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     Il ciclo pittorico

    «Il Figliol prodigo 

    nella vita moderna»

    di James Tissot

    2. Nel Paese straniero

    Note estetico-spirituali di Maria Rattà


    Prosegue il viaggio per immagini nella parabola del Padre misericordioso, attraverso il ciclo «Il Figliol prodigo nella vita moderna» del pittore francese James Tissot. In questa puntata verrà analizzato il secondo quadro della serie.

    2. NEL PAESE STRANIERO

    «Il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose,
    partì per un paese lontano
    e là sperperò il suo patrimonio,
    vivendo in modo dissoluto
    » 
    (Lc 15, 13).

    Nel Paese stranieroopt


    «Nel paese straniero» («In foreign claims») è la seconda tappa pittorica nella storia del Figlio prodigo. Il minore viene colto nel momento apparentemente più felice della sua nuova vita. Pienamente libero e totalmente indipendente, il giovane raggiunge (o sta per farlo) l’apice illusorio della "sua" parabola, quel tratto “ascendente” di chi pensa di potersi realizzare allontanandosi da casa.

    I colori della solitudine

    Dove, quando

    Tissot identifica il «paese lontano» (Lc 15,13 ) della parabola con il Giappone. La scelta non è casuale, e neppure semplicemente dettata dall’ampia distanza tra Inghilterra (“set” della prima scena) e il Paese del Sol Levante. Il quadro si fa portavoce della passione per l’arte giapponese che scoppia in Europa nella seconda metà del XIX secolo [1] e che si manifesterà in varie correnti pittoriche (una su tutte l’Impressionismo), letterarie e musicali [2]. In Francia, negli anni ‘60 dell’800 diventano molto popolari delle foto che possono considerarsi «immagini realiste, proprio nel senso che il termine cominciava ad avere negli atelier parigini», ossia «scene della vita nelle città del Giappone» [3] ed è «relativamente facile reperire oggetti d’arte e artigianato giapponese» [4]. Ecco allora che il giovane inglese protagonista della parabola «nella vita moderna», «invece che nell’India britannica [5], finisce in un ambiente effeminato, decadente, ciondolando e bevendo del sake stando seduto sul tappeto, in compagnia di un bohemien, in quello che sembra il quartiere d’intrattenimento di Yokohama» [6].

    In foregn claims detail 1

    L'ambiente "acquatico" - dato comune a tutto il ciclo - è presente anche in questa tela, e spiccano tutti i tipici elementi della moda del “Giapponismo” in voga all’epoca vittoriana: all’interno di una sala da thè, «geishe danzanti in kimono, lanterne rosse, set da thè, lampade esotiche, tavoli e padiglioni» [7].

    dettagli piccoli

    La luce naturale è ancora più fioca rispetto a quella del quadro precedente, mentre quella artificiale si fa più accesa, come più divampante è divenuta, per il Prodigo, la passione per i fatui piaceri mondani. Si è al tramonto del sole o al suo sorgere, dopo una nottata passata tra i divertimenti? La scelta luministica si rivela ideale per creare un sapiente gioco di chiaroscuri, attraverso i tipici colori del Paese del Sol Levante, che fanno risaltare maggiormente l’ambiente straniero in cui la scena viene ambientata, ma anche la solitudine interiore dei personaggi, a dispetto dell’apparente atmosfera festosa.

    Gli spazi della solitudine interiore

    Lo sfarzo del rosso delle lampade, il candore argenteo dei kimono impreziositi da decori floreali e il biancore dei ventagli sembrano stridere con il “grigiore” dell’abbigliamento tipicamente occidentale del protagonista e del suo amico.
    Se lo spettatore ha l’impressione di osservare una sorta di arazzo variopinto - che affascina lo sguardo per il suo incanto cromatico - è pur più evidente, proprio per questi sapienti contrasti creati a tavolino dal pittore, l’essere “straniero”, quasi “fuori posto” del giovane che ha abbandonato la sua casa. È come osservare un tappeto, in cui "Ogni colore si espande e si adagia / negli altri colori / Per essere più solo se lo guardi" [8].
    La tela, nell'offrire l'idea di un ambiente festoso, sembra rimandare allo spettatore il rumore dei passi di danza, il canto delle geishe sedute, la musica e lo scampanellio dei furin (i sonagli) delle lanterne rosse appese al soffitto e mosse dal vento. Tutta l’atmosfera, in cui lo scorrere del tempo è scandito dai movimenti lenti e aggraziati delle giovani ballerine, è avvolta da luci, ombre, suoni. Ogni dettaglio sembra concorrere a esaltare la bellezza femminile, ma in realtà mira a sottolineare sempre più lo stato di decadenza in cui il giovane protagonista sta sprofondando.

    L’occhio è lo specchio dell’anima

    Nel calare la scena in un ambiente giapponese, Tissot - oltre che dall’interesse per il mondo nipponico - è mosso anche da un Volto2intento dissacratorio (già presente in altre sue opere) nei confronti del «puritanesimo vittoriano». Nella tela si fa strada la "denuncia" della morbosità con cui la figura femminile viene osservata dalla società contemporanea, in particolare dal mondo maschile [9]. In tal modo, l'artista riesce a rendere l’idea del degrado morale (oltre che dello sperpero economico) cui va incontro il giovane della parabola, tanto più che la figura della geisha, nel mondo occidentale era - ed è - spesso erroneamente scambiata per una donna di facili costumi.
    Nei volti dei personaggi non si palesa neppure un guizzo di felicità. Il giovane protagonista è colto nell’atto di brindare - forse per l’ennesima volta - ma i suoi occhi sono spenti e insoddisfatti. La sua solitudine interiore (fprobailmente ancora soltanto inconscia) è ulteriormente sottolineata dal dettaglio della giovanissima geisha - quasi una bambina - che, pur stando al suo fianco, viene ritratta con gli occhi socchiusi e lo sguardo stanco, colta da noia o stanchezza. La tanto agognata indipendenza economica e decisionale, così fortemente desiderata dal ragazzo, si sta trasformando in un consumismo senza sentimenti, in un investimento senza interessi, in un ingabbiamento interiore che rischia di decretare la fine di ogni libertà.

    INTERPELLATI DAL QUADRO

    Il punto di fuga del quadro si colloca a sinistra, in uno spazio al di fuori della tela, dando l’impressione di non far sapere da dove parta la schiera di danzatrici giapponesi. È un espediente tecnico che procura allo spettatore un senso di moto continuo, come di un qualcosa che potrebbe - ipoteticamente - ripetersi all’infinito. Sembra di trovarsi dinanzi a un tunnel: quanto sarà lungo? Finirà mai? E se sì, dove?
    Questa idea di “ipotetica interminabilità” diventa la trasposizione visiva della voragine, dell’abisso in cui sta sprofondando il giovane. Ha già toccato il fondo? No. C’è ancora un tratto di tunnel da attraversare. Il racconto lucano, infatti, colloca in una fase cronologica successiva il momento in cui il ragazzo comincerà - finalmente - a uscire dalla sua “anestetizzazione della dignità”, e a rendersi conto di dover cominciare a rientrare in sé, prima di rientrare a casa; di dover recuperare l’amore per se stesso, prima di accettare e ricambiare quello di suo padre. Tissot non rappresenta la scena della carestia in cui il giovane comincerà a sentire di essere «nel bisogno» (Lc 15,14), né quella in cui diverrà guardiano di porci e si renderà completamente conto di essersi “svenduto” (cfr. Lc 15,15-16), ma è come se inglobasse in quest’unica tela del giovane «Nel Paese straniero» l’iter interiore di “svilimento” cui egli va incontro.

    Svilirsi in un paese straniero

    Lo “svilirsi” del figlio minore della parabola è lo svilirsi di chi si lascia «intaccare dalle idolatrie del nostro tempo: l’apparire, il consumare, l’io al centro di tutto; ma anche l’essere competitivi, l’arroganza come atteggiamento vincente, il non dover mai ammettere di avere sbagliato o di avere bisogno. Tutto questo ci svilisce, ci rende cristiani mediocri, tiepidi, insipidi, pagani» [10]. In questo svilirsi, l’uomo parte - proprio come il Prodigo - per un viaggio verso il “proprio” paese straniero.
    «Qual è questo paese che non ha un nome, ma che rappresenta la realtà in cui ogni uomo fugge attraverso il proprio peccato dalla presenza di Dio? Sono quegli anfratti oscuri del nostro cuore. Non c’è bisogno di cercare un’agenzia turistica per fuggire lontano da Dio; a volte basta allontanarci da lui con il nostro cuore». Ci sono «regioni del nostro cuore in cui desideriamo che nessuno entri, anzi a cui speriamo che nessuno si avvicini, nemmeno per sbaglio, perché quell’armonia che ci unisce a Dio - di conseguenza anche ai fratelli - è diventata solitudine. Nel cuore dell’uomo, quando si entra in queste regioni della solitudine e dell’oscurità, c’è molta confusione. Quando poi predomina questa solitudine l’uomo deve ricolmarla in qualche modo, sostituendo all’amore di Dio le proprie passioni, con la sete del denaro, del potere, proprio perché egli non può rimanere in quella situazione che annulla la sua identità. Ecco perché allora questo figlio minore sperpera tutto quello che aveva, e in questa sua dissolutezza sono rappresentate tutte quelle realtà con cui l’uomo cerca di ricolmare il vuoto lasciato dall’amore di Dio al momento in cui egli si è allontanato da lui a causa del peccato» [11].

    NOTE

    [1] Il fenomeno viene definito “Giapponismo” e si origina dall’apertura delle frontiere del Sol Levante ai commerci internazionali, avvenuta dopo secoli di «sakoku, ovvero la politica di totale isolamento del Giappone dal resto del mondo». Tale chiusura, imposta sotto il governo dello shōgun Tokugawa, era stata dettata, dopo qualche decennio dalla “prima scoperta” europea del Giappone - avvenuta nel 1542 - da «un’escalation di giustizie sommarie, martiri cristiani e altissime tensioni diplomatiche. Se si eccettua la piccola finestrella di Nagasaki, attraverso la quale filtravano poche merci e vaghe notizie grazie all’intermediazione di alcuni mercanti cinesi e olandesi ai quali era stato concesso il permesso di avere un volume limitato di traffici commerciali, il Giappone e l’Occidente praticamente si ignorarono per più di due secoli. A posteriori, si può affermare che questo lunghissimo tempo abbia contribuito ad alimentare negli occidentali una sorta di mito, una trasposizione - già illuminista ma nei fatti alquanto retrò - dell’idea di un paese, il Giappone, nel quale le case erano tutte rivestite d’oro, come aveva raccontato Marco Polo. In questi due secoli dal Giappone giungevano in Europa solo alcuni generi di manufatti, ovvero quelli che avevano l’approvazione dello shōgun e che contemporaneamente soddisfacevano il desiderio di profitto dei mercanti. Oltre a beni di durata effimera, come i metalli grezzi e la carta, gli olandesi traghettarono soprattutto lacche e porcellane, di un tipo destinato fin dall’origine all’esportazione, molto lontano per stile dal tradizionale gusto giapponese. Gli europei fantasticarono su quel paese ancora misterioso specchiandosi nelle levigate superfici di arredi e suppellettili laccati e dorati, oppure maneggiando elegante vasellame ornato di esuberante policromia, o ancora ammirando le illustrazioni a corredo di alcuni testi compilati da viaggiatori eruditi, che riuscirono a introdursi in Giappone tra le fila degli olandesi della Compagnia delle Indie Orientali. Le nazioni occidentali, a partire dagli Stati Uniti, che dal 1854 imposero al Giappone con la forza dell’esibizione dei cannoni la fine del suo secolare isolamento, non furono certo mossi dal desiderio di instaurare rapporti culturali con quel paese che, unico al mondo, ancora opponeva il suo rifiuto all’impellente globalizzazione (ante litteram, s’intende…). L’idillio scoppiò dopo, come conseguenza. La diplomazia internazionale semplicemente voleva avere con il Giappone relazioni commerciali. Forse la verità, che in quel paese non ci fosse in realtà oro a sufficienza per ricoprire tetti e pavimenti, già era nota. Tuttavia, ben altre potevano essere le ricchezze da scambiare, e anche questo forse già si sapeva. Gli occidentali trovarono allora condizioni politiche, economiche e sociali per riuscire con relativa facilità a imporre ai giapponesi i loro modi e le loro pratiche, i traguardi dell’incipiente modernità. Il Giappone, infatti, attraversava allora un periodo di profonda crisi, le cui conseguenze si riverberavano a tutti i livelli. Era quindi nell’aria l’anelito per un radicale cambiamento, e l’occasione dell’arrivo degli stranieri fu propizia per mettere in atto quella che a tutti gli effetti fu una rivoluzione epocale. Nel volgere di pochissimi anni l’istituzione dello shogunato decadde definitivamente e l’imperatore torno a concentrare su di sé tutti i poteri decisionali, dopo quasi sette secoli in cui era stato relegato a funzioni meramente religiose e rituali. Contemporaneamente, molte nazioni occidentali siglarono accordi di amicizia e, naturalmente, commerciali col Giappone. Fu allora che il Giappone fu “scoperto”, per la seconda volta» (Francesco Morena, Giapponismo for ever, non importa se per forza o per piacere, in Firenze 2015, Un anno d’arte, https://www.unannoadarte.it/2013/2012/giappone/eng/pdf/area-stampa/presentazione_morena2.pdf).
    La riapertura dei contatti commerciali tra Occidente e Giappone rende possibile «l’accurato studio delle opere importate dell’arte giapponese, usualmente stampe popolari recenti, anziché importanti dipinti antichi». In Francia e Inghilterra, il Giapponismo durerà per un’intera generazione. Cfr. Japanism Art, in Encyclpaedia Britannica, https://www.britannica.com/art/Japanism

    [2] Per la musica lirica basti citare l’opera pucciniana Madama Butterfly, che il musicista italiano comincia a comporre nel 1901, dopo aver assistito, a Londra (e senza comprendere una sola parola di inglese, lingua che egli non conosce) alla rappresentazione del «dramma di David Belasco, Madame Butterfly Tragedia giapponese, tratto dalla novella di John Luther Long, pubblicata nel 1898, che a sua volta si può in qualche modo far derivare da Madame Chrysanthème di Pierre Loti» . Puccini, affascinato dalla commedia, nella sua opera «propone e impone un “Giappone vero…”» (Elena Nepoti, Immagini e immaginario del Giappone in Francia e in Italia dall’ukiyo-e al cinematografo degli inizi del Novecento, in Cinergie, il cinema e le altre arti, n. 3, marzo 2013, https://www.cinergie.it/?p=2299).

    [3] Bernard Denivr, Impressionismo, I pittori e le opere, Giunti, 2001, p. 124.

    [4] Ibidem. Nascono delle vere e proprie «botteghe di “curiosità giapponesi” frequentate da artisti e collezionisti, iniziano poi a circolare in Europa le prime immagini fotografiche del Paese». In tal modo - e grazie anche alla successiva diffusione delle prime riprese cinematografiche del Giappone -  il Giapponismo diventa «un gusto d’élite per collezionisti e artisti, una vera e propria moda che invade la vita cittadina dell’Europa della Belle Époque». Cfr. Elena Nepoti, Ult. cit.

    [5] Cfr. Maria Rattà, Il ciclo pittorico «Il Figliol prodigo nella vita moderna» di James Tissot, 1. La partenza, http://notedipastoralegiovanile.it/index.php?option=com_content&view=article&id=10539:lil-figliol-prodigo-nella-vita-modernar-1-la-partenza&catid=482:questioni-artistiche

    [6] Olga V. Solovieva, The Pitfalls of Meritocracy: James J. Tissot's "Prodigal Son" Etchings at the Smart Museum, Sito internet dell’Università di Chicago “Divinity School”, https://divinity.uchicago.edu/sightings/pitfalls-meritocracy-james-j-tissots-prodigal-son-etchings-smart-museum#sthash.51yiyjVv.dpuf

    [7] Ibidem.

    [8] Giuseppe Ungaretti, Tappeto, in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, 1998, p.8.

    [9] Nei quadri di Tissot «appare spesso una latente rappresentazione della posizione infelice della donna, bramata e desiderata dalla concupiscenza maschile, ma al tempo stesso incompresa, che hanno fatto leggere nelle opere di Tissot dei sottesi femministi» (Alessandra Argentino, James Tissot, un grande artista dimenticato per 70 anni, Sito Internet del Magazine dell’’Eurispes, https://www.leurispes.it/james-tissot-un-grande-artista-dimenticato-per-70-anni/ ).

    [10] Francesco, Omelia, 4 giugno 2015.

    [11] Gabriele Maria Corini, Contro la sciatica del cuore. Spunti biblici sulla divina misericordia, San Paolo, 2015, pp. 100-101.

     


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