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    Dio come amore

    Gertrud von Le Fort, Franpis Mauriac, 
    Clemente Rebora, André Frossard

    Ferdinando Castelli


    L
    a tesi che ispira l'opera di Gertrud von Le Fort (1976-1971) si può così sintetizzare: Dio ci salva perché è amore, e il suo amore è mediato da Cristo che vive nella Chiesa. La scrittrice traduce questa tesi in opere narrative di grande valore (da Jean Guitton è stata accostata a Goethe) quali Il lino della Veronica e La corona degli angeli. Nel primo romanzo, la zia Edel, insofferente e ribelle, forse per vendicare la sua sconfitta di donna e di credente, stacca dalla parete il crocifisso, dinanzi al quale ha scorto in preghiera Veronica, sua nipote, e lo brandisce per colpirla. La croce si abbatte in uno schianto, frantumandosi, e una forza misteriosa atterra la zia. Segue una scena drammatica nella quale entrano in scena Dio e Satana, che si contendono l'anima della ribelle. La Grazia ha il sopravvento. Zia Edel si confessa: «Io, povera creatura peccatrice, mi accuso dinanzi a Dio onnipotente e a Maria, Sua santissima Madre, dinanzi a tutti i Santi e dinanzi a voi, padre, che fate le veci di Dio, di avere sin dalla mia primissima infanzia, e in tutti i giorni della mia vita, peccato coscientemente e volontariamente contro l'amore e la misericordia infinita di Dio» [1].

    Si era staccata da Dio, quasi che donandosi all'Amore avrebbe perduto e defraudato la propria vita. Ma l'Amore non abbandona la sua creatura, anche se è abbandonato; la sospinge su altre strade e qui va a cercarla. Per zia Edel queste furono la tristezza e il sentimento del vuoto. Staccata da Dio e dalla Chiesa, vagolava in balia dell'inconsistenza e della follia, senza più né amore né speranza né umiltà, fino ad abbandonarsi all'odio. «Mi confessai al medico e da lui ricevetti l'unica assoluzione che il mondo sia in grado di dare: l'assoluzione dello psichiatra per il quale non esiste nessun peccato che non possa essere perdonato, perché non esiste l'anima che possa negarsi a Dio. E quell'assoluzione mi diede l'orribile pace di cui oggi vivono migliaia di esseri, la cui malattia non consiste in altro che nell'aver disprezzato la pace del Signore» [2].
    Dopo la confessione aveva avvertito l'irruzione dell'Amore nella sua anima. L'amore di Dio «corre come un filo rosso attraverso le generazioni e attraverso ogni singola esistenza. Rinnegato e disprezzato, compreso e offeso in migliaia e migliaia di esseri, continuamente si riaccende nelle anime e non si spegne se non quando si spegne la vita» [3]. Questo Amore divino si manifesta nel Crocifisso, l'Eucaristia lo irradia e lo comunica. Quando zia Edel si trova dinanzi al Santissimo esposto avverte che la sua anima è toccata da un amore sconosciuto, indicibile, infinito.

    Sapevo che né in cielo né in terra, né fino alla fine dei tempi né nell'eternità, mai vi potrebbe essere cosa alcuna capace di eguagliare quell'amore in forza e dolcezza. Avviluppata da esso, strappata a me stessa, e già quasi immersa nella sua immensità, credetti di morire. Ma lo stesso infinito mi teneva in vita con un comando dolce e commovente: amami ancora [4].

    Queste battute fanno comprendere perché Gertrud von Le Fort abbia potuto comporre Te Deum, un inno di eccelsa poesia nel quale esalta la bellezza e la grandezza dell'amore di Dio, facendosi voce della Chiesa.

    La tua voce dice:
    Potente Signore della mia vita, voglio cantar le tue lodi su tutte le tre rive dell'unica tua luce!
    Voglio gettarmi col mio canto nel mare della tua magnificenza, e annegar di gioia tra le onde della tua forza!
    Dio splendente nelle tue stelle, Dio tonante nelle tue tempeste, Dio fiammeggiante nei tuoi vulcani infuocati, Dio dei tuoi fiumi e dei tuoi mari, Dio di tutti i tuoi animali, dei tuoi steli e delle tue rose selvagge:
    Ti ringrazio perché ci hai scosso dal sonno, o Signore, e la mia lode giunga sino ai cori dei tuoi angeli!
    Sii lodato per tutto quel che vive là!
    Tu Dio del Tuo Figlio, gran Dio della tua eterna Misericordia, gran Dio dei tuoi uomini smarriti, Dio di tutti coloro che soffrono, e che muoiono, Dio fraterno sulla nostra oscura traccia:
    Ti ringrazio per averci redenti e la mia lode giunga sino ai cori dei tuoi angeli!
    Sii lodato per la nostra beatitudine!
    Dio del tuo Spirito, Dio che passi, nei tuoi abissi, da un amore all'altro, Dio che penetri sin dentro all'anima mia.
    Dio che spiri in tutti i miei spazi e incendi tutti i miei cuori. Santo Creatore della tua nuova terra:
    Ti ringrazio Signore di poterti ringraziare e la mia lode giunga sin ai cori degli angeli:
    Dio dei miei salmi, Dio delle mie arpe, gran Dio dei miei organi e trombe,
    Voglio cantar le tue lodi su tutte e tre le rive della tua unica luce! Voglio gettarmi col mio canto nel mare della tua magnificenza: e annegar di gioia tra le onde della tua forza! [5]

    * * *

    Per comprendere chi è Dio per François Mauriac (1885-1970) bisogna prima chiedersi chi è per lui l'uomo. Chi è l'uomo? È un mistero per sé e per gli altri. Avanza nel buio della mente e del cuore, compie scelte che sanno di follia, si abbandona ad azioni mostruose, volta le spalle a quanto potrebbe appagare i suoi desideri. Anche Pascal, del quale Mauriac si professa discepolo, esclama: «Come è insondabile il cuore dell'uomo, e come è pieno di lordure» [6]. Pertanto l'opera di Mauriac pullula di mostri. Il romanziere li scova, li analizza, li scopre come proiezioni dei nostri fantasmi, anzi come incarnazione di noi stessi, se una serie di cause o «qualcuno» non lo avesse impedito.
    Perché questa situazione miserabile? Per una serie di traguardi mancati. Uno soprattutto: la mancanza d'amore. L'uomo - sostiene Mauriac - è stato creato per amare e per essere amato. L'amore non solo è il fine dell'uomo, ne è anche la struttura, la definizione. Vivere è amare. Amare chi? Che cosa? La fede risponde: amare Dio che è amore, e le creature in lui. Se si elimina Dio-Amore e si ama la realtà creata in sé, staccandola dall'Amore, si è sbandati e inquieti. L'uomo si sente tradito. Si è rifugiato negli amori umani, ma ha capito che c'è «una sproporzione tra l'esigenza dell'essere umano e la creatura alla quale il cuore si attacca». Riuscirà ad evitare la desolazione infernale e incontrare l'Amore appagante?
    La risposta di Mauriac è affermativa. Dio è Amore e non può abbandonare la sua creatura. Da quando si è incarnato in Gesù, non si stanca di incrociare i nostri sentieri e offrirsi a noi come l'Amore che salva. È il solo a comprenderci, ad avvertire i nostri singhiozzi, a non avere ribrezzo delle nostre piaghe, a non stancarsi dei nostri rifiuti. Il vecchio avvocato cardiopatico di Groviglio di vipere vive arroccato nella solitudine e nell'odio. È «l'uomo che non si ama» e che non è amato. La sua non è vita ma negazione di vita. Quando incontra una bambina che gli consente piccoli sussulti d'amore («la chiamavo ed ella veniva, la prendevo con slancio tra le braccia ed ella vi si rifugiava volentieri») e quando si accorge che l'abate Arduino ha fiducia nella sua benevolenza avverte nell'anima una «specie di dolcezza» e intuisce in quell'uomo la presenza di Dio. Un guizzo di luce gli solca l'anima: e se Dio fosse venuto non per i giusti, ma per i disgraziati come lui? Lentamente avverte un misterioso appello all'amore, come se un Essere superiore parlasse in lui e lo spingesse su sentieri impensati. «Quale forza mi trascina? Una forza cieca? Un amore? Forse un amore... » [7].
    La nostalgia di un amore - o di un Amore? - nel quale rinascere e ricostruire la vita investe la sua anima. Dovrebbe essere, questo amore, una forza capace di sfrattare i mostri che ci dilaniano, «qualcuno che testimoniasse per me, che mi alleggerisse del fardello immondo, che se lo prendesse...». In una pagina del diario il vecchio spiega il senso di questa nostalgia.

    Anche i migliori non imparano da soli ad amare; per passare al di là del ridicolo, dei vizi e soprattutto della bestialità umana, bisogna avere in sé un amore arcano che la gente non conosce. Finché questo segreto non sarà scoperto, cerchereste invano di mutare lo stato degli uomini. Credevo che fosse l'egoismo a rendermi estraneo a tutto ciò che non riguarda l'economia della società; e sono infatti un mostro di solitudine e d'indifferenza; ma verrà anche in me la sensazione, la certezza oscura che a nulla serve cambiare la faccia della gente; bisogna saper raggiungere il suo cuore. Cerco soltanto chi sarà capace di riportare questa vittoria; dovrebbe essere il Cuore dei cuori, il centro bruciante di ogni amore [8].

    Ecco quanto mancava al vecchio avvocato per sfuggire al suo inferno: la conoscenza di Colui che è Amore. Il suo diario s'interrompe con la rivelazione di Dio salvatore e coincide con la sua morte. «Ciò che questa sera mi soffoca, mentre scrivo queste parole, ciò che mi fa male al cuore tanto da sembrare che si spezzi, questo amore di cui conosco finalmente il suo ardor...».
    Mauriac compone la Vita di Gesù per ridirci che l'amore di Dio si è incarnato in Gesù Cristo. Dunque non un amore che è «un sentimento, una passione, ma una persona, qualcuno. Un uomo? Appunto, un uomo. Dio? Appunto, Dio. Lui che è qui» [9]. Qui, dove? Sulle strade e nei luoghi più impensati, in agguato, per ghermire i fuggitivi e gli sbandati e riportarli al sicuro.

    Già egli è imboscato, alla svolta della strada che va da Gerusalemme a Damasco, e spia Saul, il suo diletto persecutore. D'ora innanzi, nei destini di ciascun uomo, vi sarà questo Dio in agguato [10].

    Margherita da Cortona è una bellissima giovane, amante del signore di Montepulciano. Quando scopre il cadavere del suo uomo, crivellato di colpi, scopre anche la presenza dell'Altro che la cerca. «[...] si trovò a faccia a faccia con quell'Altro che non si era mai allontanato da lei, e che, di fronte alle peggiori bassezze di questa donna, non si era mai velato la faccia; non aveva mai cessato di fissarla» [11]. La vita di Margherita fu sconvolta. Trascinata dall'amore per il suo Salvatore, si spogliò di tutto per essere tutta sua.

    Ecco l'ultima volta dell'ignoto cammino dove, creatura distrutta, il Creatore irromperà come una marea. L'anima svuotata di tutto ciò che non è Dio, è infine da Dio investita, invasata, occupata, posseduta. «Io che sono stata tenebra» mormora confusa Margherita «io che sono stata più oscura della notte!». Cristo le risponde: «Perché ti amo, luce nuova, benedico la cella nella quale tu vivi nascosta nel mio amore»[12].

    Quale cella? Quella a fianco alla chiesa di San Francesco, a Cortona? O quella presso la Rocca della città? Anche queste, ma soprattutto la cella che era la sua persona, anima e corpo, trasformata in tempio di Amore. Mauriac conclude la biografia di Margherita con commosso stupore:

    Noi abbiamo creduto a questa follia: l'inserimento dell'eternità nel tempo, di Dio nell'uomo effimero. Abbiamo creduto l'incredibile: che l'Essere infinito si era inabissato nella povera storia umana [13].

    * * *

    L'opera di Clemente Rebora (1885-1957) è un itinerarium mentis in Deum: un itinerarium percorso in due tempi. Nel primo domina il buio di una vita senza significato, segnata dall'«indicibile tristezza dell'anima», dall'abulia e dalla stanchezza. «Sono come una rozza piena di mosche; e mi spazzo con la coda; verrà l'inverno, ma allora sarà freddo» [14]. Il secondo tempo è contrassegnato dal dramma di un convertito al Dio di Gesù Cristo, che deve farsi violenza per essere un'offerta di amore a Colui che ci ha amato fino alla follia. Questo itinerario è descritto in una silloge poetica [15] considerata tra le più genuine e paradigmatiche del primo Novecento.
    Era «un bellissimo giovane, occhi vellutati, espressione aperta, parola fatata» [16], ricercato, colto, promettente, ma tallonato dalla solitudine («sono nella più completa solitudine») e da martellanti interrogativi senza risposta. «Perché si continua a vivere? Che cosa ci stiamo a fare?» [17]. Nato da genitori mazziniani, garibaldini e massonici, era cresciuto senza fede cristiana, alla deriva. Un complesso di eventi sorprendenti lo portò alla conversione, a quarantatré anni. Temperamento deciso, volle essere totalmente consacrato all'amore di Dio. Divenne religioso rosminiano, prete e vittima con Cristo in una lunga e penosa malattia.

    La speranza è una lirica che sa di campana a morto e di alleluia pasquale; più che descrivere, grida il crollo delle illusioni e l'affermarsi dell'Amore.

    Speravo in me stesso, ma il nulla mi afferra.
    Speravo nel tempo: ma passa, trapassa;
    in cosa creata: non basta, e ci lascia.
    Speravo nel ben che verrà, sulla terra;
    ma tutto finisce, travolto, in ambascia.
    Ho peccato, ho sofferto, cercato, ascoltato
    la Voce d'Amore che chiama e non langue:
    ed ecco la certa speranza: La Croce.
    Gesù, l'Ognibene, l'Amore infinito,
    l'Amore che dona l'Amore,

    l'Amore che vive ben dentro nel cuore (p. 254).

    Gli ultimi versi presentano la base sulla quale Rebora ha costruito la sua spiritualità: Dio è Amore eterno; nel tempo s'incarna nel Cristo per esserci accanto, purificarci, guidarci, fortificarci. Inseriti nel Cristo, diventiamo tabernacoli dell'Amore. Gesù è l'«Amore che dona l'Amore», l'«Amore infinito», l'«Amore crocifisso», «Innamorante fuoco», l'Amore divino che si fa storia per costruire il «Regno dell'Amore» nel quale si consumano le nozze dell'Agnello con l'umanità nuova.

    E d'un dì mi accorsi: c'era Uno in Croce:
    si struggeva a guardarmi in un'offerta
    soave: solo mi voleva bene;

    più tardi intesi la sua parola interna:
    tu m'aprirai la porta del tuo cuore

    e a tu per tu noi ceneremo insieme (p. 296).

    Naturalmente l'amore esige l'amore. Difatti Rebora, dopo la conversione, è vissuto in tensione di totale donazione al Dio dell'Amore. Notturno è una lirica che scandisce i tempi di tale tensione; riecheggia santa Caterina da Siena, san Giovanni della Croce e talune pagine di Søren Kierkegaard.

    [...] Bello è l'offrir, quale il fiorire al fiore;
    ma dal sognato vien diverso il fatto.

    Padre, Padre, che ancor quaggiù mi tieni,
    fa' che in me l'Ecce non si perda o scemi!

    A non poter morire intanto io muoio (p. 273).

    Difatti moriva, lentamente, consumato da una incurabile e incresciosa malattia. Gli occhi fissi sul Crocifisso, vedeva l'Amore di Dio in opera, dall'eternità, unico movente di ogni iniziativa divina.

    Sal da anime percosse
    indistinto un clamore:
    «prima che il mondo fosse
    che facevi, Signore?».

    Pensavo a te, ti amavo,
    «E creando?» Ti amavo.
    «E incarnato?» Ti amavo.
    «Crocifisso?» Ti amavo.
    «Risorto? Asceso?» Amavo.
    «Ed ora? e in nostra morte?
    E nel finir del mondo?».
    Con forte amor profondo

    Ti amo; amerò. «Fin quando?».
    Sempre amerò regnando (p. 391).

    In questi versi lo sguardo del malato spazia sull'immensità dell'Amore, e la nostalgia dell'incontro con l'Amato diventa impazienza.

    Terribile ritornare a questo mondo
    quando già tutte le fibre

    erano tese
    a transitare (p. 277).
    L'incontro avvenne il 1° novembre 1957, solennità di tutti i Santi.

    * * *

    André Frossard (1915-1999), più che per la sua opera di narratore e di saggista, era conosciuto per i suoi servizi giornalistici su «Le Figaro». La sua notorietà ebbe vasta risonanza con la pubblicazione Dieu existe, je l'ai rencontré [18], in cui riferisce la sua conversione al cattolicesimo.

    Entrato alle cinque e dieci d'un pomeriggio in una cappella del Quartiere latino per cercarvi un amico, ne sono uscito alla cinque e un quarto in compagnia di un'amicizia che non era di questa terra. Entratovi scettico ed ateo di estrema sinistra, anzi - più ancora che scettico e più ancora che ateo - indifferente e preoccupato da ben altre cose che da un Dio che non pensavo neppur più a negare [...], ne sono uscito qualche minuto dopo «cattolico, apostolico, romano», trascinato, sollevato, ripreso, risucchiato dall'onda d'una gioia inestinguibile [19].

    Era il pomeriggio di una magnifica giornata di luglio. Per la sera André aveva un appuntamento con una ragazza tedesca di Belle Arti. C'era tempo per uscire in macchina con un amico. Dinanzi alla chiesetta delle suore dell'Adorazione riparatrice, l'amico scese e pregò André di attenderlo, dato il suo rifiuto di accompagnarlo. L'attesa si fece lunga; per ingannarla André raggiunse l'amico. Con sorpresa venne a trovarsi di fronte a cose mai viste. In fondo alla cappella l'altare era adornato di piante, candelabri e dominato da una grande croce che portava al centro un disco di un bianco smorto. Ignorava di trovarsi dinanzi al Santissimo Sacramento verso il quale salivano due file di candele accese. Alcune suore, con il capo velato, erano in adorazione. Nell'atto di fissare una candela, ecco una voce interiormente percepita, chiara e distinta: «Vita spirituale». Parole, queste, «non dette, e neppure formate da me stesso: sentite come se fossero pronunciate accanto a me da una persona che veda ciò che io non vedo ancora» [20]. Che cosa vide André in quei pochissimi istanti?

    Un cristallo indistruttibile, di una infinita trasparenza, di una luminosità quasi insostenibile (un grado di più mi avrebbe annientato) e piuttosto azzurrina, un mondo, un altro mondo di uno splendore e di una densità che rimandano di colpo il mostro tra le ombre fragili dei sogni irrealizzati. Questo mondo, è la realtà, la verità: la vedo dalla sponda oscura su cui sono ancora trattenuto. C'è un ordine, nell'universo, e alla sommità, al di là di questo velo di nebbia risplendente, l'evidenza di Dio, l'evidenza fatta presenza e l'evidenza fatta persona di colui che un istante prima avrei negato, colui che i cristiani chiamano «padre nostro», e del quale sento tutta la dolcezza, una dolcezza diversa da tutte le altre, che non è la qualità passiva designata talvolta sotto questo nome, ma una dolcezza attiva sconvolgente, al di là di ogni violenza, capace di infrangere la pietra più dura e, più duro della pietra, il cuore umano (p. 144).

    La «straripante irruzione» della dolcezza di un «altro mondo» si accompagnò con una gioia particolare: la gioia del «naufrago raccolto in tempo». André, sfuggito al «fango nel quale era immerso», si chiedeva come avesse potuto in esso vivervi e respirarvi. «Tutto è vero»: questa espressione ci rivela che in un attimo egli fu investito dalla gioia che scaturisce dall'incontro con la Verità contenuta nel Credo cattolico. La voce interiore «Vita spirituale» rovesciò il materialismo marxista da lui fino a quel momento professato e gli dette il sapore dell'eterno. Queste sensazioni di gioia e di stupore erano «dominate dalla presenza [.. .] di colui del quale» egli confessa «non potrò mai più scrivere il nome senza timore di ferire la sua tenerezza, colui davanti al quale ho la fortuna di essere un figlio perdonato, che si sveglia per imparare che tutto è dono» (p. 145).
    Tra i tanti doni di Dio scoperti dal neo convertito durante la preparazione al battesimo uno lo sorprese in maniera particolare: l'Eucaristia. «Non che mi sembrasse incredibile, ma mi stupiva che la carità divina avesse trovato questo metodo inaudito per comunicarsi, e soprattutto che avesse scelto, per farlo, il pane, che è l'alimento del povero e il cibo preferito dei ragazzi. Di tutti i doni profusi davanti a me dal cristianesimo era certo il più bello» (p. 148s).
    Frossard ha pubblicato Dieu existe, je l'ai rencontré trent'anni dopo la sua conversione. Perché così tardi? Certamente anche per un senso di pudore e di ritrosia a parlare di un evento così intimo e delicato nel quale è coinvolta l'esperienza mistica. Ma il motivo di fondo è un altro. Lo ha esposto lo stesso autore alla giornalista Ada Carella.
    L'ho scritto perché oggi si dimentica un po' troppo che il cristianesimo è una storia d'amore. Si discute per sapere ciò che è scaduto, ciò che resta valido, e si tace sull'amore di Dio. Se un vero teologo ci parlasse di Dio, e non di teologia, si vedrebbero le agitazioni cessare rapidamente, tutti si troverebbero d'accordo, non si tirerebbero fuori argomenti capziosi, ma si riconoscerebbe che Dio ci ama [21].
    Forse Frossard pecca un po' di ottimismo. Una cosa però è certa: la scoperta che Dio è Amore capovolge una vita, e anche la storia. La frase che conclude il volume ha un inconfondibile sapore agostinano: «Amour, pour te dire, l'éternité sera courte» (Amore, per parlare di te, sarà troppo corta l'eternità). Ne è anche la sintesi.

    NOTE

    1 G. von Le Fort, Il lino della Veronica, I.P.L., Milano 1936, 256.
    2 lbid., 300. 
    3 Ibid., 301. 
    4 Ibid., 302.
    5 G. von Le Fort, Inni alla Chiesa, Morcelliana, Brescia 1947, 79s.
    6 B. Pascal, Pensieri, Edizioni Paoline, Milano 1969, pensiero 143, 222.
    7 F. Mauriac, Groviglio di vipere, Mondadori, Milano 1952, 114. 
    8 Ibid., 190.
    9 F. Mauriac, Vita di Gesù, Mondadori, Milano 1937, 87. 
    10 Ibid., 291.
    11 F. Mauriac, Santa Margherita da Cortona, Logos, Roma 1982, 180. L'originale è del 1945. Esiste anche un'altra traduzione italiana pubblicata da Mondadori nel 1952.
    12 Ibid., 128.
    13 Ibid., 142.
    14 C. Rebora, Lettera a D. Malaguzzi, 1 maggio 1911 (cf N. Sarale, Dall'ateismo alla mistica, Dehoniane, Napoli 1981, 30).
    15 C. Rebora, Le poesie, Garzanti, Milano 1988. Le citazioni delle poesie si riferiscono a questo volume.
    16 M. Marchione, L'immagine tesa, Storia e letteratura, Roma 1947, 3.
    17 P. Rebora, Clemente Rebora e la sua formazione esistenzialista, in «Humanitas», II (1959).
    18 A. Frossard, Dieu existe, je l'ai rencontré, Fayard, Paris 1969. La traduzione italiana è stata pubblicata dalla SEI nello stesso anno. Le citazioni si riferiscono ad essa.
    19 A. Frossard, Dio esiste, io l'ho incontrato, SEI, Parigi 1969, 12s.
    20 Ibid., 143. San Giovanni della. Croce, nella Salita del monte Calvario parla del fenomeno mistico delle «parole sostanziali». Si tratta di parole che Dio fa sentire nell'anima producendovi sostanzialmente quello che significano.
    21 Intervista pubblicata su «Famiglia Cristiana», 16 aprile 1969.

    (da: Dio come tormento, Ancora 2010, pp. 171-183)


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