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    Genova, Brindisi, Bologna. Tre tappe per una PG della cura


     

    Giordano Goccini

    (NPG 2017-04-06)


    Pubblicare gli Atti di un convegno è operazione audace e un po’ ingannevole. Da una parte esprime la buona intenzione di chi cerca tutti i mezzi per condividere una scoperta. Dall’altra c’è l’illusione, un po’ ingenua, che si possano ridurre quattro giorni di incontri e contaminazioni tra centinaia di corpi, cuori e menti in poche pagine di parole. E qui si cela una tragica insidia dei tempi (post)moderni: la tentazione di travalicare i limiti situazionali ed essere sempre “connessi”.
    Un incontro si svolge in un tempo e in uno spazio tra persone precise e con certe modalità definite. Possiamo filmarlo, riprodurlo, fotografarlo, ma rimane un evento che una volta compiuto non è più a nostra disposizione. Come un pranzo festivo dalla nonna: è ben diverso sentirlo raccontare o sedersi a tavola e mangiare le lasagne! Ecco, di questi tempi è necessario ricordarci di questa ovvietà: un convegno è molto di più delle parole che vengono dette. E sarebbe una terribile illusione quella di chi pensasse, accostando le molte parole, di poter accedere all’evento nella sua ricchezza. Ci vuole ben altro. Ci vorrebbe qualcosa che comprenda atmosfere e sapori, voci e ambienti, profumi e sensazioni, itinerari e orizzonti. Non resta che andare a interrogare chi c’era, cercando di carpirne la testimonianza diretta, dato che tre quarti delle diocesi italiane erano ben rappresentate a Bologna.
    Tuttavia anche le parole, nella loro povertà, hanno molto da darci. Soprattutto perché una volta risuonate in quell’aula non smettono più di tormentarci e provocare e diventano appello e creazione. Le parole dette (e accolte, dato che solo le parole realmente ascoltate possono produrre significati!) al convegno possono uscire da quel tempo/spazio e risuonare ancora, avvilupparsi a nuove biografie e generare storie inedite. Ecco perché le parole, scritte e rilette, anche dopo settimane, mesi e anni possono ancora generare e produrre concetti, relazioni, intrecci e novità.

    Un fiore

    Se il convegno è anzitutto evento, come abbiamo detto, dovremo cercare di restituirne, insieme alle parole e ai concetti, anche le cornici di senso che i partecipanti hanno elaborato. È a loro anzitutto che rivolgiamo la nostra attenzione. Chi c’era al convegno di Bologna? Sappiamo che erano rappresentate oltre 160 diocesi italiane, insieme a religiosi, associazioni, gruppi e movimenti con circa settecento partecipanti. Ma al di là dei numeri significa una buona fetta di persone che nella Chiesa riveste un ruolo molto particolare. Parliamo di quell’universo che ruota attorno al Servizio diocesano di Pastorale giovanile e che non solo tenta di “fare” delle attività educative con e per i giovani, ma si preoccupa di pensarle, progettarle, verificarle, orientarle in un cammino.
    Si tratta di un ministero che non si mette direttamente al servizio dei giovani, ma di coloro che li servono. Che si assume l’arduo compito di educare gli educatori, mantenendo la tensione alla progettazione, agli sguardi ampi, alle visioni di lunga durata, ai cammini distesi, ma soprattutto alla fecondità spirituale delle nostre comunità che sembra affievolirsi sempre più. La domanda che ha accomunato tutti i partecipanti al convegno non è soltanto: “cosa possiamo fare per i nostri giovani?”, ma “come possiamo aiutare le nostre comunità ad essere generative?”. È una prospettiva ministeriale più profonda e particolarmente delicata (che sa stare dietro le quinte) costretta ogni giorno a portare il peso della “cura” e dell’“attesa” facendo i conti con la duplice tentazione dell’astrazione teoretica disincarnata e della ricerca delle soluzioni a buon mercato.
    Il fiore posto la mattina del lunedì sulla tomba di don Riccardo Tonelli – sepolto proprio alla Certosa di Bologna – fondatore di questa rivista e padre della riflessione ecclesiale sui giovani degli ultimi decenni, vuole implorare sul nostro lavoro questa “sapienza” che viene dall’alto.

    Un cammino

    C’è un cammino ecclesiale che ci ha portati fin qui e che negli ultimi anni ha assunto una direzione più precisa, benché intersechi traiettorie molteplici. È il percorso iniziato con il decennio dedicato ad Educare alla vita buona del Vangelo e che ha trovato nel Convegno di Firenze uno sviluppo nelle “cinque vie”; un cammino che cerca nell’Evangelii Gaudium la rotta da seguire e nel Giubileo della misericordia uno stile da vivere; nella GMG di Cracovia un’esperienza di Chiesa e il trampolino per una stagione di cambiamenti epocali. Infine trova nel Sinodo dei vescovi sui giovani la grande occasione per un discernimento ecclesiale e per il rinnovo di una passione educativa.
    In tutto questo intreccio, dove la ricchezza di parole, esperienze, ispirazioni è sovrabbondante e quasi sfacciata, la PG nazionale ha cercato di tracciare il modesto percorso per crescere insieme.

    Cerchiamo di ricordarne le tappe fondamentali.
    A Genova, nel febbraio 2014, ci siamo posti “tra il porto e l’orizzonte”, alla ricerca di un progetto, confrontandoci con le rotte già tracciate e la chiamata a “prendere il largo” per esplorare nuovi tragitti. Ci siamo interrogati su cosa costituisca per i nostri giovani un “porto” sicuro, in cui trovare approdo e come appassionarli alle partenze, risvegliare il desiderio di orizzonti audaci, di traiettorie fantasiose e territori inesplorati.
    A Brindisi l’anno successivo abbiamo proseguito la riflessione volgendo lo sguardo alla complessità del mondo giovanile, alle sue sfide evolutive e alle differenziazioni delle fasce d’età, nella ricerca di un progetto che potesse abbracciare ampiezza e specificità. “Il cantiere e le stelle” rappresentano l’orizzonte bifocale in cui si muovono i nostri passi, chinati su un lavoro incessante e capillare senza smettere di alzare lo sguardo al cielo per trarne ispirazione, conforto e luce.
    A Bologna siamo giunti – dopo aver celebrato un anno giubilare di inaspettata ricchezza – ad un passo ulteriore, al bisogno di prenderci cura di coloro che nella comunità accettano il difficile compito di accompagnare cammini di crescita. “La cura e l’attesa” connotano nello stesso tempo lo stile dell’educare e la complessa trama della formazione degli educatori nel contesto di una comunità generativa.

    Frammenti

    Di cosa siamo testimoni noi che abbiamo vissuto il convegno? Cosa abbiamo visto in quei giorni che le nostre parole e la nostra vita non possono tacere? Di cosa abbiamo goduto dentro e oltre le parole a cui possono attingere anche i lettori di questa rivista?
    Abbiamo vissuto la gioia di un incontro, di quella grazia “a caro prezzo” che si conquista nella fatica e rimane dono immeritato. La gioia di sentirsi immersi in un intreccio di contenuti profondi, di clima frizzante, di speranze contagiose.
    Abbiamo visto, sotto le sopracciglia cespugliose di Vittorino Andreoli, il suo sguardo sognante, gravido di immutata passione per i matti, gli sbagliati, i devianti, i fuori standard.
    Abbiamo sentito nelle parole impetuose di Mons. Galantino – sotto lo sguardo pacato del crocifisso risorto di Rupnik nella Chiesa del Corpus Domini – l’urgenza di una conversione ecclesiale che ci faccia abbandonare le vesti dei supereroi e ci faccia abbracciare la sapienza della croce.
    Abbiamo intonato un inno alla vita ferita con la voce dolcissima di Chiara, donna errante dallo sguardo sempre rivolto al cielo e dal cuore che si lascia sfregiare dagli inferni della storia (senza rinunciare ai fiocchetti della camicia). Ci siamo lasciati trascinare sul precipizio delle nostre biografie alla scuola di un giovane recluso e di quel “può darsi!” che evoca frammenti di verità da far tremare le nostre sicurezze.
    Abbiamo seguito don Erio Castellucci alla ricerca dei germi di fecondità nelle nostre comunità, bloccate dalle loro paralisi generative, che scambiano la ricerca vocazionale con una stagione venatoria di assegnazione di ruoli. Abbiamo scoperto un vescovo che è stato adolescente e trasgressivo e che riesce a farne memoria accogliendo squarci nuovi di misericordiosa comprensione della realtà.
    Abbiamo ammirato con il naso all’insù i mosaici di Ravenna che ci raccontano di una fede antica e profonda, essenziale e vivace, come il temperamento dei romagnoli che sanno far festa come nessun altro. Abbiamo gustato la sobria e delicata paternità del vescovo Andrea, nella veglia in Sant’Apollinare e nel “diario di un vescovo alla GMG” pubblicato nel quaderno del convegno (da non perdere, assolutamente!).
    Ci siamo confrontati nei lavori di gruppo, ospiti delle parrocchie bolognesi, per contaminarci insieme con la diversità delle impressioni e delle esperienze. Abbiamo osservato i nostri oratori con i numeri vivi di Nando Pagnoncelli e con le parole debordanti di sanguigna passione educativa di Marco Moschini. Con l’aiuto di don Michele ci siamo interrogati sulle linee che il Sinodo dei giovani suggerisce alla nostra pastorale e sul cammino che ci attende nei prossimi anni.
    Abbiamo salito da pellegrini il porticato alla Madonna di San Luca, che veglia sulla città e prega per i bolognesi indaffarati. Il vescovo Matteo, nella celebrazione conclusiva, ha riaperto i nostri occhi sui giovani feriti e il loro grido.

    Fragilità

    Sono soltanto alcune pennellate delle scoperte che hanno accompagnato questi giorni, forse nemmeno le più importanti. Ognuno ha il diritto di sentirsi trascinato da altre sensazioni e riflessioni. Anche chi non c’era e tenterà di raccogliere qualcosa nelle pagine seguenti. Ma nell’intreccio di queste pennellate prende forza una immagine vivida, chiara, lucente. Una consapevolezza che atterrisce man mano si fa più evidente. Una parola che normalmente ci fa paura, ma è stata ripetuta più volte in diverse situazioni ed è riecheggiata in molti racconti. Un termine che abbiamo riscoperto nella sua debole onnipotenza: la “fragilità”.
    Una dimensione umana che non amiamo, benché accompagni i nostri passi senza abbandonarci mai. Una consapevolezza dalla quale tentiamo di fuggire, emendarci, affrancarci. In essa finalmente abbiamo intravisto cammini di riconciliazione, traiettorie di risveglio, raggi di risurrezione. È forse la parola che il Convegno di Bologna ci ha restituito in tutta la sua forza, nell’onnipotente debolezza che possiamo contemplare nella croce di Gesù e che possiamo scoprire alleata del nostro piccolo impegno educativo.


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