spese obbligatorie quelle per la costruzione e la gestione degli impianti sportivi di esercizio; c) quando si sono interessati di sport hanno quasi sempre fatto «politica nello sport».
    C'è però da ricordare che essi, sempre arroccati nell'olimpo della mistica decoubertiniana, hanno colpe non minori. Gelosi dell'orticello agonistico che produceva campioni, spettacoli e notorietà, per decenni l'hanno circondato di steccati («lo sport agli sportivi») per proteggerlo dalle ingerenze dei «non addetti». Sono così restati, con i loro problemi, ai margini della vita culturale e politica.
    E tempo ormai di uscire dal ghetto e di impegnarsi in una decisa presenza politica che in questo contesto sportivo si concreta nella lotta per uno sport in cui i giovani possano divertirsi e confrontarsi agonisticamente, in piena libertà; per una esperienza sportiva che diventi esperienza culturale.
    Vengono qui di seguito indicati degli impegni concreti in una successione logica che non necessariamente deve essere anche cronologica. Anzi, dovrebbe non esserlo affatto perché l'animazione culturale che intendono raggiungere diventa efficace nella misura in cui avvera i progetti che propone.

    Re-definire lo sport per ri-crearlo

    In primo luogo sembra necessaria una riflessione per comprendere il senso vero dello sport (l'«eccedenza» del significato umano che contiene, al di là della facciata tecnica e spettacolare) e i modi concreti della sua attuazione per giungere a un nuovo progetto di cultura e di prassi sportive in cui l'uomo-atleta diventi ciò che realmente è per natura: protagonista responsabile della sua vita.
    Si tratta di prendere coscienza, insieme, che il sistema sportivo attuale non è l'unico possibile, che la struttura campionistica vigente non è immutabile. È storicamente realizzata dall'uomo, e quindi da lui trasformabile (Cfr. Uno sport senza agonismo o uno sport senza campionati?, 1974 /1).
    Ri-pensare un valore vuol dire spesso ri-crearne i modi di viverlo.
    Un secondo impegno è di inventare le occasioni per coscientizzare la gente del quartiere, a cominciare dalle famiglie dei ragazzi-soci della società sportiva, sulle possibilità educative dello sport, sui danni che la sua mancanza provoca sulla crescita fisica e sullo sviluppo psichico, morale e sociale dei giovani, sul diritto di tutti alla pratica sportiva.

    Per uno spazio fisico di libero movimento

    A fianco di quest'opera animatrice, perché sia incisiva e concreta, deve esserci quella di ricercare, nell'ambiente geografico in cui si vive, aree idonee per i servizi sportivi di pubblico esercizio e di richiedere alle competenti amministrazioni che esse vengano sottratte all'invasione del cemento.
    Lo statuto del Centro Sportivo Italiano, ad esempio, assegna alle proprie società sportive questa «missione» come una delle principali. «Sono compiti ordinari della società sportiva la proposta costante dello sport ai giovani (...) l'impegno affinché nell'area sociale in cui opera vengano istituiti servizi stabili per la pratica e l'assistenza dell'attività sportiva» (Art. 4).
    E importante non arrendersi di fronte ai primi prevedibili muri di gomma. Anche se, per ora, non votano, i giovani possono esercitare sulla pubblica opinione e sui politici una notevole pressione psicologica.

    Diventare coscienza critica per i politici

    Bisogna inoltre – ed è il quarto momento – innescare un processo permanente di critica (attraverso pubblici dibattiti, giornali, manifesti, nei consigli di quartiere, nelle commissioni comunali, provinciali e regionali, ecc.) verso quelle pubbliche amministrazioni che ignorano l'elementare diritto di tutti allo sport finanziando con i soldi della comunità la solita squadra di calcio, spendendo milioni per costruire o ampliare stadi nei quali la gente entra, pagando, per mettersi a sedere sulle gradinate, e che lasciano così centinaia di ragazzi a rischiare la pelle nelle strade.
    Se lo sport è un vero servizio sociale, il dovere di costruire i relativi impianti spetta non alle singole società sportive ma a tutta la comunità.

    «Il servizio sportivo sociale ha il suo punto dì partenza e di arrivo nel gruppo sportivo di base (oltre che nell'esercizio sportivo individuale) che vive in un quartiere o in un paese e quindi fa capo ad un Comune.
    Il Comune è l'unità di base del servizio sportivo sociale. Esso realizza e gestisce le strutture sportive comunitarie in permanente collaborazione con tutte le forze sportive interessate (comitato comunale per lo sport). La Regione ha il compito di creare (senza gestire in proprio) i servizi sportivo-sociali dei Comuni. In questa sua funzione, analogamente al Comune, la Regione opera mediante un consiglio (o comitato) sportivo regionale composto da tutte le forze pubbliche e di libero associazionismo. Lo Stato, a livello nazionale, ha il compito di indirizzare, incentivare e coordinare tutte le iniziative per lo sviluppo dello sport servizio sociale in applicazione del Programma di sviluppo economico» (Cfr. Stadium, 5 giugno 1971, p. 20).

    ... e per gli stessi sportivi

    E infine necessario portare questi fermenti critici nell'ambiente specifico dello sport, nei confronti delle «grandi» società e -- in particolare –delle federazioni perché lo sport selettivo che propongono e attuano non favorisce, anzi blocca, la maturazione psico-affettiva dei giovani atleti. Per la loro stessa natura di organizzazioni per le quali il futuro è la continuazione, e quindi la conservazione, del presente, esse non possono che legittimare l'attuale cultura sportiva e ostacolare i tentativi di cambiarla. Ogni legame strutturale (non certo dialettico!) dei singoli o dei gruppi con questo sistema che professa ammirazione feticistica verso i produttori dello spettacolo ludico, che eleva i valori di efficienza tecnica a criterio unico di giudizio della persona e sottopone l'atleta alle leggi del mercato come un qualsiasi prodotto commerciale, costituisce connivenza.
    E comunque illusorio, per un animatore, voler attuare uno sport «diverso» (o meglio, voler fare «diverso» lo sport) restando inseriti, sia pure attraverso la partecipazione ai tradizionali campionati, in organizzazioni che si servono dell'uomo anche quando sembrano rispettarlo... con lo stesso rispetto che si ha per uno strumento utile.
    Nessun messaggio è vero, come ci insegna anche la Bibbia, se non «fa verità» nella prassi.

    Abbiamo in programma di continuare a riflettere sui problemi relativi all'animazione pastorale dello sport. Per fare un discorso concreto, l'esperienza dei lettori è fondamentale. Attendiamo perciò proposte, suggerimenti, problematiche e realizzazioni.


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