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    Le mete di un concreto processo di educazione alla fede



    Riccardo Tonelli

    (NPG 1974-7/8-70)

    La «scuola di fede» è tempo di concretezza pastorale. Sia che diventi scelta prioritaria nella vita di un gruppo ecclesiale, o solo momento di confronto, non può, evidentemente, restare a livello dei programmi retorici.
    Per dare una mano all'operatore pastorale, cui compete in definitiva il peso della concretezza, abbiamo inserito in questa monografia il discorso delle «mete». Sono i parametri di ogni intervento, il dato di verifica della sua opportunità e lo stimolo della sua urgenza.
    È facile notare come il riferimento offerto da queste pagine può essere applicato a tutto il quadro della pastorale giovanile. Il fatto non stupisce. Se è vero che la «scuola di fede» è un tempo privilegiato di pastorale giovanile: non un'alternativa ma una sua concentrazione.

    Perché un discorso sulle mete

    Quando ci si mette in cammino, bisogna sapere con sufficiente chiarezza dove si vuole arrivare. Non è possibile avanzare a casaccio.
    L'educazione alla fede richiede lo sforzo di tradurre le proposte in mete precise, articolate, concrete. Sulla misura delle mete il discorso pastorale si fa operativo. Nel confronto con esse, nascono le scelte prioritarie, si elaborano gli strumenti, affiora la metodologia spicciola.
    Ci sono però due tentazioni da evitare.
    - È abbastanza facile mirare troppo in avanti, riducendo la riflessione sulle mete ad un rincorrersi vuoto di parole. C'è una meta ultima, definitiva e ci sono mete intermedie. Bisogna conservare una saggia gerarchia di posizioni. La meta ultima è l'educazione dei giovani alla fede. Su questo non ci sono dubbi.
    Una prospettiva del genere trova consenzienti tutti: coloro che tagliano i ponti con il passato e coloro che lo riproducono passivamente. Le stesse formule esprimono contenuti molto diversi. Per evitare gli equivoci, è necessario usare parole meno generiche. E così si parla di «integrazione tra fede e vita», utilizzando terminologie che hanno ormai uno spessore ben preciso. Ma non è ancora terminata la fatica pastorale. Questa meta «ultima» va smembrata in mete «intermedie», che la intonino ai dinamismi di crescita della «fede» e della «vita». Solo a questo livello il discorso sulle mete è concreto.
    - Il secondo rischio è quello della retoricità. Si ragiona sulle mete e si inventano gli interventi relativi, «dimenticandosi» di come di fatto vadano le cose. Ogni discorso, per essere operativo, deve farsi «storico»: deve cioè ritradurre la verità oggettiva sul taglio delle cose e persone concrete con cui si dialoga.
    Oggi alla pastorale giovanile non mancano i problemi seri: il contesto culturale attuale gliene rilancia molti. Il discorso delle mete deve tenerne preciso conto. Per storicizzarle in una radicale fedeltà a Dio e all'uomo. E, soprattutto, per «inventare» quei metodi pastorali adeguati a raggiungere, nel concreto di ogni situazione, l'obiettivo prefissato.
    A queste due esigenze, tenta una risposta il nostro studio.

    LE METE IN UNA PASTORALE A TRE DIMENSIONI

    Per evitare lacune o doppioni ci piace spesso parlare di una «pastorale a tre dimensioni».
    Il RdC afferma, perentoriamente, che «principio fondamentale che ispira il coordinamento pastorale è la unità interiore della persona» (159). La pastorale dovrà quindi ritrovare un movimento che le permetta contemporaneamente di servire la persona, per quello che essa di fatto è, e, inserendosi nei canali normali di sviluppo, individuare la strada di una più facile e costante integrazione.
    La vita cristiana può essere ordinatamente distinta in tre sistemi che chiamiamo: vita teologale (fede, speranza, carità), vita liturgica (collaborazioni varie a Dio), vita ecclesiale (relazioni di comunione). Essa vita cristiana è il corrispettivo dello sviluppo giovanile, le cui mete immanenti sono di mentalità (visione del mondo e dominio del mondo istintuale e impulsivo), di trasformazione del cosmo (lavoro, tempo libero, creatività, sesso), di relazione d'amore (amore, amicizia, solidarietà, senso sociale).
    È evidente che si potrebbero fare altre sintesi. Questa che prospettiamo ha il pregio di essere concreta e «tradizionale»: si è sempre parlato, nella prassi ecclesiale, di pastorale catechistica (della «parola»), liturgica (della «azione») e comunitaria (della «comunità»).
    Su questa falsariga intoniamo anche la riflessione sulle mete.

    Prima meta:
    Elaborare un progetto di sé con Dio dentro

    Esigenze

    Questa meta abbraccia il settore pastorale relativo alla costruzione di una «mentalità di fede»: riguarda, dal lato naturale, la formazione di una mentalità e, dal lato soprannaturale, la cura che questa mentalità sia una mentalità di fede.
    Il raggiungimento della meta richiede quindi una doppia fatica educativa:

    - Il giovane è bombardato quotidianamente da mille proposte:
    la scuola mette in circolazione contenuti culturali, i mass-media sono una continua proposta di «valori», i discorsi che corrono tra gli amici hanno come fondo comune un modo di gestire la vita, quindi una cultura, il clima che si respira, la spirale della violenza e della sopraffazione sono, prima di tutto, una definizione sull'uomo... Molto spesso il processo non è a carte scoperte. Si parla, apparentemente, di cose e non di «definizioni». Ma basta un pizzico di fiuto educativo per scoprire che neppure una saponetta è lanciata sul mercato pubblicitario, senza il supporto di un progetto d'uomo che la spinga...
    Non è possibile raggiungere un equilibrio culturale se non «articolando» le varie proposte, nella costruzione di una mentalità in cui riconoscersi. La disarticolazione è già una determinata sintesi: colui che fa spazio a proposte contraddittorie «sceglie» un progetto di sé qualunquista e esasperatamente pluralista. Sceglie quindi il disimpegno e la disintegrazione interiore.
    È quindi importante che tutti gli insegnamenti, scientifici tecnici umanistici, tutte le esperienze di vita, la revisione personale delle proposte correnti, convergano nel formarsi di una mentalità centrale (cultura, visione del mondo, coscienza e filosofia della vita). Se l'educatore non se ne preoccupa, il giovane fa sua la mentalità che trova per strada; e, forse, con una assunzione più emotiva che motivata.

    - La fede è come l'«anima» di questo corpo umano che è la mentalità elaborata.
    Essa deve proporsi come il lievito che incarnandosi nella mentalità del giovane, dà al progetto di sé un significato rinnovato, globale e totalizzante. Non è, questa proposta di fede, un discorso «altro» rispetto al progetto di sé, ma la «verità» (così vera e piena che è raggiunta per dono) del progetto di sé. Ci si arriva, però, solo quando la presentazione dei misteri cristiani è davvero «anima che cerca il suo corpo», lievito per la pasta naturale e quando l'elaborazione del progetto di sé è «aperta» a questo dono. La rottura e disintegrazione scattano sicuramente se la proposta di fede non morde nel concreto della cultura del giovane oppure se la cultura del giovane è così disarticolata o tanto chiusa in prospettive immanenti, da non fare spazio serio ad una verità trascendente.

    Problemi oggi

    Una grossa difficoltà all'integrazione tra fede e vita nella elaborazione di un progetto di sé, viene, al giovane d'oggi, dalla conflittualità di cui soffre il rapporto tra identità e rilevanza.
    Ci spieghiamo, perché è un discorso importante.
    Abbiamo indicato la fede come il «principio» chiamato a dare un significato nuovo, globale, alla mentalità «umana». In altre parole, potremmo dire che l'identità specifica del cristiano si pone come la radicale novità dell'identità personale di ogni giovane.
    L'integrazione tra identità umana e identità cristiana, tra fede e vita, avviene con una certa facilità se «fede» e «vita» sono apposto, se presentano cioè la loro «faccia» più vera. Quasi come il rendez-vous di due stadi di un'astronave: è possibile solo se l'impatto avviene sul lato predisposto.
    Purtroppo molto spesso il rendez-vous tra fede e vita è complicato e difficile, perché le due «componenti» hanno i loro problemi interni e si presentano all'appuntamento in forma distorta.
    La crisi non è solo sul lato umano, trascinato a soluzioni chiuse e immanenti, che se bloccano ogni apertura al trascendente: o nell'ideologia marxista, o in un freddo pessimismo, o nel qualunquismo edonista... La crisi è spesso anche dalla parte della fede, dello specifico nell'identità cristiana, proprio sotto la pressione dell'assenza di «rilevanza» di cui oggi soffre il cristiano. Egli sente di non avere peso sociale: è un «osso fuori posto» nella cultura dominante (sia in quella consumista che in quella «alternativa»). Per ritrovare spazio di credibilità diventa spontaneo o arroccarsi o svuotarsi, assumendo quei toni che riscuotono più approvazione sociale. E così si giunge all'integrismo, da un verso; o al qualunquismo cristiano, dall'altro. In ambedue i casi la fede non presenta la «faccia» giusta per l'integrazione con la vita. Il fossato si approfondisce, fino a raggiungere lo scollamento radicale.

    Prospettive

    Tenendo conto della difficoltà ricordata, tentiamo di indicare alcune linee concrete di intervento che possono facilitare il raggiungimento della meta.

    - «Predisporre la pasta, perché riceva il lievito» (RdC 52)
    Il primo spazio su cui intervenire riguarda quello che abbiamo chiamato «lato umano» della creazione di un progetto di sé. Non vogliamo addentrarci in questo discorso, perché ci porterebbe lontano. Ci basta sottolinearne l'esigenza, anche per mettere in stato di verifica tanti educatori che troppo facilmente lo sottovalutano, preoccupati solo dall'aspetto specifico dell'educazione alla fede. Le energie spese in questo settore, per raggiungere una dimensione organica, articolata e soprattutto «aperta» del progetto di sé, sono insostituibili, pregiudiziali, anche per l'educazione alla fede.[1]

    - Cura del processo motivazionale
    Quando RdC ci dice che i contenuti della fede devono diventare «motivo e criterio per tutte le valutazioni della vita» (52), ci ricorda che il «luogo» dei contenuti della fede è il sistema motivazionale, in modo tale che entrino in campo quando le sfide della vita costringono a dare una risposta e quindi sorge il bisogno di motivazione. Il sistema motivazionale è l'unico campo in cui può intervenire l'educatore della fede, se non vuole creare personalità disintegrate. Le stimolazioni esterne non dipendono da lui: non può mettere il giovane in una campana di vetro, per immunizzarlo: il primo contatto naturale porterà la morte.
    E neppure può influire direttamente sulle sue «risposte»: modi di fare, anche qualitativamente cristiani, che non affondino le radici in motivazioni cristiane, sono manifestazioni di uno stato pericoloso di disintegrazione tra fede e vita. Invece di accontentare, chi troppo facilmente si accontenta della facciata esterna, dovrebbero preoccupare...
    Forse, su questo campo, c'è ancora molta strada da fare.
    Intervenire sul sistema motivazionale[2] significa:
    * guidare a non compiere alcun gesto in prospettive deterministiche (S-R), saltando cioè il confronto con il sistema motivazionale;
    * guidare a verificare sempre il proprio sistema motivazionale, alla ricerca di un'autenticità vera, a misura d'uomo;
    * proporre, dopo i due momenti precedenti, i contenuti della fede come modo nuovo (tanto umanamente qualificato da essere degno di un figlio di Dio!) di vedere e di vivere la realtà. Per fare ciò, bisogna:
    1. quanto alla memoria che un gruppo di contenuti sia associato a situazioni di vita tipiche e comuni (quelle che «sfidano» l'uomo);
    2. quanto all'io che questo gruppo di motivi sia profondamente articolato con l'immagine di sé e del proprio mondo che il giovane possiede abitualmente, evitando l'estraneità dei contenuti;
    3. quanto alla valutazione che questo gruppo di contenuti sia «promettente salvezza» più di qualsiasi altro e in un modo concreto e rispondente al momento di vita.

    - Educazione alla criticità
    Basta un pizzico di realismo per convincersi che, nonostante tutte le preoccupazioni educative, la proposta cristiana rimane, oggi, una delle tante che fanno pressione sul giovane: di fatto, non è più l'unica a promettere «salvezza» né tanto meno quella totalizzante. Non è possibile innestarla nella spontanea cultura, se non dopo aver passato gli altri progetti correnti al vaglio di una critica «spietata», per cogliere i valori di cui sono portatori, i limiti di cui sono affetti, i mali di cui sono carichi. Questa «educazione alla criticità» è urgente anche quando l'esperienza di gruppo sembra portare già spontaneamente un buon clima di integrazione tra fede e vita.
    «Assistiamo, nei giovani, alla nascita di una crescente aspirazione ad una «liberazione», aspirazione che si rivela come una delle prospettive e delle costanti della nuova cultura.
    È un bisogno ancora spesso indefinito che non riesce ad incanalarsi in una direzione ben definita, e, per questo motivo, è a volte esagerato ed ipersensibilizzato. Ogni limitazione, norma, legge o esigenza esterna, è sentita come abuso ed oppressione; la coscienza, almeno incipiente delle innumerevoli manipolazioni, fa scattare le difese di fronte al minimo sintomo di pressione o intromissione.
    In moltissimi casi tuttavia è un meccanismo «parziale» e «selettivo» che risente della tecnica del «capro espiatorio»: mentre reagiscono, per esempio, anche all'ombra di pressione da parte degli educatori, della Chiesa, sono poi passivamente succubi della pressione del loro gruppo; mentre «colano il moscerino, trangugiano il cammello».
    La riflessione su questi dati di fatto, che ogni giorno possiamo toccare con mano, ha condotto i pedagogisti a postulare, per l'oggi e per il domani, una educazione capace di portare i giovani ad un permanente atteggiamento critico, liberato dall'istintività compulsiva e calibrato dall'oggettività, come unico mezzo che permetta all'uomo di realizzare la sua vocazione naturale all'integrazione, superando il semplice «adattamento», per assumere i temi e i compiti specifici del suo tempo.
    Ciò che permette all'uomo di «liberarsi» veramente è la sua coscienza critica, che lo rende capace di essere nello stesso tempo «soggetto» ed «oggetto», e cioè né passivamente succube di eventi fatali, né illuso di poter dominare dal di fuori, a sua volontà, tutta la realtà».[3]

    - Il sostegno dei modelli di comportamento
    L'educazione ad una fede integrata nel progetto di sé ha bisogno del sostegno strutturale. Il clima attuale mette in circolazione modelli e progetti d'uomo molto lontani da quello cristiano. Non basta un contrappeso di «parole». È necessario creare uno spazio alternativo, in cui circolino modelli diversi, ricchi del prestigio che ad essi proviene dall'approvazione di cui l'ambiente li gratifica e densi di proposte di vita davvero integrata con la fede. È un discorso molto importante. Che fonda, tra l'altro la necessità di gestire l'educazione alla fede «anche» all'interno di istituzioni cristiane, soprattutto nel momento delicato della crescita giovanile.[4] La «diaspora nel vasto mondo», in stato di servizio, è la meta cui tendere ma non può essere, sempre, la metodologia di cammino. Le strutture hanno un peso educativo notevole, perché danno effettiva consistenza al modo di progettarsi, privilegiando un modo di essere, in forza del prestigio sociale che affidano ad alcuni modelli a scapito di altri. Soprattutto esse non sono neutrali nel momento in cui prospettano il ruolo della fede nei confronti della significazione umana del progetto di sé: possono spingere a non far spazio alla fede o a renderla così marginale nella progettazione di sé, da farla insignificante. O, al contrario, possono suggerire, istituzionalmente, una saggia integrazione tra fede e vita.

    - «Un discorso cristiano su Dio» (RdC 77)
    Un peso certamente non piccolo ha anche il modo con cui viene fatto il discorso di fede. Il taglio con cui sono messi in circolazione i «contenuti» facilita o allontana l'integrazione tra fede e vita nel progetto di sé. Tutto deve essere presentato in chiave di fede. Ma per far ciò è indispensabile che la fede sia indicata come ciò che dà significato a tutto. Se la fede è «altra» nei confronti della cultura fatta circolare, è evidente che il giovane si troverà davanti al bivio, costretto a scegliere l'una visione o l'altra. Se invece la fede affonda le sue radici nella revisione critica della cultura ed è proposta come significato ultimo, definitivo e rivelato di questa cultura, essa è importante e «significativa» nel progetto di sé. A queste condizioni, come ricorda RdC, il discorso di fede, il parlare di Dio, è un «parlare cristiano». Un parlare di Dio lontano e staccato dalla problematicità dell'uomo è un «discorso ateo».

    Seconda meta:
    Per una nuova presenza della storia: liturgia e vita

    Esigenze

    Questa seconda meta riguarda dal lato naturale la formazione degli abiti operativi e dal lato soprannaturale la formazione di questi abiti in modo tale che siano collaborazione all'agire di Cristo per «far nuove tutte le cose», agire che ha il suo «culmen et fons» nell'eucaristia.
    Trascritta con queste parole, la meta assume un significato ben preciso, sia dal punto di vista umano che cristiano. Ed è proprio questa sintesi che ci sta a cuore raggiungere.
    Il giovane cristiano deve scoprire di essere all'interno di un radicale processo di trasformazione: la storia si fa progressivamente «nuova», fino ai cieli nuovi e nuove terre, per il mistero della morte e risurrezione di Cristo. Il divenire quotidiano della realtà è un farsi che corrisponde all'impulso creativo di Dio, ed un farsi «finalizzato», nella pasqua del Cristo. L'esperienza liturgica attualizza questo personale e cosmico divenire: lo fa «storia» qui-ora, per noi, permettendo alla nostra storia profana di diventare «storia di salvezza».
    Nell'eucaristia la morte e risurrezione di Cristo «salva» le nostre esperienze storiche: perché le esige, per assumerle, e, nello stesso tempo, le trascende. Ci ricorda la imprescindibile necessità del nostro impegno quotidiano «per far nuove tutte le cose» e ci costringe in atteggiamento di «recezione», perché la «novità» di tutte le cose è prima di tutto «dono», della pasqua di Cristo. Siamo «spinti» ad impegnarci e scopriamo la povertà del nostro impegno.[5]
    Tutto questo discorso si traduce nella vita vissuta, favorendo la personalizzazione dell'esperienza liturgica, soltanto se il giovane è guidato a collegare il suo spontaneo interventismo storico al «mistero» della celebrazione liturgica a cui partecipa.

    - Tutte le attività dell'uomo sono trasformazioni, sono passaggi verso la realtà, per realizzare quei fini che la mentalità tiene presenti.
    Tutte insieme possono essere un caos, senza capo né coda, oppure un organismo che fa storia. E questo avviene solo se una attività diventa «centrale» e tutte le altre diventano «collaborazioni» ad essa. Ed è proprio qui il punto nevralgico. Solo «unificando» le varie attività nella prospettiva di un «amore che si fa servizio» è possibile intessere lo spontaneo interventismo giovanile in termini tali che sia «aperto» a diventare il «corpo» quotidiano della liturgia pasquale.

    - Sul lato soprannaturale il settore è tutto imperniato sulla eucaristia,
    che è l'azione-trasformazione pasquale, compiuta da Cristo con noi, come «culmen et fons» di tutte le trasformazioni che oggi si compiono.
    Con la Messa Cristo pone la Trasformazione pasquale al centro dell'umanità, trasformando il pane e il vino nel Corpo e nel Sangue Suo (GS, 38). Ma anche qui l'azione di Cristo è come un'anima che cerca di incarnarsi nel suo corpo, cioè in tutte le trasformazioni operate dall'uomo e imprimere in tutte l'impulso centrale alla trasformazione pasquale dell'uomo, a livelli diversi ma tutti collaboranti.
    Solo in questa integrazione si avrà il fondersi di un organismo di abitudini che sono da, una parte, partecipazione attiva alla Pasqua eucaristica e, dall'altra, innesto di questa Pasqua in tutte le attività dell'esistenza.

    Problemi oggi

    È abbastanza facile cogliere che, nella enucleazione della meta, scatta un certo rapporto «chiesa-mondo». Le cose dette sono comprensibili solo all'interno di una visione matura, rispettosa della consistenza del profano e della sua finalizzazione alla crescita dell'uomo, in una teologia delle «realtà terrestri» che sostenga il rapporto tra eucaristia e storia, impegno politico e fede, preghiera e prassi.
    Purtroppo questo rapporto è oggi spesso conflittuale.
    L'impegno politico tende a radicalizzarsi e quindi a presentarsi come proposta «totalizzante», che esclude cioè ogni bisogno di salvezze trascendenti.
    La fede non ha ancora superato la stretta di spiritualità povere di presa sul sociale e tende a slittare verso la costituzione di integrismi, pericolosi anche se ne è mutato il segno di identificazione.

    Prospettive

    Vogliamo suggerire solo l'indice degli aspetti che potrebbero essere presi in considerazione, in questo contesto, preoccupati più del rapporto tra fede e impegno che degli elementi specifici; più delle istanze di metodo che di un approfondimento dei contenuti chiamati in causa.

    - Una pastorale saggiamente «politica»
    - Il giovane impara facendo. Perché la sua conoscenza non rimanga a livello intellettuale, ma sia pronta a scattare nella mischia della vita, essa deve radicarsi nel rapporto azione-riflessione. L'interazione è reciproca: l'azione non è formativa se non impastata con la riflessione; e la riflessione non approda a nulla se non scaturisce e si apre sulla azione. Perciò ogni intervento pastorale ricercherà possibilità immediate e concrete di intervento, per rendersi comprensibile dal giovane d'oggi e per farsi facilmente integrabile.
    E d'altra parte, dopo ogni azione, si cercherà uno spazio di silenzio per la riflessione, alla ricerca di motivazioni di sostegno e di un confronto con un iter ottimale di sviluppo (processo al rallentatore).
    - Il cristiano è responsabile della storia. La fede non allontana dalla storia, ma impone un intervento nella storia.
    Per questo la pastorale giovanile oggi è proiettata in un impegno «politico», a livello delle strutture. Non è possibile che l'uomo abbia uno spazio di umanizzazione (in cui innestare una proposta di fede) se le strutture sono disumanizzanti. Nei termini in cui lo sono, vanno cambiate, intervenendo in esse.
    E questo è il secondo tipo di interventismo che caratterizza la nostra pastorale giovanile: una dimensione politica, nel senso più preciso del termine, di ogni struttura pastorale, a partire dalla propria fede, per la sua autenticità.
    - Dio è all'opera per fare nuove tutte le cose. Il cristiano è chiamato a scoprire la propria vocazione ad essere collaboratore attivo di Dio, protagonista già all'opera. Così si agisce con il cuore pieno di speranza, contro la facile tentazione dello scoraggiamento o dell'anarchia; perché ci si sa collaboratori di uno che è capace, che sa il fatto suo, ed è già all'opera, per fare nuova la realtà; mentre la Pasqua di Cristo dà la certezza sperimentale che nessuno sforzo è vano, perché «tutte le cose andranno a finir bene».
    - L'interventismo è perciò, prima di tutto «fedeltà» a Dio, in febbrile azione per far passare tutte le cose da morte a vita: «l'incontro con il mistero trinitario avviene, allora, mediante il riconoscimento del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, viventi in perfettissima comunione di amore e protagonisti di quel piano di salvezza che trova il suo momento culminante nella morte e risurrezione di Cristo» (RdC, 83).
    Dio è in azione oggi: la messa è il «luogo» in cui l'azione divina diventa attuale, contemporanea ad ogni persona.
    È perciò, nella sua verità, il luogo di verifica, di ricarica, di condensazione dell'interventismo cristiano.
    In questo senso, davvero momento centrale della nostra fede (RdC, 72/73) «manifestante il mistero di Cristo come realtà salvifica che opera nel presente» (RdC, 73).

    - Personalizzazione della preghiera e della vita liturgica
    Se é vero che «s'impara a pregare per partecipazione», si giunge ad una personalizzazione della preghiera solo programmando serie esperienze di preghiera. Gli spazi normali delle nostre comunità ecclesiali, per tanti motivi, non sempre offrono un buon supporto per «imparare a pregare» Ci si dovrà «spostare», alla ricerca di comunità in cui la preghiera sia il tono dell'ambiente e l'aria che si respira. Da questo contatto potrà nascere il desiderio e la capacità di una preghiera vissuta nel ritmo pesante del quotidiano.[6] Lo stesso discorso va fatto a proposito della liturgia e dei sacramenti.[7]
    - Il clima che si respira
    Ogni comunità ha un suo tono, intessuto delle piccole e grandi cose che fanno il ritmo di una giornata.
    Questo «clima» descrive con i fatti la spiritualità che si propone e il rapporto chiesa-mondo a cui si crede.
    Molto è da inventare, tenendo ben presente il discorso importante degli «atteggiamenti», quel «frutto» dell'educazione indiretta che tanta parte gioca nei problemi di cui stiamo trattando.
    Se vogliamo raggiungere un livello maturo, che sappia superare la riduzione della proposta di fede a dimensione di ideologia e, sulla sponda opposta, la retoricità della proposta per assenza di reale compromissione storica, ci pare indispensabile suggerire alcuni stimoli di confronto:[8]
    * le comunità ecclesiali devono essere luogo in cui rimbalzano tutti i fatti che descrivono il quotidiano dei giovani che ne sono parte: una comunità «disincarnata» è una comunità diseducante;
    * gli avvenimenti che hanno provocato l'ecclesialità della comunità hanno bisogno di una rilettura seria: una comprensione piena e critica della realtà, in chiave di integrazione tra fede e vita;
    * la realtà diventa così vocazione ad un retto e autonomo interventismo storico;
    * in casi precisi e delimitati, la comunità ecclesiale prende posizioni profetiche, in quanto comunità;
    * il ritmo normale di vita privilegia sempre. L'impegno sul disimpegno, il servizio sul disinteresse, la responsabilità sulla trascuratezza.

    - Provvisorio e definitivo nell'esperienza umana
    Per saldare fede e impegno politico è importante guidare i giovani a cogliere la continuità-discontinuità esistente tra «provvisorio» e «definitivo», tra «salvezza profana» e «salvezza religiosa».
    Tutto ciò che esiste e, in particolare, l'uomo è sintesi di provvisorio e di definitivo. Il provvisorio consiste nelle modalità concrete della vita terrena in quanto terrena. Il definitivo invece consiste nelle modalità proprie del mondo di Dio partecipato agli uomini nel Cristo, ossia in quell'amore specificamente trinitario in cui è specificata l'originalità cristiana. La vita dell'umanità è insieme e contemporaneamente vita di questo mondo e vita in cui si costruisce l'esistenza dell'altro mondo: dunque possiede la modulazione di provvisorietà e definitività.
    In questa prospettiva è facile cogliere la continuità e discontinuità della salvezza profana e religiosa:[9]
    - Salvezza religiosa e salvezza profana sono entrambe valori autentici, tali da imporsi giustamente all'impegno di tutti gli uomini.
    - Salvezza religiosa e salvezza profana sono valori irriducibili l'uno all'altro, stabiliti cioè su dimensioni della realtà veramente diverse, e connessi a metodologie realmente differenti.
    - Salvezza religiosa e salvezza profana sono valori realmente uniti. Uniti di una unità che esclude l'identità totale e però si fonda su di una identità parziale, quella del materiale umano, cosmico e storico, di cui è fatta la realtà concreta di tutto ciò che esiste. Uniti quindi non per via di semplice parallelismo o congiunzione estrinseca o convergenza, bensì intrinsecamente, come due orizzonti diversi di una stessa identica realtà.
    - La salvezza religiosa è il valore ultimo e più profondo della realtà umano-cosmica e della storia. Nel suo ambito specifico rientra quindi anche la salvezza profana, non però direttamente, bensì mediatamente.
    - Il rapporto salvezza religiosa e salvezza profana ha dosaggi diversi dipendenti da situazioni oggettive e storiche diverse.
    L'esagerata fiducia nell'impegno storico come principio di «salvezza» totale dell'uomo ha portato, tra le altre conseguenze, un pericoloso riduzionismo nella vita sacramentale, divenuto, a volte, abbandono (si pensi alla crisi del sacramento della penitenza, soprattutto a livello giovanile), o, altre, una «ideologizzazione» troppo accentuata (qualche celebrazione eucaristica...). La strada del recupero non passa prima di tutto sulla frontiera dell'oltranzismo o del rimpianto, ma nell'impegno educativo di guidare a cogliere, in forma motivata, questa continuità-discontinuità esistente tra religioso e profano, per dare ad ogni dimensione lo spazio che le compete.

    - Una spiritualità della liberazione
    L'esigenza è ben espressa da RdC: «L'uomo del ventesimo secolo può apparire quasi allergico all'esperienza della fede e proteso, spesso generosamente, all'impegno del mondo. Da questa rilevazione, non di rado esteriore, traspare l'urgenza di educare i cristiani a comprendere che la fede non allontana dalla storia, ma svela in essa le intenzioni di Dio, riversando luce nuova sulla vocazione integrale dell'uomo» (43).
    Il discorso, a livello giovanile, è di una attualità sconcertante. Davvero «dalla sua attuazione dipende la sorte stessa del cristianesimo, particolarmente presso le generazioni dei giovani» (RdC, 97).
    Una spiritualità della liberazione è tutta da inventare. Abbiamo chiara la percezione negativa, nel rifiuto di «vie di uscita» inadeguate (come, per esempio, l'integralismo, la spiritualità degli intervalli, dell'intenzione, di una male intesa «consecratio mundi»...).
    Sul fonte positivo stanno facendosi strada tentativi interessanti, che hanno bisogno di essere tradotti in sensibilità pastorale e in strumenti operativi.[10] Sul piano educativo, la consapevolezza che i valori passano sulla mediazione dei modelli e delle esperienze, conduce l'operatore pastorale a ricercare e a favorire il contatto con comunità profondamente cristiane e fortemente impegnate che comunichino con i fatti una adeguata spiritualità della liberazione. Si tratta di un serio problema di «dosaggi» (il contrappeso del «deserto» dopo un forte impegno; e viceversa) e di «integrazioni» riuscite (la convivenza, con una comunità che prega e lavora), Anche il tipo di «preghiera» che abitualmente viene usata fonda (o annulla) la ricerca di questa «spiritualità»: Pregare Giovane è un tentativo interessante di elaborazione di una preghiera per il giovane impegnato nella storia quotidiana.

    Terza meta:
    Una appartenenza matura alla chiesa

    Esigenze

    La terza meta riguarda sul lato naturale tutte le relazioni tra persone di cui è intessuta la vita quotidiana e sul lato soprannaturale la vita ecclesiale. Essa richiama la necessità di raggiungere un maturo e ampio senso di appartenenza alla chiesa.
    Il senso di appartenenza pare normalmente legato ai seguenti fattori[11] interdipendenti:
    - La socializzazione religiosa attraverso l'educazione ricevuta nella prima infanzia e il successivo processo di «oggettivazione» dell'appartenenza, vissuto nel momento in cui il giovane prende coscienza riflessa delle scelte in cui è stato immesso. La decisione di «far propria» (o di rifiutare) l'istituzione ecclesiale dipende, in questo momento, dall'insegnamento religioso ricevuto (contenuti comunicati e modelli di comportamento) e dal controllo critico nei confronti di eventuali «contro-insegnamenti».
    - La partecipazione a gruppi «religiosi» in cui si faccia davvero esperienza di chiesa. Si respiri un clima strutturale che sostenga il senso di appartenenza, capace di creare un saldo di vita tra la semplice affiliazione giuridica e la partecipazione. La coesione di gruppo facilita l'identificazione dell'individuo al gruppo e quindi permette una buona stabilizzazione del senso di appartenenza.
    - Il prestigio sociale di cui gode il gruppo religioso. Il senso di appartenenza è condizionato dal livello di identificazione del giovane nei confronti del suo gruppo. Questo, a sua volta, dipende dall'immagine che la persona ha del suo gruppo (se si trova a proprio agio, se avverte di avere in esso un ruolo, se il gruppo funziona senza troppi scossoni, se non circolano nel sottobosco tensioni e conflitti...) e dall'immagine sociale che il gruppo possiede (il «prestigio» cioè di cui il gruppo gode, nell'ambiente in cui vive e agisce).
    La rassegna dei fattori che determinano il livello di appartenenza aiuta a comprendere un fatto molto importante: educare al senso di appartenenza ecclesiale non significa prima di tutto «parlare» della chiesa, fare una buona catechesi sulla chiesa (anche se questo aspetto è tutt'altro che escluso). È indispensabile creare uno spazio di esperienza ecclesiale in cui «identificarsi», e, contemporaneamente, «dare credibilità» e prestigio alle istituzioni che ufficialmente mediano l'esperienza ecclesiale.
    La vita giovanile è spontaneamente intessuta di rapporti interpersonali e di esperienze associative, al cui interno è possibile inserire un significato più ampio, che le apra a diventare esperienza ecclesiale. Il rapporto tra spontaneo «stare assieme» e vita ecclesiale non è però automatico né tanto meno legato alla sola intenzionalità. La appartenenza ecclesiale ha esigenze caratteristiche, che vanno ritrovate e vissute proprio sull'asse dello «stare assieme» umano.
    L'appartenenza ecclesiale, inoltre, non coincide con l'esperienza del «piccolo gruppo»: va perciò evitata la riduzione della totalità dell'appartenenza alla chiesa, alla semplice esperienza di piccolo gruppo.
    C'è quindi, come nelle altre mete, da progettare:
    - una serie di interventi a livello dello spontaneo «stare assieme», per guidare a maturare scelte che lo qualifichino come uno «stare assieme» da persone mature, capaci cioè di cogliere lo spessore ecclesiale di questa esperienza;
    - una serie di interventi a livello strettamente ecclesiale, per «salvare» l'esperienza di gruppo, rivelandone il significato ecclesiale e per aprire questa stessa esperienza ad un senso «universale» di ecclesialità.

    Problemi oggi

    Ci troviamo oggi alla confluenza di due «fatti».
    I giovani hanno scoperto il piccolo gruppo. I più sensibili stanno allargando l'orizzonte verso una esperienza «comunitaria»: un piccolo gruppo cresciuto e maturato, lungo direttrici molto interessanti.
    Tutto questo crea un prezioso supporto spontaneo per fondare l'educazione al senso di appartenenza.
    Nello stesso tempo, però, assistiamo ad una larga crisi delle istituzioni ecclesiali, ridotte spesso alla marginalità o alla insignificanza e attraversate da problemi di credibilità.
    Molti giovani hanno una sensibilità particolarmente accesa a questo proposito. E così nascono gli intoppi.
    Per molti il piccolo gruppo è diventato «la» chiesa: ogni proposta che tenda a superarne i confini viene rifiutata, per un'inconsapevole paura di «perdere» uno spazio interessante, sul piano umano e religioso.
    L'esperienza ecclesiale bloccata dentro i confini del gruppo è sempre minacciata di integrismo: si scolla dalla realtà, slittando o verso l'utopia o verso l'intimismo.
    La riflessione tecnica sulla esperienza umana dell'essere in gruppo ha colto di sorpresa molti operatori pastorali. O l'hanno mitizzata, definendo la chiesa secondo canoni acriticamente desunti dalla dinamica di gruppo. O l'hanno rifiutata, per uno strano purismo religioso, diventandone così «vittime» per assenza di informazione.
    La crisi dell'istituzione ecclesiale ha, infine, reso difficoltoso il passaggio verso la «cattolicità» dell'appartenenza ecclesiale o ha relegato alla retoricità gli inviti a sentirsi chiesa, quando questi erano rivolti a giovani lontani da gruppi o movimenti.

    Prospettive

    Anche a questo proposito, vogliamo solo richiamare suggerimenti metodologici già abbondantemente ripetuti in molti contesti.[12]

    - La scelta del gruppo nella pastorale giovanile
    Nel nostro contesto culturale i giovani giungono all'appartenenza ecclesiale, normalmente attraverso l'appartenenza ad un gruppo «primario». Quindi il gruppo è per essi lo spazio dove fare esperienza di chiesa. È una delle scelte caratterizzanti, per l'attuale pastorale giovanile.

    - Un gruppo che verifichi la sua ecclesialità nella «vita interna»
    Non sono i contenuti che il gruppo macina, non il fatto di aprire e concludere le riunioni con una preghiera, non la programmazione di incontri di spiritualità... che, al limite, definiscono e verificano l'ecclesialità del gruppo. È la sua vita che lo fa ecclesiale o meno.
    È, cioè, il modo con cui il gruppo si situa all'interno dei fenomeni della dinamica di gruppo, che fa (o non fa) di quel gruppo una realtà ecclesiale. La scelta di una «terapia» attraverso il gruppo (l'utilizzazione di metodi di intervento sui singoli e sul gruppo per ottenere un mutamento della persona o una fisionomia del gruppo) qualifica o meno l'ecclesialità del gruppo.
    Ignorare quindi la dinamica di gruppo comporta la perdita dell'elemento di verifica della propria reale ecclesialità. Utilizzare la dinamica di gruppo verso certe direttrici (piuttosto che altre) significa perdere di fatto l'ecclesialità.
    La dinamica di gruppo diventa «strumento pastorale» qualificato quando è utilizzata, all'interno di determinate costanti, in linea di continuità con una ortoprassi ecclesiale.

    - Atteggiamenti espliciti di ecclesialità
    Abbiamo messo l'accento su un aspetto importante ma parziale: la vita interna di un gruppo qualifica la sua ecclesialità «implicita». Per giungere ad una vera e piena esperienza ecclesiale, è importante procedere oltre, autenticando e integrando l'implicito in esplicito.
    Proponiamo alcuni atteggiamenti cui il gruppo è chiamato:
    - La consapevolezza che l'essere in gruppo-chiesa non è prima di tutto frutto di dinamismi umani, ma è un dono. Si è in comunione, per il dono della fede, speranza, carità.
    - Nel cammino di ricerca, la Parola di Dio è elemento determinante della verità. Non sono prima di tutto gli aspetti tecnici che permettono di approdare alla verità, ma la disponibilità all'ascolto della Parola.
    - Nel gruppo ogni impegno storico non si esaurisce sull'orizzonte tecnico e politico. La verità dei «gesti» del gruppo è ritrovabile all'interno della pasqua di Cristo, che dà consistenza e speranza ad ogni impegno concreto.
    - La comunione, nel gruppo, è segnata dall'apertura veramente «cattolica», che tende a raggiungere tutti gli uomini (il... terzo mondo lontano e quello di casa, nel rispetto del pluralismo di mentalità, gesti, scelte), nello spirito dell'amore-servizio che specifica l'originalità cristiana.

    - Il gruppo come momento formativo
    Scegliere il gruppo come esperienza ecclesiale significa sceglierlo come momento di evangelizzazione e di conversione all'interno e verso l'esterno. Fatti questi che connotano l'opportunità di scegliere, soprattutto a livello giovanile, la pressione culturale ed esperienziale del gruppo e quindi rifiutarne la sua apparente neutralità.
    Il discorso è importante.
    È per l'aria tutta una metodologia di gruppo segnata da una accesa non-direttività educativa, da un'accentuata enfasi sullo spontaneismo, da un costante rifiuto del ruolo educativo dell'adulto, trasformato in semplice tecnico di rapporti interpersonali corretti.
    Dobbiamo superare queste concezioni, per giungere al gruppo «che educa», all'adulto come animatore-testimone, alla scelta di un luogo sufficientemente e saggiamente direttivo in alternativa alla accesa direttività dell'ambiente sociale. Il tutto però - e questo è qualificante - con la costante preoccupazione di liberare la libertà del giovane, per deciderlo a scelte personali e responsabili. Con un rifiuto preciso quindi di ogni stimolo di manipolazione e di strumentalizzazione magari ammantata del clima euforico che si respira dentro il gruppo.

    - Un modo ecclesiale di fare «coesione»
    È necessario che il gruppo tenda a ritrovare la coesione attorno ai valori che persegue e non solo attorno a rapporti primari. È un discorso molto duro, se si vuole; ma molto importante, soprattutto oggi. La Chiesa non è solo l'insieme degli amici: è piuttosto l'insieme di coloro che hanno scelto di realizzare, in sé e negli altri, la «pasqua» di Cristo: l'insieme delle persone che hanno voglia di fare qualcosa di serio implicitamente o esplicitamente in nome di Cristo Signore. Tra loro deve correre «amicizia»: ma radicandola sulla comune tensione. La spinta a farsi realizzatori della «pasqua» di Cristo fa coesione, anche se di fatto non ci si conosce.
    La primarietà dei rapporti è importante ma non essenziale. L'essenziale è questa concreta scelta; essenziale è la percezione di essere a collaborare ad uno stesso obiettivo; essenziale cioè è la coesione attorno ai valori.
    Se il gruppo vuole situarsi in contesto ecclesiale, al di là delle facili parole, dovrà raggiungere (o tendere a raggiungere) questo «ideale». Dovrà cioè tendere a creare una coesione di gruppo - che tenga profondo conto dei rapporti primari - ma che sia aperta a tutti, in base proprio alla consonanza di ideali-valori perseguiti. Se, quindi, nella prima tappa della vita di un gruppo andranno coltivati soprattutto i rapporti primari interpersonali, nella seconda tappa l'animatore è chiamato a guidare alla percezione dei valori del gruppo, è chiamato a far scoprire che si è assieme, non tanto per gratificarsi reciprocamente, quanto per un servizio serio da porre in atto.

    - Verso una più vasta esperienza ecclesiale
    La chiesa, nella sua più radicale verità, non coincide con il piccolo gruppo ecclesiale.
    È perciò indispensabile evitare la riduzione della totalità dell'appartenenza alla chiesa, alla semplice esperienza del piccolo gruppo. Vanno quindi previsti «collegamenti» organici e «condivisi».
    La parrocchia e la chiesa locale sono il punto di confluenza normale di ogni «onesta» esperienza ecclesiale.[13]
    * Nella parrocchia trova spazio un «servizio» a tutta la comunità parrocchiale, rispettata in quel pluralismo di appartenenza e di maturità di fede che contraddistingue la chiesa.
    * Nella parrocchia trovano spazio momenti di «comunione» con tutti (incontri di preghiera, celebrazioni eucaristiche domenicali, partecipazione a programmazioni...). Nel popolo di Dio nessuno ha diritto di consumare i doni che ha ricevuto, al chiuso della propria stanza. Ogni talento è una responsabilità, da «condividere» con coloro che ne sono privi.
    * Nella parrocchia, infine, trovano spazio momenti di «confronto» (sia come fatto istituzionalizzato: consigli pastorali; che come fatto più spontaneo: incontri di riflessione). La convergenza di esperienze diverse apre a quel «contrappeso di valori», tante volte raccomandato, come correttivo indispensabile all'integrismo e all'impoverimento, legato alla assolutizzazione delle personali scelte.

    - Una «nuova» catechesi sulla chiesa
    Pur mettendo l'accento sul gruppo come mediazione dell'esperienza ecclesiale, non abbiamo mai esclusa l'importanza di una «presentazione adeguata» della chiesa. Anzi, l'educazione religiosa, soprattutto a livello giovanile, è molto importante. Per «rivelare» che «fare gruppo è fare chiesa». E per «rivelare» la chiesa, in cammino nella storia con la conflittualità che caratterizza ogni mediazione umana del dono di salvezza. Se la chiesa è presentata trionfalisticamente, addolcendo e smussando gli angoli e i difetti, per troppi giovani fa davvero problema, sensibili e raffinati come sono nella comprensione dei fatti. Non è inutile ricordare che la «catechesi» è fatta di contenuti e dei modelli che li incarnano.[14]

    - Per una conversione continua dell'istituzione ecclesiale
    Si può giungere ad un reale senso di appartenenza alla chiesa solo sul filo della significatività reale dell'istituzione ecclesiale. Lo scontro, al limite di ogni riflessione, è a questi livelli.
    «La Chiesa che predica la conversione e la riconciliazione deve darne efficace testimonianza nella sua vita. Ad ogni livello - da quello universale a quello delle singole comunità - la conversione, illuminata e sostenuta dalla parola di Dio, deve manifestarsi in una maggiore pienezza di fede, e quindi in un maggiore, visibile distacco dai beni e dai poteri del mondo. In un mondo che vuol "toccare" le idee, la fede in Dio diventa credibile se si traduce in una minore "fede" nel danaro e nell'appoggio dei potenti di questo mondo. La conversione si manifesterà così in un più costante richiamo, in una più totale disponibilità alla parola di Dio, in uno spirito di preghiera più diffuso e più profondo, ma anche in una maggiore purificazione e contestazione degli egoismi e delle ingiustizie che l'amore al danaro e il potere creano nel mondo e inseriscono nella stessa comunità ecclesiale. Anche la riconciliazione dovrà costituire un impegno di tutta la Chiesa, che dovrà non solo accettarla se richiesta - rinunciando così ad atteggiamenti di «prestigio», di «difesa dei suoi diritti», preoccupata e paga come dovrebbe essere di difendere i diritti degli uomini, soprattutto dei più umili e dei più poveri - ma che dovrà ricercare nei confronti di tutti coloro che per qualche motivo si sentono lontani da essa».[15]
    Intonato così, può sembrare un discorso lontano: la battuta finale indispensabile per assumere un pizzico di profezia. Le cose però possono farsi molto più concrete, se ci si rende conto che la «chiesa» è normalmente incontrata nelle istituzioni di cui i giovani sono parte: la «scuola cattolica», la parrocchia, «quella» associazione, il centro giovanile, «quel» sacerdote o «quella» suora o «quei» laici influenti... A questo livello spicciolo la conversione è possibile e doverosa: a cerchi concentrici investirà ogni realtà ecclesiale. Conversione, da che cosa?
    Hanno bisogno di conversione gli atteggiamenti importanti di cui riferisce la citazione. Ma anche il «clima educativo» che si respira, i modelli che riscuotono il prestigio sociale, i gesti che vengono normalmente compiuti e quelli di cui si ha spontaneo rifiuto, il modo con cui sono pronunciate parole gravi come «corresponsabilità», «persona», «servizio»...

    «INTEGRAZIONE TRA FEDE E VITA»: OBIETTIVO E METODO

    Abbiamo tratteggiato le mete di un'azione pastorale tendente all'integrazione tra fede e vita. Con un punto di partenza comune (l'educazione alla fede dei giovani) abbiamo percorso una strada che può aver lasciato qualcuno in panne. Certo, la meta poteva essere raggiunta per tutt'altre direzioni di cammino. Dare spessore alla meta è diventato, come sempre, scegliere un metodo.
    Il metodo non può essere scelto a casaccio, battendo la prima strada aperta. Ogni metodo serio ha, alle spalle, una teologia. A sostegno del metodo c'è quindi una teologia da riscoprire.
    Ma di questa «teologia» si è parlato a lungo, nelle pagine che precedono. E sarà il «liet-motiv» della parte successiva della monografia.
    Il capitolo delle «mete» va quindi riletto all'interno del discorso più vasto di una «integrazione tra fede e vita» come scelta teologica per l'attuale pastorale giovanile.


    NOTE

    [1] Su Note di Pastorale Giovanile abbiamo sviluppato molte volte, in concreto, queste istanze. Ne ricordiamo due:
    - a proposito di scuola e pastorale (cf soprattutto 1974/2)
    - a proposito di sport e pastorale (1974/1, 3, 6).
    [2] A. RONCO, Introduzione alla psicologia, PAS-Verlag, pp. 27-50.
    [3] G. DHO, La continua presenza dell'educatore come espressione d'amore, in Note di Pastorale Giovanile, 1974/5, p. 47.
    [4] R. TONELLI, Il sistema educativo di don Bosco nei Centri Giovanili e nelle associazioni, in Il sistema educativo di don Bosco, LDC.
    [5] PH. ROQUEPLO, Esperienza del mondo: esperienza di Dio?, LDC, pp. 164-167.
    [6] Cf I giovani cercano la preghiera, in Note di Pastorale Giovanile, 1972/12.
    [7] Il tema è qui appena accennato. Avrebbe bisogno di una trattazione specifica. È stato scritto molto a livello di problematiche generali (cf G. GOZZELINO, I grandi temi del contenuto della catechesi, LDC 1973): per la situazione giovanile la bibliografia è invece povera.
    [8] Uno sviluppo interessante, applicato ad una situazione concreta (gruppi ecclesiali e impegno nel quartiere), può essere ritrovato in: AA. Vv., Gruppi giovanili e impegno nel quartiere, LDC (soprattutto p. 95 ss.).
    [9] G. GOZZELINO, op. cit., p. í85 ss.
    Si vedano a questo proposito le raccomandazioni pastorali raccolte nel documento CEI in preparazione alla III assemblea generale del Sinodo dei Vescovi (L'evangelizzazione del mondo contemporaneo, LDC, 1974, nn. 68-76).
    [10] Una sintesi pregevole di «spiritualità» inadeguate è contenuta in ROQUEPLO, op. cit., pp. 51-70. Tutto il libro fonda invece una autentica spiritualità dell'impegno storico. Le stesse esigenze sono espresse in G. GUTIERREZ, Teologia della liberazione, Queriniana, p. 202 ss.
    [11] Cf G.C. MILANESI, Sociologia religiosa, LDC (lez. Vll) e id., Sociologia della religione, LDC (edizione totalmente rifatta della precedente), cap. Vll.
    [12] Per i singoli paragrafi che si riferiscono all'esperienza di gruppo nella pastorale, cf globalmente R. Tonelli, La vita dei gruppi ecclesiali, LDC.
    [13] Queste riflessioni sono state sviluppate nel mio articolo Gruppi ecclesiali a fine-corsa: il problema del «dopo», in Note di Pastorale Giovanile, 1974/5, a cui tra l'altro, questa sintesi si riferisce.
    [14] Una sintesi di catechesi sulla chiesa in G. GIUSTI, Contenuti per una proposta catechistica sulla chiesa, in Note di Pastorale Giovanile, 1973/3. Si vedano anche i due articoli (1974/1 e 6) che hanno riprodotto i dati di una interessante ricerca sull'immagine di chiesa. A livello redazionale è iniziato il lavoro di analisi, interpretazione e di «progetto pastorale» nei confronti della ricerca: sarà importante fare poi riferimento ad esso, per comprendere i contenuti della «nuova catechesi» sulla chiesa.
    [15] La citazione è di Mons. L. Bettazzi, da un suo articolo comparso in Note di Pastorale Giovanile, 1974/4.


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