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    Un'esperienza di tirocinio

    Elide Valentina Maria Romano *

    Elide Romano


    Vi è mai capitato di ritrovarvi spaesati o in difficoltà di fronte a un problema o a una determinata situazione legati alla vita quotidiana?
    Si tratta di una situazione provata da coloro che, pur essendo dotati di molteplici competenze, a volte acquisite in modo parziale (come nel caso degli alunni frequentanti la scuola dell’infanzia e la scuola primaria) nutrono l’esigenza profonda di chiedere aiuto o di richiedere un supporto necessario per portare a termine un determinato compito assegnato.
    Ho scelto come esempio proprio il mondo della scuola dell’infanzia e della scuola primaria perché ho avuto la possibilità di svolgere alcune ore di tirocinio ordinario in varie sezioni e classi dei due diversi ordini.
    Provo a rileggere in questa esperienza quella sensazione di spaesamento e di ricerca di un punto di riferimento che accade nel nostro quotidiano e coinvolge gli individui di ogni settore e ramo lavorativo. Ognuno di noi si è ritrovato, almeno una volta, ma probabilmente più volte, in una situazione in cui non trovava una possibile via d’uscita di fronte all’enigma quotidiano da risolvere.
    Vorrei con semplicità suggerire un mio modo di procedere.
    Quando mi trovo in una situazione-problema, analizzo, prima di tutto, la natura del problema e la possibile causa o le possibili cause. In seguito, inizio a frantumarlo, a spezzettarlo così da percepirlo in maniera più chiara nei singoli elementi. Quindi lo ricollego a un macro-argomento per poter analizzare i vari pezzi del puzzle che lo compongono.
    Ritengo che questo metodo aiuti a percepire con maggior chiarezza ‒ in modo più semplice e decifrabile ‒ quel “nodo”, che al primo impatto sembra gigantesco e irrisolvibile. Insomma, aiuta a modificare, a livello psicologico e percettivo, la “sensazione” che abbiamo di quel concetto o di quella situazione.
    Quanto appena enunciato l’ho ritrovato particolarmente utile e applicabile nelle sezioni di scuola dell’infanzia e nelle classi di scuola primaria in cui ho svolto il tirocinio.
    In effetti, soprattutto i bambini di questo ambito scolastico risentono molto di questa sensazione di “spaesamento”, come avessero perduto i fili sicuri di “orientamento” del loro abituale comportamento: e questo succede anche nell’affrontare un semplice distacco dai genitori o dalla figura di accudimento (nonni, zii, fratelli, sorelle): in effetti percepiscono questo distacco come un atto di “abbandono”.
    Ho anche potuto constatare che, a questa tenera età, non riescono a risolvere i problemi da soli, e così fanno spesso ricorso all’aiuto del caregiver, ovvero una figura che occupa un ruolo informale di cura, di supporto e di vicinanza nelle attività quotidiane del bambino stesso.
    Per questo motivo, il ruolo fondamentale di noi tirocinanti e futuri insegnanti o educatori è quello di far raggiungere all’alunno che abbiamo di fronte la piena (ovviamente adeguata all’età) autonomia.
    Seguendo l’alunno passo dopo passo e notando se si presentano dei miglioramenti.

    Mi confronto con una mia personale esperienza. Quest’anno mi hanno affidato una sezione omogenea di scuola dell’infanzia composta da bambini di cinque anni.
    Ho notato che, durante le attività di pregrafismo e di grafismo, incentrate sulle prime lettere dell’alfabeto e sui primi numeri, alcuni di loro si sentivano inadeguati, non riuscendo a volte a svolgere il compito assegnato in maniera corretta. Ho fatto capire loro che dire “non ce la faccio” di certo non li aiuta e risolvere il problema, anzi lo aggrava perché in questo modo producono un forte abbassamento del livello di autostima, che alla fine porta il bambino stesso non solo al completo rifiuto di svolgere la consegna assegnata ma anche alla negazione di sé, al ritenersi “oggettivamente” inadeguato o perfino incapace.
    Penso che la strategia migliore in casi come questo e altri simili, che ben conoscono i maestri e le maestre (o anche un normale tirocinante), sia far comprendere loro che il commettere errori fa parte della loro crescita formativa, sociale, comunicativa, cognitiva e scolastica. L’errore è parte integrante della crescita personale. Insomma, come dicevano gli antichi: errando discitur.
    Ovviamente non basta sbagliare o accettare che l’errore è parte “naturale” della vita e della crescita: è necessario che l’errore venga individuato, valutato, accolto e migliorato.
    Ecco allora l’importanza del ruolo del/della tirocinante o dell’insegnante, come “facilitatore”, ovvero “aiutante” per sostenere la crescita del bambino.
    Nel caso in questione, e come esperienza personale, ritengo di aver individuato il problema e assieme alla docente curriculare penso di aver aiutato i bambini (che – dicevo – mostravano difficoltà nel pregrafismo) ad individuare l’errore commesso e di conseguenza a correggerlo.
    In questo modo si promuove un sano legame educativo che lega l’alunno alla docente o alla tirocinante. Un legame, quindi, tra chi chiede aiuto e chi fornisce l’aiuto.

    Questo particolare legame mi ricollega idealmente alla grande figura di Maria Montessori (1870-1952), pedagogista, educatrice, filosofa, neuropsichiatra infantile e medico, a me molto cara e da sempre modello e ispirazione nella mia “vocazione”.
    È certamente conosciuta dal lettore, per cui richiamo solo alcuni tratti per me particolarmente significativi e quanto mai attuali.
    Ella elaborò un metodo educativo (che prende il suo nome) che ha come obiettivo il pieno raggiungimento dell’indipendenza del bambino, dove la figura dell’insegnante si pone come “strumentale”, appunto come aiutante, facilitatore, organizzatore e osservatore.
    Ricordo alcune frasi lapidarie: “Bisogna assecondare quanto più è possibile il desiderio di attività del bambino; non servirlo ma educarlo all’indipendenza”. E ancora: “Il più grande segno di successo per un insegnante è poter dire: i bambini stanno lavorando come se io non esistessi”.
    Analizzando i principi che caratterizzano il metodo di Maria Montessori e, in un secondo momento, sperimentandoli sul campo, mi ha permesso di crescere dal punto di vista personale, morale, psicologico e lavorativo. In particolare, lo stare a contatto con una generazione diversa dalla mia, quella dei bambini di scuola dell’infanzia e di scuola primaria, mi ha fatto prestare attenzione a diversi punti di vista.
    Ma, a ben vedere, sono principi (e metodi) applicabili non solo ai bambini, bensì di riflesso anche alla nostra stessa vita quotidiana. In effetti ogni giorno troviamo degli ostacoli o dei problemi, delle situazioni disagevoli da superare, da risolvere, da affrontare anche con metodo nuovo: e ciò rende reale la nostra “indipendenza” e noi consapevoli che tante cose le possiamo affrontare e vincere, che siamo in grado di farlo; e anche che possiamo sbagliare, ma non per questo ci arrendiamo (in fondo, quello che diciamo ai nostri bambini).
    In effetti è un tranello pericoloso il sentirsi demotivati e impotenti. Quello che dobbiamo pensare (a partire da noi stessi, per poi far comprendere ai nostri futuri alunni), è che il commettere errori è parte integrante della nostra crescita personale e che risulta normalissimo commetterli, specialmente se si tratta di svolgere un’azione per la prima volta. Anzi il focalizzare la propria mente verso gli errori commessi fa prendere coscienza dei punti di debolezza personale, unica strada per un effettivo, realistico e possibile miglioramento.

    * Studentessa in Scienze della Formazione Primaria presso l'Università degli Studi di Enna "Kore"


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