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    Il Terzo Mondo tra noi: lo «straniero» e l'educazione dei giovani



    Articolo redazionale

    (NPG 1992-6-20)


    1. IL PROBLEMA E LE PROSPETTIVE

    La presenza prolungata dello straniero (soprattutto terzomondiale) in Italia ed episodi recenti di intolleranza e razzismo hanno messo in luce la buona dose di indifferenza individuale e collettiva, e in ogni caso mostrato l'urgenza di un intervento non lasciato allo spontaneismo e alla buona volontà dei singoli.
    I disegni di legge discussi al riguardo e le leggi recentemente approvate hanno offerto una piattaforma per regolamentare alcuni aspetti della questione (immigrati extracomunitari e clandestinità, tutela dei diritti...). Tutto questo non è che un aspetto, per quanto importante, del problema: ma accanto agli interventi politico-giuridici non possono mancare quelli più propriamente politico-economici che tentino di affrontarne alla radice le cause strutturali (economiche e sociali). Ma la consapevolezza della complessità della situazione e della molteplicità dei livelli di intervento e soprattutto l'ambiguità di molti comportamenti personali e di mentalità collettiva rimandano ancor più al terreno etico-culturale, nel senso che viene imposta anche una revisione globale dei modi di atteggiarsi del singolo di fronte all'«altro».
    È a questo punto che viene chiamata in causa l'educazione, ed è sotto questa prospettiva che NPG affronta l'argomento, almeno in due direzioni: la creazione di mentalità e atteggiamenti nuovi nei giovani perché si pongano con attenzione e rispetto di fronte allo straniero e alla sua cultura; e, più globalmente, il ripensamento della propria cultura e identità per interrogarsi se in essa vi è spazio «per l'altro».
    Questa è sicuramente una prospettiva «povera»: i giochi e le soluzioni avvengono ad altri livelli, quello politico, economico, sociale. Quello educativo, anche in questo caso, è sempre un rischio e una scommessa: il rischio che si affrontino i problemi dei terzomondiale in maniera strumentale, come occasione per risolvere i propri problemi (di identità, di coscienza...), o accontentandosi di metterli «in agenda» per soluzioni future. Ma è anche una scommessa: la scommessa che creare mentalità culturalmente aperte e solidali, abilitare ad atteggiamenti e esperienze di comprensione e di dialogo... è il presupposto di fondo per la costruzione di una umanità planetaria interculturale e interrazziale, di comunità transnazionali, di una giustizia e solidarietà come patrimonio comune dell'umanità.
    Questa è dunque la prospettiva «educativo-culturale» di riferimento: l'offerta di una serie di contenuti «essenziali» e di connessioni che aprano a una cultura di multiculturalità, per passare insomma dalla cultura della diffidenza e del conflitto al rapporto interpersonale, alla convivenza solidale e pluralista.

    2. TRA DATI, INTERPRETAZIONI E NUOVE CATEGORIE

    Quando parliamo di «straniero», terzomondiale o altro, abbiamo in mente immagini, sensazioni, che guidano la nostra riflessione. La stessa definizione che ne diamo è fortemente segnata da residui psicologici che ci portiamo dentro e da immagini culturali all'interno delle quali definiamo l'«essere umano». Occorre esserne consapevoli per prenderne le distanze. Un primo accostamento al tema suscita in genere sentimenti di paternalismo, richiama figure di giustizia e solidarietà da applicare, di fraternità da realizzare; e, moralisticamente, immagini mitologiche di una umanità primitiva, «pura», spontanea.
    I sogni e le paure dell'occidentale costruiscono in tal modo una realtà che non esiste, sottacendo o negando i vari rapporti di dominio, di sfruttamento, di potere che di fatto storicamente sono connessi all'incontro con lo straniero.
    Ma più a fondo, il rapporto con lo straniero tradisce la sua ambiguità in quanto rivela e nasconde una conflittualità non eliminabile: egli è portatore di una identità e cultura «altra», di bisogni a volte radicali, di domande a cui non si è in grado di rispondere, di accuse allo stesso sistema sociale in cui egli tenta (e sogna) di entrare. La conflittualità, occorre riconoscerlo, non è soltanto nel rapporto con gli altri con cui egli deve entrare in contatto, ma anche dentro la sua stessa carne, perché egli deve per forza fuoriuscire da sé, dalla sua cultura, dalla sua gente, dalla solidarietà in cui era inserito, per trovare altrove accoglienza, casa, lavoro, diritti. La lingua che deve apprendere è come il simbolo della barriera obbligatoria da superare. Ma, oltre alle immagini mentali che rispecchiano fantasie, sogni, paure, abbiamo anche difficoltà a parlare dello «straniero» perché usiamo categorie imprigionate negli schemi culturali della nostra storia e tradizione. Il concetto stesso dice estraneità, distinzione basata su criteri etno (euro) centrici.
    Bisogna tuttavia andare cauti in riferimento all'atteggiamento globale europeo rispetto all'altro. Esso è pieno di figure antitetiche, non riconducibili facilmente a un modello unico: «nei confronti degli "altri" la reazione europea è stata composita: dalla demonizzazione all'idealizzazione, dal selvaggio-animale al buon selvaggio, dal giudizio di inciviltà all'ammirazione della raffinatezza culturale di altre civiltà, dal senso di superiorità alla spietata autocritica» (Rizzi): figure e atteggiamenti che convivono sia nella cultura europea che nei comportamenti individuali. Intanto un buon correttivo sarebbe quello di calare l'astrazione del concetto all'interno di una socio-cultura definita in termini economici e culturali.
    A questo punto lo straniero diventa «gli stranieri», cioè soggetti in diversi contesti. Diventa variabile fondamentale allora il livello di povertà (socioeconomica, culturale, democratica) che spinge i soggetti a diventare «stranieri» in una terra che non è la loro, e il livello di inserimento-integrazione acquisito (dal minimo della clandestinità al massimo dell'integrazione sociale effettiva con il godimento dei diritti del «cittadino»).
    Pur sapendo dunque che non possiamo parlare dello straniero se non da «collocati» (etnologicamente, culturalmente, socialmente, da una posizione privilegiata e di «potere», da una posizione non equidistante né paritaria), riconosciamo la povertà di elaborazione concettuale a disposizione, e di conseguenza la carenza di un pensiero capace di vedere le cose nella loro connessione e interdipendenza. Siamo consapevoli che molte delle questioni riguardanti il terzomondiale sono strutturalmente connesse e intricate, né ciascuna può essere presa in considerazione escludendo l'altra.
    Ma soprattutto, per comprendere e agire correttamente, riteniamo necessario un ripensamento delle categorie di pensiero che hanno finora fondato il nostro modo di rapportarci all'altro, così da lasciare entrare l'altro (nella sua ricchezza e radicale irriducibile diversità), lo straniero nella stessa definizione di umanità, di cittadinanza, di comunità.

    3. NON SOLO SOLIDARIETÀ: UN MODELLO CULTURALE PER L'EDUCAZIONE

    Un modello culturale per l'educazione nella complessità deve essere in grado di individuare connessioni significative tra coppie di valori non facilmente conciliabili, e che pure fanno parte del nostro irrinunciabile patrimonio culturale e personale. Ci riferiamo, ad esempio, alla relazione tra identità e alterità, tolleranza e riferimento a valori comuni per la comune convivenza, integrazione e scambio culturale... Si tratta cioè non di scegliere un valore eliminando l'altro che sembra opposto, ma di rispettare le esigenze di entrambi pur all'interno di una precisa collocazione. Se, prima di prospettare interventi educativi specifici, si rende necessaria una piattaforma culturale, non è tuttavia detto che l'Occidente (noi) parta da una posizione privilegiata, di superiorità. La nostra società e cultura non sono più (se lo sono mai state negli ultimi decenni) un tutto ben integrato, condiviso, omogeneo. Già da tempo invece nella nostra società si sono disgregati i tessuti associativi che, rimandando a una serie di valori fondamentalmente condivisi da tutti, permettevano appartenenza e integrazione. E si sono disgregati prima dell'arrivo dell'«altro», dello straniero di razza diversa: quest'ultimo ha soltanto reso più evidenti le lacerazioni del tessuto sociale e valoriale. In questa linea l'intervento di base è allora la riparazione di questo tessuto, nel senso di riscoperta e rivitalizzazione dei valori condivisi, nonché della solidarietà come anima della società e dei suoi rapporti interni, del riconoscimento pieno dell'altro nella sua irriducibile diversità e, appunto per questo, ricchezza.
    Proponiamo allora una schematica ipotesi di lavoro all'interno delle preoccupazioni espresse.
    Si tratta, in particolare, di percorrere alcune piste, complementari se pur di diversa natura:
    - il percorso psicologico e sociale della conquista dell'identità personale (il sé con le sue radici storiche e culturali) come base per l'accettazione autentica dell'altro;
    - il percorso della presa di coscienza della compresenza dell'altro nella dimensione più intima dell'io;
    - il percorso della deideologizzazione dell'identità culturale (quando radicata in una presupposta superiorità) e insieme dello svelamento dei pregiudizi radicati, delle paure inconsce, delle barriere interiori nel confronti dell'altro;
    - il percorso della ricostruzione della solidarietà e dell'allargamento della solidarietà dalla trama delle relazioni vicine alla scoperta del povero: l'altro nel suo bisogno e nella sua sofferenza;
    - il percorso dell'assunzione di responsabilità radicale verso l'altro come fondamento dell'etica;
    - il percorso della storicizzazione e concretizzazione del volto dell'altro;
    - il percorso dell'oltrepassamento della pura solidarietà per un riconoscimento dei diritti-doveri e cittadinanza dell'altro;
    - il percorso della scoperta della ricchezza delle culture «altre»;
    - il percorso dell'interiorità come luogo di rielaborazione delle scelte e di decisioni etiche nella responsabilità.
    Come si vede il discorso si amplifica a cerchi che si allargano, e rispecchia il cammino di approfondimento e ampliamento vissuto nelle discussioni redazionali.
    Il discorso su «il terzomondiale tra noi», che chiede immediati interventi a livello di umanità e di diritti civili, apre al tema della solidarietà che si allarga alla considerazione globale del nostro rapporto circa l'altro, non solo straniero: l'altro nelle forme storiche del povero e del diverso. L'educazione avviene quando si ricostruisce la possibilità nel giovane di confrontarsi responsabilmente con l'altro, aprendosi al suo riconoscimento e allo scambio. Di conseguenza, i percorsi indicati si raggruppano essenzialmente attorno ad alcuni nuclei fondamentali, quasi delle aree che si compenetrano e si richiamano a vicenda.
    Riprendiamo qui di seguito questi nuclei, mentre i singoli sentieri indicati possono essere, per l'educatore, tappe di un progetto più allargato.
    In particolare, questi nuclei sono fondamentalmente:
    - il tema dell'identità da riscoprire nel suo fondamentale richiamo all'alterità già nella sua stessa costituzione (psicosociale e culturale);
    - il tema della solidarietà da allargare sempre più fino a viverla come responsabilità verso i nuovi prossimi;
    - il tema dell'altro (del terzomondiale, dello straniero) nella duplice forma di «povero» (essere di bisogno: di riconoscimento, di diritti sociali e civili..) e di «cultura altra» (una positività da riconoscere e accogliere come arricchimento delle forme culturali in cui si dice l'uomo... ma fino a dove?);
    - il richiamo a una metodologia educativa corretta e adeguata per questo ambito.
    Ma anzitutto una precisazione, per non incorrere in pericolose confusioni. Una cosa è parlare del processo psico-sociologico della costruzione dell'identità, assolutamente necessaria per la possibilità di scelte mature e responsabili delle persone; un'altra è parlare del «principio identità» come paradigma su cui è costruita la cultura della soggettività occidentale (come rinchiusa in se stessa).
    Quando parliamo della necessità di costruirsi un'identità matura e responsabile, intendiamo sottolineare che soltanto un io autentico può rapportarsi a un «tu»; che un «io» come soggetto responsabile è centro e unità di passato, presente e futuro, e dunque vive radicato culturalmente e capace di progetto, e che solo così le culture possono entrare in scambio, dialogo e reciproco arricchimento. Non esiste possibilità di solidarietà, cioè di rapportarsi con giustizia e carità all'altro, soprattutto l'altro povero e diverso, se non da parte di soggetti che non hanno rinnegato la loro soggettività più profonda, e con le spalle solide e capaci di non farsi schiacciare dalla miseria e dall'ingiustizia.
    Quando parliamo di «principio identità» da superare, intendiamo fondamentalmente il discorso di Lévinas sull'involuzione su cui alla fine si regge il pensiero della soggettività pura, o perlomeno sul grave rischio di non uscire dagli stretti ambiti in cui essa è bloccata.
    Ripercorriamo le indicazioni espresse in alcuni sentieri, con stimoli che sollecitano a una riflessione più articolata.

    3.1. L'accettazione profonda della propria identità personale e culturale come base insostituibile per l'incontro con l'altro nella solidarietà
    Iniziare a ricostruire o consolidare un tessuto di solidarietà come qualità dell'incontro con l'altro non è possibile se non da parte di un soggetto in grado di accettare se stesso e le proprie radici. Solo così può iniziare un cammino autentico dell'io verso il noi.
    È infatti meccanismo fondamentale dello psichismo umano l'accettazione della propria identità profonda, delle proprie premesse, delle proprie radici (nel bene e nel male) per poter stabilire un qualunque rapporto costruttivo con l'altro; diversamente non si incontra l'altro nella sua realtà, né il bisogno dell'altro, ma unicamente le proprie paure, proiezioni, fantasmi, ciò che non si accetta di se stessi.
    Dire accettazione delle proprie radici significa riconoscere che ci si trova collocati storicamente all'interno di una società che è l'humus della cultura e dei valori di cui si è plasmati, e che hanno formato il modello d'uomo che siamo, nella sua ricchezza e nei suoi limiti. La perdita della propria identità (per rifiuto personale o per anomia sociale) è fondamentalmente anche chiusura all'altro, perché non riconoscimento del bene fondamentale che è la persona e la sua integrità nei suoi diritti e doveri inalienabili. L'altro è comunque presente già radicalmente nella stessa identità personale, e non solo perché l'intersoggettività in cui essa cresce e si sviluppa è un dato originario e fondamentale, ma anche perché la stessa identità si struttura e si differenzia in riferimento all'altro, a cui si è accomunati e insieme da cui ci si differenzia, in una rete di relazioni costitutive. Ci si allarga allora progressivamente anche nella scoperta esistenziale che il proprio progetto di vita non è isolato, ma include l'altro, perché è interrelato con gli altri progetti di vita (passati, presenti, futuri): dunque apre alla responsabilità e alla solidarietà e, soprattutto di fronte alle esperienze di scacco e di negatività, nella direzione di una solidarietà sempre più allargata, dai mondi vitali alla società all'umanità intera.
    Il progetto di uomo all'interno di ogni cultura è sostanziato di valori e atteggiamenti di accettazione e promozione della vita, quella propria e quella altrui, e di responsabilità perché la vita sia promossa per tutti in pienezza. Esige quindi uno scavo nella cultura per accoglierne i germi positivi di vita e di rifiuto dei germi e segni di morte e di ingiustizia.
    Un autentico incontro con le culture avviene infatti sul terreno dei valori che promuovono la vita o la rinnegano: e questo alla fine diventa il limite della tolleranza, dell'integrazione culturale.
    All'interno di questa prospettiva, di legame profondo e vitale tra identità, cultura, valori della vita, una sottolineatura educativa invita alla restituzione all'altro della propria dignità umana e della concretizzazione storico-culturale-valoriale della sua esistenza. È dunque la strategia dell'affermazione fondamentale del diritto di tutti alla vita e alla propria dignità. Chi operasse per operare uno sradicamento o un rinnegamento, distrugge la persona nei suoi elementari diritti.

    3.2. Il cammino della solidarietà: dalla piccola alla grande solidarietà
    «Rabbi Moshe Lob narrava: Come bisogna amare gli uomini, l'ho imparato da un contadino. Questi sedeva in una mescita con altri contadini e beveva. Tacque a lungo come tutti gli altri, ma quando il cuore fu mosso dal vino, si rivolse al suo vicino dicendo: "Dimmi tu, mi ami o non mi ami?". Quello rispose: "Io ti amo molto". Ma egli disse ancora: "Tu dici: io ti amo e non sai cosa mi affligge. Se tu mi amassi in verità, lo sapresti". L'altro non seppe che rispondere, e anche il contadino che aveva fatto la domanda tacque come prima. Ma io compresi: questo è l'amore per gli uomini, sentire di che cosa hanno bisogno e portare la loro pena» (M. Buber, I racconti dello Chassidim, p. 406).
    Parlando di «piccola solidarietà» intendiamo soprattutto riferirci a quella espressa e vissuta all'interno della trama di relazioni faccia a faccia o di piccolo gruppo e di vicinato, quella per cui la sofferenza ci colpisce attraverso la sofferenza di persone a noi vicine o direttamente collegate. La «grande solidarietà» intende invece riferirsi a quella per cui ci si sente solidali e sofferenti là dove l'uomo, il piccolo, il povero è colpito, anche se non direttamente a contatto con noi.
    Rimandiamo all'articolo di J. Vecchi per cogliere gli aspetti pedagogici della cultura della solidarietà.
    Si è dunque chiamati alla scoperta e alla creazione dei segni di solidarietà nella vita e nei rapporti sociali. La nostra società presenta un insieme di segni negativi di chiusura, individualismo, narcisismo, competitività, e nello stesso tempo di sistemi e reti di protezione sociale (soprattutto all'interno dei gruppi sociali primari e degli ambiti vitali) che garantiscono l'integrità personale psichica e sociale, attraverso l'accettazione, il riconoscimento, l'appartenenza, la solidarietà. Nonostante questi sistemi esiste il dolore, la sofferenza, lo scacco.
    La solidarietà non è allora essere buoni, semplicemente «scoprire l'altro», ma scoprire l'ingiustizia profonda presente là dove la felicità e il benessere sono soltanto personali e i diritti patrimonio di pochi. Ciò allora spinge a ristabilire dentro la propria vita un tasso di giustizia, e a lavorare per costruire strutture di giustizia.

    3.3. La scoperta piena dell'alterità o il superamento del «principio identità»: l'altro come appello e orizzonte di ricomprensione dell'identità personale, del mondo, di Dio
    Il fenomeno fortemente attuale dell'immigrazione con l'irruzione massiccia del povero sulla scena del mondo (ma soprattutto «in casa nostra» accanto alle povertà già note) e la presenza di culture diverse, sono un elemento «epocale» di assoluta novità. Se a questi dati si aggiunge la crisi della matrice di pensiero dell'Occidente e la difficoltà a elaborare un pensiero nella direzione dell'alterità, la presente può essere un'occasione favorevole per un ripensamento globale del modo di affrontare il tema dell'altro, e in questo caso dello straniero tra di noi, e i temi collegati: tolleranza, solidarietà, integrazione, cittadinanza, convivialità.
    Emergono ormai nel pensiero contemporaneo due paradigmi filosofici fondamentali: il principio «identità» (il concentramento sul soggetto, sul sé) e il principio «alterità» (l'altro come centro). (Per una chiarificazione terminologica dei termini introdotti e per una fondazione filosofica e teologica del «principio alterità» rimandiamo a C. Di Sante, «L'alterità, tracce di un nuovo pensiero», in NPG 3/91, e all'articolo pubblicato in questo stesso dossier).
    La cultura dell'Occidente è essenzialmente una cultura dell'identità: identità costruita su categorie razziali, culturali, etniche, e identità centrata sul sé; l'altro non è un soggetto, ma è definito solamente in relazione o contrapposizione: è il «diverso da me», il nemico... dunque è visto in un rapporto in cui egli mi sta davanti in un'immagine speculare al rovescio.
    È facile vedere storicamente la presenza dell'altro come nemico da cui difendersi o da rendere perlomeno innocuo, più che come sfida culturale, un «compagno di viaggio» nel cammino dell'umanità o coinquilino della comune casa.
    Questo non significa ovviamente condanna in blocco dell'Occidente; ciò non renderebbe giustizia a quelle acquisizioni di autocoscienza umana che sono storicamente frutto dell'Occidente: la democrazia e il socialismo come figure istituzionali, o l'autonomia del soggetto e la solidarietà tra soggetti autonomi, base antropologica di quelle istituzioni.
    Il pensiero dell'alterità non è dunque alternativo in toto al pensiero occidentale; è una delle sue possibilità, in parte rimasta inoperante, in parte sviluppata in forme improprie, ma ancora capace di rivivere e di promuovere vita. Risulta comunque abbastanza evidente il carattere «ideologico» di questo concetto di identità, ricoperto di incrostazioni culturali e categoriali, e si rende necessaria una «decostruzione» dell'identità così concepita e fondamentalmente vissuta per arrivare all'elementare «umano comune». Ciò esige uno «sfondamento» culturale di portata epocale dentro gli orizzonti più maturi del personalismo cristiano, opera che filosoficamente si ricollega, oggi, al pensiero di Buber e Lévinas, nonché alla crescita di un pensiero che prende atto della caduta degli idoli metafisici.
    È nota l'immagine con cui Lévinas presenta l'autocomprensione dell'Occidente: Ulisse che, partito dalla sua terra, affronta avventure e peripezie - «l'odissea», appunto - ma col pensiero fisso al giorno e al luogo del ritorno: immagine dell'io che esce da sé per incontrare il mondo ma con l'intenzione di tornare a se stesso con tutto il bagaglio delle esperienze e delle conquiste fatte. Ma non è questo, per Lévinas, il movimento radicale in cui si costituisce l'umano. Contro tutta - o quasi - la tradizione del pensiero occidentale, egli vuole ritrovare quella singolare identità dell'essere umano che consiste nell'esodo, nell'uscita da sé verso l'Altro - l'altro uomo - non per rientrare in sé con il bottino della sua presenza ma per restare con lui e per lui... Solo nella singolare identità dell'essere-per-l'altro l'Occidente potrà trovare un'uscita dalla crisi valida e risolutiva.
    Ma il discorso sull'altro, oltre Lévinas, deve oggi specificarsi e dilatarsi verso l'immenso supercontinente della povertà assoluta, il Terzo Mondo: l'irruzione del povero sulla ribalta della storia universale, l'altro come bisogno radicale, anche di sopravvivenza, di cui è portatore. L'attuale drammatica presenza dello straniero (soprattutto terzomondiale) e del povero in carne ed ossa come essere di bisogno che appella, offre l'occasione di ripensare l'esperienza dell'esodo anche come esperienza dell'uomo oggi e di ridefinire la legge del reale come la legge dell'alterità o dell'amore di alterità: un rapportarsi all'altro in cui al centro non stanno diritti, identità, cultura..., ma il bisogno che è l'altro, lo sguardo sugli altri come esseri di bisogno.
    Questo «principio alterità» si fa allora orizzonte di ricomprensione e ridefinizione:
    - dell'io: l'essere viene ridefinito come responsabilità di fronte all'appello, che diventa condizione di salvezza dello stesso io. Come nella parabola del samaritano, l'identità di partenza coi suoi progetti viene sospesa e rinviata, fino a che l'altro non viene salvato;
    - dell'altro: lo spazio della salvezza non è quello definito dalla linea divisoria tra chi è prossimo e chi non lo è, tra chi è «affine» e chi è «altro», escluso dalla prossimità. Non esistono prossimi in partenza, ma solo la possibilità di «farsi prossimo». L'umanità fragile e negata dell'altro è il luogo dell'appello;
    - del mondo: la nuova identità che riceve il mondo è quello di un insieme di risorse e di beni di cui l'uomo può disporre, come ricchezza nella prospettiva dell'alterità;
    - di Dio: superamento di ogni definizione confessionale di Dio e un suo riconoscimento transconfessionale. La ridefinizione dell'io e dell'altro entrano nella stessa ridefinizione di Dio: come istanza suprema che chiama nel povero, e che amarlo con tutto il cuore e con tutte le forze è servire il povero al di là di ogni umana prossimità. E diventa pure, in una compiuta elaborazione e applicazione, principio su cui costruire la convivenza umana, l'organizzazione democratica della società e delle istituzioni, nonché di mediazione dei conflitti e di uso del potere, come anche base per la costruzione di un uomo nuovo attraverso l'impegno educativo.
    È in connessione con tale principio «alterità» che si possono affrontare e portare a soluzione adeguata i temi caldi del dibattito: integrazione, diritti, cittadinanza piena. Diversamente qualunque soluzione non può che essere un palliativo o comunque sospesa al filo delle emozioni del momento o delle intese politiche occasionali.

    3.4. L'incontro con le culture «altre» come comune verifica del servizio della cultura alla promozione del valore «umanità»
    Un ambito applicativo particolare del «principio alterità» lo si può rintracciare, con tutta la sua carica innovativa, sul terreno dell'incontro con l'altro come «cultura altra», cioè nella diversità di cui la sua identità culturale si fa portatrice. In questo caso, non si tratta più semplicemente di un «essere di bisogno» a cui assolutamente venire incontro, ma di un soggetto da accogliere, comprendere, valorizzare appunto nella ricchezza della sua diversità.
    Lungo la storia, rispetto alla diversità culturale, le posizioni sono state tra le più varie, e in genere esprimenti o lo stupore e il fascino di un'umanità completamente diversa, o il globale giudizio di inferiorità e il conseguente disprezzo o annichilimento o assimilazione. L'incontro-dialogo-arricchimento reciproco in genere è stato più «imposto» da accadimenti storici, che un punto fisso di partenza.
    Le posizioni odierne (assimilazione integrazione, dialogo sui valori) rispecchiano tale varietà di posizioni, ma diventano sempre più radicali per il contatto non più occasionale e per lo scontro sui valori. Il dibattito attuale è dunque quasi esclusivamente sulla possibilità di dialogo, su quale integrazione e quale tipo di accoglienza e rispetto della cultura di cui sono portatori coloro che sono accolti nei nostri paesi. La falsamente neutrale posizione relativistica (prospettivismo culturale) difficilmente può rappresentare il punto di partenza del dialogo tra le culture, in quanto non basta «osservare» le culture ma occorre valutarle sulla base del loro effettivo esprimere e favorire la liberazione e la crescita dell'uomo.
    Rimandiamo, per un approfondimento, al libro di A. Rizzi L'Europa e l'altro, da cui ricaviamo alcune piste di analisi che seguono.
    Il punto di partenza per una corretta epistemologia del dialogo tra le culture è la distinzione tra capire una cultura e giudicarla: in questo caso il punto decisivo non è solo «capire il mondo dell'altro» o assenso/dissenso veritativo, ma accordo/disaccordo sui valori.
    E se il capire è possibile perché le culture non sono mai così «altre» da non presentare un patrimonio di elementi comuni, come ad esempio il mondo elementare d'esperienza con le sue unità di senso, il valutare diventa d'obbligo quando si tratta di riportare la persona e il suo sistema di valori a un diverso sistema assunto come criterio di verità: non tanto il semplice principio della tolleranza quanto l'effettiva promozione del valore della vita o, volendo, la verità che è l'amore.
    È dunque su questo piano che un effettivo incontro e arricchimento tra le culture «altre» è possibile e auspicabile, e diventa fecondo quando riesce a forzare l'identificazione coatta tra persona e cultura con i carichi di sofferenza che a volte impone, e quando riesce a individuare il bisogno e il grido di umanità a volte silenziosi, a volte soffocati, che emergono dalle persone.
    È su questo principio-verità in senso assiologico che può fondarsi il dialogo tra le culture, quando si individua nell'amore la possibilità liberatrice della verità: «l'amore-compassione che, identificandosi con l'altro come povero, può giudicare le sue condizioni d'esistenza (comprese quelle culturali) sul metro del suo bisogno e della sua sofferenza; l'amore misura ideale e definitiva dell'umano, cui anche l'altro è chiamato e sulla cui esigenza va misurato ogni tratto culturale».

    3.5. Una metodologia educativa corretta
    Ricordiamo che ci si colloca specificamente in campo educativo, dunque all'interno di quella prospettiva che vede nel cambiamento culturale e delle coscienze il punto di partenza privilegiato e necessario per un cambiamento di mentalità, anche perché ogni altra necessaria soluzione del problema (politica, economica, sociale) manca di quella comprensione e di quell'anima che non deve mancare nell'incontro tra persone.
    I parametri di riferimento dell'azione educativa non possono che essere la gradualità (dall'indifferenza all'accoglienza alla solidarietà alla convivialità), la concretezza (della situazione, delle persone, dei problemi), la tensione tra utopia e realismo, tra atteggiamenti personali e proposte politiche, tra convinzioni personali e coinvolgimento delle strutture e delle istituzioni, il pensare in comune percorsi collettivi oltre le esperienze individuali...
    Concretamente sembra importante avviare verso un processo di deideologizzazione dell'identità culturale da quegli elementi che non lasciano spazio all'ingresso dell'altro nel proprio mondo; di educazione al senso critico, al pensare complesso e interconnesso; dell'accettazione e riconoscimento della differenza come fatto, valore, risorsa, diritto; dell'educazione alla mondialità nelle sue tipiche tematiche di educazione alla pace, allo sviluppo, all'ambiente, all'interscambio...
    Tutti i processi che sono tappe progressive e complementari di quell'educazione all'accoglienza e all'accettazione dell'altro, portatore di un'umanità nuova.


    T e r z a
    p a g i n A


    NOVITÀ 2024


    Saper essere
    Competenze trasversali


    L'umano
    nella letteratura


    I sogni dei giovani x
    una Chiesa sinodale


    Strumenti e metodi
    per formare ancora


    Per una
    "buona" politica


    Sport e
    vita cristiana
    rubrica sport


    PROSEGUE DAL 2023


    Assetati d'eterno 
    Nostalgia di Dio e arte


    Abitare la Parola
    Incontrare Gesù


    Dove incontrare
    oggi il Signore


    PG: apprendistato
    alla vita cristiana


    Passeggiate nel
    mondo contemporaneo

     


    NOVITÀ ON LINE


    Di felicità, d'amore,
    di morte e altro
    (Dio compreso)
    Chiara e don Massimo


    Vent'anni di vantaggio
    Universitari in ricerca
    rubrica studio


    Storie di volontari
    A cura del SxS


    Voci dal
    mondo interiore
    A cura dei giovani MGS

    MGS-interiore


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    Giovani e ricerca

    Rivista "Testimonianze"


    Universitari in ricerca
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    Un "canone" letterario
    per i giovani oggi


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    Tra cinema e teatro

    A cura del CGS


    Recensioni  
    e SEGNALAZIONI

    invetrina2

    Etty Hillesum
    una spiritualità
    per i giovani
     Etty


    Semi e cammini 
    di spiritualità
    Il senso nei frammenti
    spighe


    Ritratti di adolescenti
    A cura del MGS


     

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