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    Le opere di misericordia

    Una visione teologico-pastorale

    Anselm Grün

    operedimiser
    Il testo biblico da cui derivano le sette opere di misericordia è il grande Discorso sul giudizio finale nel Vangelo di Matteo (Mt 25,31-46). In esso Gesù parla di sé come del Figlio dell'uomo e del re. Durante il giudizio finale egli convocherà gli uomini di tutta la terra e separerà gli uni dagli altri. A coloro che inviterà nella sua gloria dirà:
    Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fino dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi (Mt 25,34-36).
    Matteo chiama 'giusti' coloro che hanno compiuto queste opere d'amore. I giusti non si stupiscono di aver compiuto queste opere buone per gli altri, ma del fatto di aver dato da mangiare e da bere, di aver visitato e vestito Cristo in persona. Hanno visto soltanto la persona concreta, ma non Cristo. Eppure Gesù risponde loro: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me» (Mt 25,40). Gesù si identifica con gli affamati, gli assetati, i forestieri, gli ignudi, i malati e i carcerati.

    1. La storia: dai vangeli fino ad oggi

    Da sempre questo testo ha toccato i cristiani. È stato definito la sintesi per eccellenza dell'intero vangelo. Gesù giudica il nostro essere cristiani in base al nostro comportamento nei confronti del prossimo. Alla fine della nostra esistenza ciò che conterà sarà come siamo andati incontro al nostro prossimo e come l'abbiamo trattato. Ma Gesù qui non parla per farci la morale. Il nostro rapporto con il prossimo, più che altro, concerne la nostra relazione con Gesù Cristo, la realtà determinante della nostra fede. Anche se non ne siamo consapevoli, in fondo ciò che facciamo al prossimo lo facciamo a Cristo.
    Per Immanuel Kant di questo testo era importante soprattutto il fatto che compiamo atti d'amore in funzione dell'amore stesso e non per aspettarcene una ricompensa. La teologia della liberazione ha posto questo brano al centro del suo messaggio: Gustavo Gutiérrez vede quel testo come dimostrazione che nessuna via porta a Dio evitando il sacramento del prossimo: «L'amore a Dio si esprime necessariamente nell'amore al prossimo. Più ancora: si ama Dio nel prossimo» [1].
    Il discorso di Gesù ha anche un ruolo importante soprattutto nel dialogo con le altre religioni. Ritroviamo l'elenco delle opere d'amore che Gesù esige dai suoi discepoli anche in altre religioni e nei loro testi, per esempio nel Libro egiziano dei morti [2], in testi del buddhismo antico e in Ovidio. Gli esseri umani non sanno affatto di servire Cristo nel prossimo: «La norma in base alla quale il Figlio dell'uomo in Mt 25,31-46 giudica gli uomini non sembra aver nulla a che fare con una particolare religione: è universale» [3]. Paul Tillich vede in Mt 25 un testo che «libera l'interpretazione di Gesù da un particolarismo che lo avrebbe trasformato nella proprietà di un gruppo religioso particolare» [4]. Anche se noi qui non seguiamo Tillich, questo testo apre però il messaggio di Gesù per tutti gli esseri umani, in tutte le religioni. Nel modo in cui ci comportiamo nei confronti degli altri, in fondo, si fa visibile il nostro rapporto con Gesù Cristo, non importa se crediamo in lui o meno, non importa se nel fratello o nella sorella riconosciamo Cristo oppure no.

    Già la chiesa delle origini ha aggiunto alle sei opere che Gesù qui elenca la settima: seppellire i morti. Lattanzio, l'eloquente predicatore, fece questa aggiunta all'inizio del secolo, tenendo presente un passo del libro di Tobia (Tb 1,17). Come tutta la chiesa delle origini, era ancora consapevole del fatto che l'elenco delle opere di bene ha uno sfondo biblico. Già nell'Antico Testamento Dio esorta gli uomini a dimostrare misericordia al prossimo. Così, nel libro del profeta Isaia, Dio esige qualcos'altro invece del digiuno esteriore:

    Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l'affamato, nell'introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti? (Is 58,6s.).

    Nell'interpretazione ebraica dei testi dell'Antico Testamento, il Talmud, l'essere umano viene regolarmente esortato a seguire Dio, che visita gli ammalati (Abramo a Mamre), veste gli ignudi (Adamo) e seppellisce i morti (Mosè). La teologia rabbinica distingue le 'opere d'amore' dalle elemosine. Le elemosine si riferiscono a sovvenzioni in denaro. Le opere d'amore, invece, sono opere che esigono l'impegno di tutta la persona. Secondo un testo ebraico, il mondo poggia su tre colonne: la Torah, il culto e le opere d'amore. E in base alle opere d'amore si decide anche se l'ebreo pio resiste al vaglio del giudizio.

    Già Origene non intendeva le opere di misericordia soltanto in maniera puramente esteriore, ma le interpretava dal punto di vista spirituale. Dar da mangiare agli affamati per lui diventa: alimentare i fratelli e le sorelle con il cibo spirituale. A proposito del vestire pensa alla veste della sapienza che dobbiamo offrire agli altri. Far visita al fratello può anche significare consolarlo. Sulla scia di Origine, l'interpretazione spirituale delle Scritture ha visto le opere di misericordia come metafore della nostra relazione con Gesù Cristo. Macario, per esempio, intende l'ospitalità come un sostare di Cristo nell'animo umano: non dobbiamo soltanto accogliere il fratello nella nostra casa, ma lasciar entrare Cristo nella dimora della nostra anima. Sant'Agostino porta avanti questa tradizione: distingue tra opere di bene che riguardano il corpo del prossimo e opere di bene che si riferiscono alla sua anima.
    Questa divisione in opere di misericordia corporale e opere di misericordia spirituale fu poi sviluppata ulteriormente nel Medioevo. Tommaso d'Aquino spiega queste quattordici opere come virtù della carità. Nel Medioevo memorizzavano le quattordici opere di misericordia per mezzo di versi in latino. L'arte stessa si occupò delle opere di misericordia. La rilegatura del Salterio di Melisenda [5], del 1131, raffigura le sette opere di misericordia. Chi legge il salterio è tenuto a ricordarsi che la sua preghiera si deve esprimere in un comportamento nuovo. Spesso le opere di misericordia appaiono anche nelle raffigurazioni del giudizio universale, per esempio sulla porta di San Gallo nel duomo di Basilea (Svizzera) [6], realizzata intorno al 1170, oppure nel battistero di Parma, del 1196. Il reliquiario di santa Elisabetta a Marburgo (Germania) rappresenta le opere di misericordia: per il Medioevo Elisabetta era la santa che aveva vissuto in maniera esemplare ciò che Gesù esige dai cristiani nel suo Discorso sul giudizio finale.

    All'epoca della Riforma le opere di misericordia passarono in secondo piano. Si discuteva soprattutto se le opere siano determinanti per il giudizio o se non sia soltanto la grazia di Dio a contare. Il Discorso sul giudizio finale non si adattava tanto alla dottrina della giustificazione per la sola fede. Perciò lo si perse di vista. In età moderna le opere di misericordia vennero poi istituzionalizzate: si crearono ospedali, asili per i senzatetto e mense per i poveri. Si sorrideva delle opere di misericordia personali, considerate poco efficaci: se si vogliono aiutare le persone, si affermava, bisogna farlo sul piano politico e sociale. La beneficenza andava organizzata. Negli ultimi decenni, perciò, non sono quasi stati scritti libri sulle opere di misericordia. Nel 1958 due emittenti radiofoniche tedesche invitarono poeti e scrittori cattolici e protestanti a parlare delle opere di misericordia corporale e spirituale. Scrittori celebri come Josef Martin Bauer, Otto Karrer, Albrecht Goes, Luise Rinser, Edzard Schaper e Reinhold Schneider parlarono del tema in modo molto coinvolgente, a partire dalla situazione del dopoguerra.
    Soltanto cinquant'anni dopo il vescovo Joachim Wanke, in occasione dell'ottocentesimo anniversario della nascita di santa Elisabetta di Turingia, ha invitato teologi e personaggi pubblici a riflettere sulle opere di misericordia e a trasporle nel nostro tempo. Alla vigilia del 2007, l'anno in cui cadeva la ricorrenza, il vescovo ha lasciato che le persone intervistate si esprimessero su che cosa era per loro, oggi, misericordia. Le loro risposte sono poi confluite in una riformulazione delle sette opere di misericordia. È stato un tentativo di trasporre nel nostro tempo le opere di misericordia classiche:
    1) ti vengo a trovare;
    2) condivido con te;
    3) ti ascolto;
    4) fai parte di questa comunità;
    5) prego per te;
    6) parlo bene di te;
    7) faccio con te un pezzo di strada.

    Resterò fedele alla divisione classica tra le sette opere di misericordia corporale e le sette di misericordia spirituale. Vorrei però cercare di descriverle in modo che noi oggi ci sentiamo chiamati in causa.
    Nell'apprestarmi a questo compito vedo due difficoltà: l'una è il pericolo di fare della morale. Non intendo presentarmi come il sapientone che fa la predica agli altri perché finalmente compiano queste opere e donino in abbondanza per gli affamati. L'altra difficoltà sta nella dimensione politica dell'assistenza. Le opere cristiane della misericordia sono soltanto una goccia nel mare? Non dobbiamo piuttosto cambiare il mondo a livello politico, affinché non ci siano più né poveri, né ignudi, né senzatetto? Il messaggio di Gesù vorrebbe aprirci gli occhi su come far agire in tutto il mondo lo spirito della misericordia e non quello dello sfruttamento, lo spirito del rispetto e non quello del disprezzo. Non basta però accollare le opere di misericordia ai soli politici: in quel caso, infatti, avremmo il pretesto di non apportare il nostro contributo a un mondo più umano. Per quanto sia importante la visione politica ed economica, non possiamo aspettare a compiere le opere di misericordia finché regnino in tutto il mondo giustizia, pace e benessere. Pur con tutto l'impegno politico, nell'ambiente a noi più prossimo c'è sempre spazio sufficiente per realizzare le opere di misericordia corporale e spirituale.
    Con ciò non voglio instillare nei lettori e nelle lettrici un senso di colpa perché fanno troppo poco. Desidero soltanto, come fa Gesù nel suo Discorso sul giudizio finale, che apriamo gli occhi per essere pronti, là dove Dio ci tocca, a dimostrare misericordia al fratello o alla sorella, indipendentemente dal fatto che ciò avvenga sul piano corporale o su quello spirituale. Dal Discorso di Gesù sul giudizio emerge che egli non fa la morale: egli promette invece una ricca ricompensa a coloro che adempiono queste opere di misericordia. Il paradosso, però, è che queste persone compiono tali opere non perché ricevono una ricompensa, ma perché si lasciano toccare dai bisognosi. Lasciandomi commuovere dal fratello o dalla sorella e lasciandomi ispirare a un'opera di misericordia, sperimento una ricompensa interiore. Sento che donando la mia vita si arricchisce, sento che diventa più sana se mi dedico ai malati, sento che copro la mia nudità se vesto gli ignudi. Le nostre azioni hanno sempre anche un effetto su noi stessi: le opere di misericordia fanno bene anche a noi. In esse dimostriamo misericordia anche verso noi stessi. Ma non le compiamo per fare qualcosa di buono a noi. Le compiamo perché lasciamo che il nostro cuore sia toccato dai poveri, dagli affamati, dai senzatetto, dai malati e dai prigionieri. Il paradosso è che, dimenticando noi stessi perché ci apriamo a un'altra persona, anche noi facciamo l'esperienza della realizzazione della nostra esistenza, sperimentiamo una gratitudine interiore per il fatto che una persona dalle spalle curve riparte da noi rialzando la testa e che un ignudo riscopre la dignità regale di cui è rivestito.

    2. La misericordia come atteggiamento di fondo

    L'atteggiamento di fondo delle quattordici opere è la misericordia. Desidero perciò scrivere alcuni pensieri a proposito di tale atteggiamento.
    La Bibbia conosce diversi concetti e diverse immagini per la misericordia. All'Antico Testamento sono noti soprattutto due termini per 'misericordia': hesedh, cioè `bontà', e rahamim, 'pietà'. È soprattutto Dio a essere misericordioso. La misericordia di Dio, però, esige anche dagli esseri umani che dimostrino misericordia vicendevole. La misericordia, in questo contesto, non è mai soltanto una disposizione dell'animo, interiore, ma è anche sempre un agire, una prassi. La parola ebraica hesedh significa 'gentilezza e bontà'. Dio si dimostra misericordioso nei confronti dell'essere umano quando lo tratta in maniera gentile, benevola e pietosa, quando gli perdona le sue colpe. L'altra parola, rahamim, è collegata al termine rehem: 'grembo materno, viscere materne'. Come una madre si dedica al bambino che tiene in grembo, così Dio si rivolge a noi uomini in modo materno. Dio, come una madre, tratta con tenerezza l'essere umano che, per così dire, tiene in grembo. Qui la misericordia è l'affetto, ovvero il chinarsi di uno che sta in alto nella scala gerarchica verso il più piccolo. Dio non giudica, ma ritiene l'essere umano in grado di svilupparsi sempre di più, così come fa un bambino, fino a diventare la persona che deve essere secondo quanto immaginato da Dio stesso.
    Questo atteggiamento viene descritto così soprattutto a proposito di Dio nei confronti dell'uomo e quasi mai a proposito degli esseri umani nelle relazioni tra di loro. La pietà dell'essere umano nei confronti di un suo simile è espressa di preferenza con il termine hanan, che compare anche in alcuni nomi di persona, come Anna o Giovanni. La misericordia dell'uomo si dimostra nelle sue premure verso i poveri e i miseri, ma anche nei confronti del bestiame. Davide si dimostra misericordioso nei confronti di Saul non sfruttando il proprio potere, ma risparmiandolo.
    Alcuni ritengono che l'Antico Testamento descriva Dio soprattutto come giudice. In tal modo, però, si interpreta l'Antico Testamento in maniera parziale. Anche nell'Antico Testamento Dio è già sempre il misericordioso: la misericordia è la sua natura. Gesù ha collocato questo messaggio della misericordia di Dio al centro della sua predicazione. E, a sua volta, ha agito in maniera misericordiosa nei confronti degli uomini. Proprio Matteo, che descrive Gesù sullo sfondo della teologia ebraica, lo ha descritto come il Redentore misericordioso. Comunque tutti i vangeli riferiscono dell'operato misericordioso di Gesù. Il greco del Nuovo Testamento usa tre parole diverse per esprimere questo 'essere misericordioso':

    1. Splanchnìzomai, ossia 'essere toccato nelle viscere'. Questo termine viene utilizzato soprattutto a proposito di Dio e di Gesù. Per i greci le viscere sono il luogo dei sentimenti vulnerabili. Il Dio misericordioso lascia entrare gli esseri umani in se stesso, nel proprio cuore, nelle proprie viscere. Nella sua umanità vulnerabile Gesù si apre agli uomini: si lascia ferire per guarirne le ferite. Nei vangeli questo termine è noto soltanto ai sinottici. La parola, però, è utilizzata tre volte nelle parabole di Gesù. Colui a cui Dio ha perdonato ogni peccato dev'essere a sua volta misericordioso nei confronti dell'altro servo, invece di esigere spietatamente da lui il suo debito (Mt 18,27).
    Il samaritano si dimostra misericordioso nei confronti dell'uomo incappato nei briganti: si apre a colui che giace mezzo morto sul ciglio della strada e ha compassione di lui (Lc 10,33). Lo lascia entrare in sé, mentre il sacerdote e il levita si chiudono e passano oltre. E Dio come padre misericordioso ha compassione del figlio prodigo (Lc 15,20). Nei racconti di miracoli, invece, la parola è usata nove volte. Gesù ha compassione del lebbroso: apre il suo cuore a colui che si sente rifiutato ed emarginato da tutti (Mc 1,41). In Matteo questa parola compare tre volte, non nei confronti di singoli individui, bensì nei confronti della folla che ha fame, è ferita, anela alla salvezza e non ha orientamento. «Vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore» (Mt 9,36). Poiché Gesù si fa commuovere dal dolore e dallo smarrimento e dalla loro stanchezza, guarisce i malati, annuncia il proprio messaggio, dà loro da mangiare (Mt 14,14 e 15,32) e invia loro i suoi discepoli. Il Discorso missionario, in Matteo, segue direttamente l'osservazione secondo cui Gesù prova compassione per le folle. Secondo me ciò significa che Gesù ci rende messaggeri della sua misericordia. Siamo inviati alle persone che sono stanche ed esauste, che sono ferite e confuse. Come Gesù, dobbiamo volgerci misericordiosamente agli altri, condividerne i sentimenti, aprire a loro il nostro cuore e compiere nei loro confronti ciò che ha fatto Gesù.

    2. Éleos: la parola greca esprime compassione come dedizione emotiva a colui che è in una situazione di bisogno. Éleos non è mai soltanto una disposizione d'animo, ma anche sempre atto compassionevole, una reazione di soccorso allo stato di bisogno di un'altra persona. Nel suo vangelo, Matteo cita due volte la frase del profeta Osea: «Misericordia (éleos) io voglio e non sacrifici» (Mt 9,13 e 12,7). Con questa frase Gesù si difende dai farisei che emarginano i peccatori e per cui il precetto del sabato è più importante della fame delle persone. Nelle sue invettive rimprovera ai farisei: «Pagate la decima sulla menta, sull'aneto e sul cumino, e trasgredite le prescrizioni più gravi della legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà» (Mt 23,23). I discepoli di Gesù non devono nascondersi dietro le leggi e le prescrizioni: il loro comportamento deve essere contrassegnato da una dedizione misericordiosa per gli altri. Se sono misericordiosi, troveranno a loro volta misericordia: così il Maestro ha promesso loro nelle beatitudini (Mt 5,7). Il cristiano deve imitare Gesù nella sua dedizione misericordiosa verso i peccatori e gli emarginati. Ma, nella sua pena, può a sua volta rivolgersi a Gesù e confidare nella sua misericordia. Il cieco Bartimeo grida due volte: «Gesù, abbi pietà (eléésón) di me!» (Mc 10,47s.). In Matteo questa esclamazione ricorre anche nel caso della donna la cui figlia è malata (Mt 15,22) e del padre il cui figlio è epilettico e cade spesso nel fuoco onell'acqua (Mt 17,15). Come padri o come madri spesso ci sentiamo impotenti quando i nostri figli crescono in maniera diversa da come ci saremmo aspettati oppure si ammalano. Allora dobbiamo invocare la pietà di Gesù. La chiesa ci ha raccomandato vivamente questa invocazione: in ogni celebrazione eucaristica cantiamo il Kyrie eléison, `Signore, pietà!'. E la preghiera di Gesù che la chiesa ortodossa ci consiglia come via di meditazione associa a ogni respiro questa invocazione: «Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me». Quando Gesù si rivolge pietosamente verso di noi, veniamo guariti e risanati, facciamo l'esperienza della pace interiore. E allora diveniamo misericordiosi anche nei confronti di noi stessi, invece di infuriare contro di noi. In particolare per Matteo Gesù è il Redentore misericordioso, che va incontro alle persone con misericordia e agisce su di loro misericordiosamente, perdonando loro i peccati e risanandone le ferite, rendendo loro possibile un nuovo inizio di vita piena. Quando Gesù ci incita alla misericordia, noi, come suoi discepoli, dobbiamo anche portare il suo spirito in questo mondo.

    3. Oiktírmon, cioè 'compassionevole, che condivide i sentimenti di qualcuno'. Con questa parola greca si esprime soprattutto l'atteggiamento misericordioso. Esso corrisponde a ciò che nel buddhismo è definito compassione. L'essere umano ha un senso per l'altro: ne condivide i sentimenti, soffre con lui, si sente solidale con lui. Luca ha visto tale atteggiamento come quello adeguato al cristiano, come quello maggiormente conforme alla natura di Dio: «Siate misericordiosi (lett., compassionevoli), come il Padre vostro è misericordioso (lett., compassionevole)» (Lc 6,36). In ciò si esprime la natura dell'essere umano, portato a condividere i sentimenti del prossimo, a mostrarsi misericordioso verso il prossimo. E allo stesso tempo con queste parole Luca vorrebbe dirci: se condividiamo misericordiosamente i sentimenti degli altri, facendo come Dio, allora partecipiamo di Dio, comprendiamo chi è Dio, lo Spirito di Dio si è impossessato di noi. La parola tedesca barmherzig è una traduzione del latino misericordia e significa: avere un cuore per i miseri, o avere un cuore per quanto c'è di povero e orfano, di misero e debole, in me e negli altri. La misericordia mira soprattutto al cuore.
    C'è un bel detto del iv secolo, di Abba Pambone: «Se hai cuore, puoi salvarti» [7]. L'essere umano ottiene salvezza e perfezione, partecipa dell'amore redentore di Gesù Cristo soltanto se ha un cuore per gli altri e se a sua volta dimora nel proprio cuore e non fa tutto soltanto con la ragione o la volontà. Non basta però dimorare nel cuore. Dobbiamo agire - e il Vangelo di Luca torna sempre a dimostrarcelo - anche a partire dal cuore. Per Luca ciò significa soprattutto condividere la nostra vita, i nostri beni e il nostro amore con gli altri.
    Nella tradizione si sono sviluppate sette opere di misericordia corporale e sette di misericordia spirituale. Il sette è un numero sacro. Ci sono i sette doni dello Spirito santo e i sette sacramenti. Le sette opere di misericordia sono, per così dire, un sacramento dell'agire. Attraverso il nostro operato misericordioso questo mondo anela a essere trasformato. L'opera di Gesù vuole proseguire benefica in questo mondo tramite il nostro agire.
    Nella descrizione delle opere di misericordia corporale per me è importante sempre vedere già anche l'aspetto spirituale. Persino le condizioni di bisogno fisico - come la fame, la sete e la nudità - hanno sempre già anche una dimensione spirituale. Desidero quindi vedere sempre entrambi gli aspetti: l'agire concreto, come quello che ha presente Gesù in Mt 25, e il significato spirituale di ogni nostro operare concreto. Le sette opere di misericordia spirituale sono nate dall'interpretazione spirituale di quelle di misericordia corporale e traspongono le parole di Gesù nella varietà delle nostre relazioni reciproche.

    Perché il mondo sia trasformato

    La tradizione cristiana ama il numero quattordici. Sono quattordici le stazioni della Via crucis. E sono quattordici i santi ausiliatori (quel gruppo cioè di santi alla cui intercessione il popolo cristiano si rivolgeva per particolari necessità). Il quattordici è un numero che dice guarigione. A Babilonia esistevano quattordici divinità guaritrici. E per sant'Agostino il numero quattordici rimanda alla morte e alla risurrezione di Gesù, che hanno trasformato e guarito la nostra esistenza. Gesù infatti è morto il quattordici di Nisan [8]. Le quattordici opere di misericordia sono espressione della dimensione salvifica della nostra fede. Attraverso queste opere l'amore salvifico e redentore di Gesù Cristo deve riversarsi in questo mondo attraverso di noi. La redenzione è avvenuta una volta per tutte in Gesù Cristo. Ma gli autori del Nuovo Testamento sono convinti che la redenzione per mezzo di Gesù Cristo si riversa in questo mondo e vi si riattualizza mediante l'operato dei discepoli di Gesù. In particolare l'evangelista Matteo scrive il suo vangelo per la comunità ecclesiale, affinché in essa si faccia visibile e tangibile la salvezza di Gesù Cristo per tutti gli uomini. I discepoli di Gesù devono essere il sale della terra e la luce del mondo, di modo che, per mezzo di loro, la luce di Gesù illumini gli esseri umani. Quando Gesù fece la sua comparsa in Galilea, per Matteo si avverò la promessa del profeta Isaia: «Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce, per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta» (Mt 4,16). La luce che è rifulsa in Gesù deve continuare a splendere in questo mondo per mezzo dei suoi discepoli. Gesù dice ai discepoli:
    Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli (Mt 5,14-16).
    Le quattordici opere di misericordia devono far risplendere in questo mondo la luce di Gesù Cristo, affinché gliesseri umani rendano gloria a Dio. I cristiani, quindi, non vogliono affermare se stessi con le opere, né davanti a Dio, né davanti agli uomini, ma vogliono adempiere il compito affidato loro da Gesù e portare la sua luce nel mondo.
    Nel caso delle quattordici opere di misericordia non si tratta del fatto che possiamo ottenere la salvezza mediante le opere. La tradizione cristiana è sempre stata consapevole che la salvezza viene da Gesù Cristo e che siamo giustificati dalla fede. Con Matteo e Giacomo, però, la chiesa si è sempre attenuta alla convinzione che la fede senza le opere non è una vera fede. La fede deve esprimersi anche in un comportamento nuovo. Anche l'apostolo Giacomo, che insiste tanto sulle opere buone, sa che «ogni buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall'alto e discendono dal Padre, creatore della luce» (Gc 1,17). Allo stesso tempo, però, esorta i cristiani:
    Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi; perché, se uno ascolta la Parola e non la mette in pratica, costui somiglia a un uomo che guarda il proprio volto allo specchio: appena si è guardato, se ne va, e subito dimentica come era. Chi invece fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla (Gc 1,22-25).
    Otteniamo la salvezza per mezzo della fede e non per mezzo delle opere. Ma soltanto se la nostra fede si esprime anche nelle opere di misericordia saremo beati. Essere beati non significa ottenere la salvezza, ma essere felici, essere in armonia con se stessi. Non dobbiamo vedere le opere di misericordia in un'ottica moraleggiante.
    Mi sta particolarmente a cuore non trasmettere alle lettrici e ai lettori un senso di colpa se non compiono tutte le opere di misericordia. Si tratta piuttosto di indicare una via su come possono esprimere la propria fede e una via lungo la quale trovare la felicità, una via che in fondo fa bene a loro, sulla quale trovano la pace interiore. Giacomo dice qui makdrios, cioè dice 'beato, felice'. È la felicità che in Grecia era riservata agli dèi. Le opere di misericordia, nell'ottica di Giacomo, sono una via alla felicità. Non operano qualcosa di buono soltanto in coloro a cui io mostro misericordia, ma donano anche a me la soddisfazione interiore. Posso rendermi conto pieno di riconoscenza che attraverso di me una persona ritrova più coraggio di vivere, che il suo percorso torna a condurla nella speranza, nella fiducia, nell'amore e alla felicità.
    La misericordia è un tema portante nel Vangelo di Matteo. Gesù è il Redentore misericordioso, che agisce misericordiosamente su di noi. Gesù ci insegna come possiamo comportarci misericordiosamente verso noi stessi ecome possiamo dimostrare misericordia ad altri. Nel suo Discorso sul giudizio finale ci dimostra che veniamo misurati da Dio in base al fatto che abbiamo dato da mangiare agli affamati e da bere agli assetati, che abbiamo accolto i forestieri, vestito gli ignudi, visitato i malati e fatto visita ai prigionieri. Oggi abbiamo difficoltà ad accettare l'immagine del giudizio: in passato ha intimorito molte persone. Ma, con le sue parole, Gesù non vuole diffondere paura, bensì esortare alla decisione, all'apertura e alla solidarietà con le persone. Con l'immagine del giudizio vuole rinviarci a Dio, affinché viviamo in maniera giusta e retta.
    Le opere di misericordia ci rinviano a Dio e alle persone in cui incontriamo Cristo stesso. Gesù vuole aprirci gli occhi, affinché viviamo qui e ora in modo che il suo Spirito di misericordia ci pervada. Allora ci comportiamo in maniera misericordiosa con noi e con gli altri e, proprio in questo modo, facciamo – come si è espresso Giacomo – l'esperienza di essere felici nel nostro operare giusto: sperimentiamo la felicità rendendo felici altri, comportandoci con bontà verso noi stessi, facendo del bene al prossimo, scoprendo sempre di più il mistero di Gesù Cristo, dimostrando misericordia ai suoi fratelli e sorelle e incontrando in loro Cristo stesso, che è per noi la fonte di ogni salvezza e misericordia.

     

    NOTE

    1 G. GUTIÉRREZ, Teologia della liberazione. Prospettive, Queriniana, Brescia 1992, 242 (cit. in U. Luz, Das Evangelium nach Matthäus III, Benziger - Neukirchener, Zürich - Neukirchen 1995, 523).
    2 Libro dei morti, in Testi religiosi egizi, UTET, Torino 1970, 255s.
    3 Luz, Das Evangelium nach Matthäus III, cit., 524.
    4 Ibid., 524; P. TILLICH, Principi cristiani per un giudizio sulle religioni non-cristiane, in Id., Il cristianesimo e le religioni e Riflessioni autobiografiche, Mursia, Milano 1971, 98.
    5 [Scritto miniato commissionato a Gerusalemme dal re Folco V d'Angiò per sua moglie, la regina Melisenda. Si trova oggi alla British Library di Londra (N.d.R.)].
    6 [È il portale, ricco di figure, all'ingresso del transetto settentrionale della chiesa (1150-1170). Si tratta di una delle maggiori opere scultoree dell'epoca romanica in ambito tedesco (N.d.R.)].
    7 Cfr. Vita e detti dei padri del deserto, Città Nuova, Roma 1996, 424.
    8 [È il primo mese dell'anno ebraico, che cade nell'aprile-maggio del nostro calendario. La sera del quattordicesimo giorno ha inizio la festa di Pesah, la Pasqua (N.d.R.)].

    (Le sette opere di misericordia. Perché il mondo sia trasformato, Queriniana 2015, pp.11-26; 129-133)


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