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    La festa dei sensi:

    eucaristia, festa

    e vita quotidiana

    Paolo Tomatis

     

    È una grazia la possibilità di fermarci per guardare dall’alto le opere e i giorni della nostra quotidianità, alla luce dell’Eucaristia. Il Congresso Eucaristico è stato opportunamente definito una statio, una sosta nel cammino quotidiano dei singoli e delle comunità, per imparare ad affinare uno sguardo eucaristico sulla realtà: un esercizio essenziale, per vivere la vita nella luce dell’Eucaristia e per celebrare l’Eucaristia nel cuore della vita.

    L’intuizione del Convegno ecclesiale di Verona di rileggere il Vangelo nei fondamentali della vita (il lavoro e la festa, le relazioni affettive e la fragilità, la cittadinanza e l’educazione…) ci invita, oggi, a contemplare in modo particolare, nel cono di luce dell’Eucaristia, una dimensione essenziale dell’esistenza: la festa.

    La domanda che ci poniamo è anzitutto questa: davvero la festa è qualcosa di essenziale per la vita di una persona e di una comunità? Non vi sono cose più serie a cui pensare? Non è ora di finirla con la società del divertimento, nella quale si organizzano sempre più feste, ma si è smarrito il vero senso della festa? 

    La festa, nel cuore della vita. Il Vangelo, ancora una volta, ci sorprende nella misura in cui pone la festa non a lato della vita, né al termine del cammino, ma al cuore dell’esperienza dell’incontro con Dio: in quel gioiello costituito dalla parabola del Padre misericordioso (Lc 15), giustamente definito come “un Vangelo nel Vangelo”, la storia dei due figli è segnata da una profonda sete di vita, che si esprime proprio nella ricerca della festa. Da una parte c’è il figlio minore, che se ne va di casa per cercare la festa e gustare la vita, fuori dalla relazione con il Padre; dall’altra, c’è il figlio maggiore, che se ne sta in casa ma non gusta nulla, né l’amore del Padre, né un capretto per fare festa con gli amici, tanto meno i cibi e le danze preparate per il ritorno del figlio ingrato.

    Nei due figli della parabola, possiamo riconoscere la doppia tentazione che insidia la nostra cultura occidentale: da una parte una cultura del “sentire”, che possiede i sensi della festa, ma ha smarrito il senso; dall’altra, una cultura del “già sentito” (Perniola), che possiede il senso, ma non sa più assaporarlo nei sensi. Da una parte, la cultura estetica di una società che ha massificato e mercificato la festa, all’affannosa ricerca dei sensi perduti: dalle corsie dei supermercati e dei centri commerciali (autentici luoghi di pellegrinaggio scientificamente progettati per sedurre i sensi della vista e dell’udito, dell’odorato e del gusto) ai miraggi degli itinerari turistici, è tutto un tentativo di colpire i sensi, per accendere i desideri del cuore e dirottarli al consumo, anziché orientarli ad un senso più alto. Dalla parte opposta, è la cultura di una fede cristiana che rischia di smarrire l’antica capacità di far festa, sotto i colpi della secolarizzazione, della rottura di una tradizione e di una mancata iniziazione familiare e comunitaria ad un autentico spirito festivo: le nostre Messe, così come le nostre Domeniche, sono talvolta troppo “anestetiche” e mute, per esprimere la gioia della Risurrezione. 

    La festa, incontro dei sensi con il senso. Così non basta affermare che l’Eucaristia è una festa e che per un cristiano la Domenica è la “festa primordiale” (Sacrosanctum Concilium, 106): è necessario che la festa tocchi i sensi e li faccia realmente incontrare con il senso. La festa infatti non appartiene tanto all’ordine delle idee e delle motivazioni, quanto all’ordine dell’azione e della tradizione, della percezione e dell’emozione. La logica della festa è la logica del corpo, che non si propone tanto di convincere la mente di qualcosa, quanto di coinvolgere la totalità della persona dentro la profondità di un’esperienza. La festa è l’incontro del senso della vita con i sensi del corpo, nella forma del desiderio e dell’anticipazione simbolica: la festa, infatti, prende sul serio i bisogni elementari del corpo (fisico e sociale), per orientarli al desiderio di un “di più” di vita, di cui gli stessi bisogni sono simbolo. La festa accende i sensi, perché la vita ritrovi senso; dà voce nei bisogni del corpo ai desideri dello spirito; coinvolge gli elementi della creazione e i linguaggi dell’arte, per fare della vita stessa un’opera d’arte. Così, dal punto di vista della percezione, la festa è luce che avvolge e calore che accarezza, immagine in cui specchiarsi e colore che ravviva, ritmo e danza per entrare in contatto, canto e musica per l’incanto del cuore, parole e cibo per la comunione dei volti. Sì, la promessa di ogni festa è finalmente la comunione, perché l’uomo è creato per questo: per vivere in una comunione non egoistica e non escludente. 

    La festa, nel cuore del Vangelo. Lo sapeva bene Gesù, il “terzo figlio” nascosto tra le pieghe della parabola: il Figlio primogenito del Padre, che conosce il suo Amore (“Io e il Padre siamo una cosa sola”: Gv 10,30) e lo annuncia al mondo (“Tutto ciò che ho udito dal l’ho fatto conoscere a voi”: Gv 15,15). La gioia della festa, ci dice il vangelo quasi ad ogni pagina, è la gioia della salvezza ritrovata, delle braccia aperte al perdono, della liberazione dal male, della comunione possibile. Per questo Gesù amava andare alle feste: alle nozze di Cana e nella casa di Betania, nella casa di Levi, di Zaccheo e di Simone il fariseo. Sempre in una casa, luogo liminare della soglia che rompe con lo spazio esterno e crea lo spazio protetto della festa. Sempre in una comunità, dove il corpo individuale si apre alla comunione con un corpo più grande. Sempre a contatto con il corpo, per cui la festa è pasto per gli invitati, vino buono in abbondanza, profumo che riempie la casa, cibo e parole per la relazione.

    Se dal punto di vista antropologico la festa rinvia all’originario del corpo, dal punto di vista teologico all’origine della festa cristiana è l’incontro con il corpo glorioso di Cristo, che vive con i segni della sua passione nel corpo della Chiesa. Nella persona di Cristo, la “pienezza dei tempi” è pienezza dei sensi, che coinvolge i discepoli in un cammino di assunzione, interruzione e trasformazione della sensibilità. Anzitutto l’incontro sensibile con Gesù intercetta l’umano, che freme nella carne dei bisogni e dei desideri. Quindi, interrompe il nostro comune modo di vedere e di ascoltare, di parlare e di sentire, segnato dal peccato e dalla morte, per trasformarlo in una nuova sensibilità, segnata dalla relazione con il Padre che si prende cura delle sue creature e che dona la vita nel suo Figlio. Quando l’uomo e la donna si lasciano sorprendere da questo incontro, allora si accende la fede, intesa come un nuovo modo di vedere le cose e le persone, di ascoltare e di entrare in contatto, nel  segno di quella carità che è fondamento e sostanza di ogni vera festa: “dove risplende la gratuita carità, là c’è la festa” (Giovanni Crisostomo).

    Interruzione, integrazione, trasfigurazione: queste tre dinamiche dello spirito possono ispirare il progetto di una “pastorale estetica” dei sensi spirituali, che intreccia le diverse figure dell’ascesi, del rito e della festa. Attraverso un dinamismo di attivazione e sospensione della sensibilità, si fa spazio alla festa dei sensi, di volta in volta subordinati nell’ascesi che prepara e dispone alla festa, integrati nella celebrazione liturgica che immerge nel cuore e nel fondamento della festa, trasfigurati nella festa che dilata la gioia che salva. Soffermiamoci brevemente su ciascuno di questi tre passaggi, applicandoli alla domenica, modello di ogni festa cristiana. 

    La vigilia dei sensi subordinati. Dal punto di vista “ascetico” della subordinazione della sensibilità, è singolare che la domenica cristiana cominci già il sabato sera: c’è una sapienza nascosta in tale scelta, che va al di là dell’intento pastorale di favorire in tutti i modi la parteci­pazione alla Messa. Il fatto che la domenica cominci la sera precedente – come testimonia la Liturgia delle Ore, che celebra i primi vespri della domenica – corrisponde alla logica profonda del giorno del Signore, che interrompe il quotidiano fluire dei giorni per proclamare l’oggi di Dio che compie e salva la storia.

    A differenza del mattino che “ha l’oro in bocca” e che invita all’azione (“Che cosa devo fare oggi?”), la sera è infatti il tempo in cui interrompere l’attività che ci ha impegnati lungo il giorno, per consegnare al Signore ciò che è stato fatto e ciò che ancora rimane da fare. C’è una dimensione notturna della domenica da valorizzare, nel suo invito discreto a sospendere il “fare” per “stare” con semplicità presso noi stessi, presso i nostri cari, presso Colui che è alla sorgente della vita. Così il riposo del sabato sera anticipa e pregusta il rito eucaristico, che chiede di interrompere le cose da fare (anche di domenica, come sanno bene le madri di famiglia…), per aprirsi ad un altro fare, quello della liturgia: un “fare” singolare, che ha come scopo quello di rivelare l’agire di un Altro, il Signore Gesù, che ha già tutto compiuto nella sua Pasqua, che tutto fa ricominciare, e che tutto compirà là dove noi non siamo capaci di portare a termine (“Il Signore completerà per me l’opera sua”: Sal 138,8).

    I riti che consentono di entrare nel riposo chiedono pertanto di sospendere la sensibilità, di metterla in stato di attesa, attraverso il digiuno dei rumori, delle parole, degli occhi e del cibo. C’è chi in famiglia compie piccoli riti di ingresso nella domenica, aprendo ad esempio il libro dei Vangeli o accendendo un cero, segno di Cristo, Luce senza tramonto; c’è chi riscopre l’ascesi del digiuno dal cibo, dalla TV, dal computer, per sé e per i propri cari; c’è chi dedica il sabato a riordinare la casa, perché tutto ricordi Colui che mette le cose della vita nel loro giusto ordine; c’è chi si allena a mettere in pratica il monito di Tertulliano ad astenersi nel giorno della Risurrezione da tutto ciò che genera ansia e fa litigare (ad esempio rimandando le discussioni con i figli al giorno dopo!); c’è chi si premura di fare dei gesti di riconciliazione prima di andare a dormire, perché ha intuito che questo rende il sonno più riposante rispetto al semplice dormire di più. Si tratta di riti semplici, eppure difficili, perché costringono a prendere in mano la nostra vita, colta nella sua radicale imperfezione, e a consegnarla al Signore: quando ci si ferma, ci si accorge che manca sempre qualcosa perché tutto sia a posto e perché tutti stiano bene. È dunque il momento di sospendere il nostro fare da protagonisti, per affidare il nostro essere a quell’Amore perfetto nel quale tutto è compiuto e tutto cammina misteriosamente verso il compimento. 

    L’Eucaristia, cuore della festa. Se i riti della soglia sono fatti per sospendere la sensibilità e metterla in stato di attesa, i riti che costituiscono il cuore della festa sono fatti per integrare la sensibilità in un contesto che svela il senso più profondo della festa. Per questo motivo, ogni celebrazione eucaristica, anche la più feriale e la più umile, tende alla trasfigurazione della festa, anche se non tutte le liturgie sono ugualmente festive: la festa è la vocazione della liturgia, così come la liturgia è il cuore e il fondamento della festa.

    Nell’Eucaristia lo Spirito accende di luce i sensi, come preghiamo nell’Inno “Veni creator spiritus”, in una progressione che va dal vedere all’ascoltare, sino al culmine del contatto più intimo, che si dà attraverso l’esperienza del gusto. All’inizio è il senso della vista ad essere il più coinvolto: nei riti introduttivi l’assemblea assume la propria fisionomia di corpo radunato intorno alla mensa della Parola e del Pane, per riconoscersi fin da subito come corpo di Cristo e famiglia di Dio che fissa il proprio sguardo sul volto misericordioso di Gesù (“Signore pietà”) e si lascia guardare da Lui. Nella liturgia della Parola l’udito si apre all’ascolto, la voce si dispiega nel canto e nell’acclamazione, gli orecchi si affinano alla qualità della relazione, nel giusto equilibrio tra parola e silenzio.

    Nella liturgia eucaristica è il progressivo venire a contatto con il gesto di amore di Gesù che dona la vita, attraverso le mani che si aprono (presentazione dei doni), si alzano a benedire e rendere grazie, si tendono a invocare e si elevano ad offrire (preghiera eucaristica), per poi aprirsi ancora a stringere, a spezzare e a ricevere il Dono (comunione). Nella comunione eucaristica è il culmine del contatto spirituale, che si fa assimilazione e gusto, per gustare e vedere come è buono il Signore. E l’olfatto, dove lo mettiamo? In questa rilettura dell’Eucaristia dal punto di vista dei sensi, il senso dell’olfatto accompagna silenzioso i vari momenti della Messa, sottolineando soprattutto le fasi di passaggio (l’incenso nella processione iniziale; nel passaggio alla liturgia eucaristica, durante l’offertorio; nel momento della consacrazione).

    La prospettiva cosiddetta “estetica”, che guarda cioè al senso dell’Eucaristia nella prospettiva di ciò che si dà a vedere e sentire, obbliga a rivedere lo stile delle nostre celebrazioni eucaristiche, sovente troppo parlate, troppo razionalistiche e anestetizzanti. Dove infatti non c’è coinvolgimento del corpo, non si accende la festa. Giustamente è stato detto che la liturgia non può essere ridotta ad un unico codice, quello verbale, che comunica tanti messaggi: al contrario, si tratta di utilizzare tutti i codici e i linguaggi dell’uomo, per comunicare un solo messaggio, quello dell’amore pasquale del Signore.

    D’altra parte, occorre vigilare sul pericolo opposto di una celebrazione “estetizzante”, che abbandona la rigida gabbia del rito per coinvolgere i sensi: alla ricerca di liturgie più spontanee e contattive, si trasforma la Messa in uno show, che invece di essere “finestra aperta verso l’invisibile” (Florenskij) fa da schermo opaco, o peggio da specchio nel quale non si riflette altro che se stessi.

    Tra le opposte derive di una liturgia anestetica, che per paura del formalismo non si prende cura delle forme, e di una liturgia estetizzante, che si prende cura delle forme in modo “carnale”, si gioca la sfida di una liturgia “in spirito e verità”, che integra i sensi del corpo in una precisa forma ecclesiale, dove ogni eccesso è evitato: solo un po’ di pane e un po’ di vino per manifestare il Dono che sazia e disseta ogni fame e sete, donando senso all’atto quotidiano del mangiare e del bere; solo alcune parole, scelte e preziose, per dire il senso della vita e di ogni parola che esce dalla bocca dell’uomo; solo alcuni contatti, lievi e misurati, per dire la serietà della comunione ecclesiale e la verità di ogni legame. In questa dialettica di attivazione e sospensione, il bisogno dei sensi è orientato al desiderio della relazione che abita il cuore e trasforma la vita: attraverso la sensibilità integrata della liturgia, lo Spirito insieme tocca il cuore (“infunde amorem cordibus”) e accende di luce i sensi (“accende lumen sensibus”), facendoli diventare spirituali, cioè capaci di vedere, gustare, incontrare, sentire Dio in ogni cosa.

    Così, terminata l’Eucaristia domenicale, non si torna subito alla vita quotidiana: c’è tutta una giornata da vivere nella gioia e nella bellezza di questa sensibilità trasfigurata. Dal grande rito che integra i sensi e li apre al senso siamo invitati a passare a quei piccoli riti che dilatano la festa per dilatare il cuore alla luce del Dono ricevuto. 

    Riti per liberare la gioia. “Dobbiamo custodire la domenica, e la domenica custodirà noi e le nostre parrocchie, orientandone il cammino, nutrendone la vita”: così i vescovi italiani nella nota pastorale Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia (2004). In quest’affermazione riecheggia in modo significativo la convinzione della sapienza ebraica, secondo cui non è stato Israele a custodire il sabato, ma al contrario è il sabato ad aver custodito Israele. Se è vero che una certa tendenza storica ad applicare alla domenica i valori del sabato ebraico ha corso il rischio di smarrire la novità e la rottura che è propria del giorno del Signore (la logica del primo giorno della creazione nuova, anziché l’ultimo giorno della settimana), è altrettanto vero che la tradizione rituale dell’ebraismo ha molto da insegnare al cristianesimo, perché il valore della domenica non rimanga sulla carta, ma prenda corpo in gesti e riti festivi.

    Sembra infatti che non sia sufficiente richiamare l’importanza della domenica, ribadendone il significato teologico e anche antropologico, così come hanno fatto i pregevoli documenti di Giovanni Paolo II (Dies Domini, 1998) e della CEI (Il giorno del Signore, 1984). Abbiamo i valori, abbiamo il significato, ma ci mancano i riti; abbiamo il grande comandamento (“Ricordati di santificare la festa”), ci mancano i piccoli comandamenti (“Che fare per ricordare e per santificare la festa?”). Anche la battaglia contro la cultura consumistica del week-end risulta poco convincente, se non è accompagnata da proposte positive e affascinanti che consentano di vivere la domenica come un dono e una benedizione.

    È in tal modo evidente l’urgenza di una nuova iniziazione ai riti e ai simboli che danno forma alla festa cristiana: una iniziazione che deve partire da coloro che sono più coinvolti nella vita della comunità, per farsi testimonianza e profezia per i più lontani e per chi si riavvicina alla fede. A questo proposito, i documenti sopra citati non mancano di suggerire alcune piste concrete: la celebrazione gioiosa e fraterna dell’Eucaristia, il riposo e l’astensione dal lavoro, il raduno familiare specialmente a tavola, il recupero di forme tradizionali di preghiera e di pellegrinaggio, la visita ai parenti, ai malati e al cimitero, la contemplazione della natura, l’attenzione a chi è solo e bisognoso… Sono indicazioni preziose, che tuttavia necessitano dell’aiuto di una comunità e di una tradizione per essere concretizzate in modo intelligente, realista e al tempo stesso fantasioso. Da soli – come singoli e come famiglie - è troppo facile perdersi e conformarsi alla mentalità di questo mondo, che consegna facilmente la domenica alla pura evasione, al consumo, alla passività televisiva, all’ozio o al lavoro incessante di chi ha paura di fermarsi e guardarsi dentro.

    L’impressione generale è che le nostre comunità cristiane prestino una certa attenzione alla qualità festiva della Messa (magari non tutte, solo la Messa principale…), lasciando un po’ nell’ombra quei riti che incastonano la perla preziosa dell’Eucaristia e che fanno di tutta la domenica il giorno del Signore e della festa. C’è un “prima” della festa, da preparare con cura e dedizione. C’è un “dopo” festoso, nel quale i gesti del vedere e del parlare, del toccare e del mangiare sono chiamati ad apparire come l’esercizio di una sensibilità riconciliata e trasfigurata nell’amore. Perché questo sia possibile ci vogliono i riti, per dilatare la comunione eucaristica: un di più di vita che passa attraverso la qualità di relazioni e azioni che toccano la sensibilità. 

    Il pasto, le relazioni. La tavola imbandita per la famiglia radunata è il primo di questi “riti”, perché al profumo dell’Eucaristia domenicale corrispon­da il profumo del pasto festivo e perché alla comunione eucaristica corrisponda la possibilità di ricominciare sempre nelle relazioni, all’insegna di una stima e di un affetto che non viene meno. Proprio il pasto festivo è epifania simbolica di tale possibilità, in un rapporto di continuità assoluta con la comunione eucaristica: mai l’una senza l’altra, pena il separare colpevolmente misericordia e sacrificio, liturgia ed etica. Certo, si tratta di un rito che deve fare i conti con le limitazioni della vita, che a volte precludono la possibilità di mangiare insieme nella gioia: è con grande forza d’animo e con grande fede nella comunione dei santi che persone vedove e sole preparano con una certa cura il pasto del giorno di festa. In ogni caso si tratta di un rito che non può essere mai preteso, magari lamentandosi che non c’è il senso della famiglia, ma si può solo offrire in modo discreto, gratuitamente, proprio come l’Eucaristia.

    Al di più di cibo corrisponde un di più di relazioni: anche per i legami che donano identità e appartenenza ci vogliono i riti. L’apertura alla comunione che l’Eucaristia porta con sé (per questo la Messa in TV non equivale alla partecipazione fisica…) chiede di dilatarsi in gesti e stili di vita che siano capaci di sospendere il “fare” rivolto a produrre risultati, per “stare” insieme agli altri con semplicità e mitezza. Sostare sul sagrato della chiesa o sulla piazza del paese per riannodare i legami con il mondo; parlare con lo sconosciuto per dilatare i confini del nostro io ed espandere il “noi”; visitare i parenti e le persone care, in particolar modo i malati; ospitare l’altro: sono gesti belli ma faticosi e bisogna resistere alla tentazione di chiudersi per proprio conto, rivendicando il diritto ad un tempo libero che sia tutto per sé. Al di là della logica del tempo libero (nel quale si ha il diritto di fare ciò che si vuole) e del tempo del dovere (del quale non ci sentiamo padroni, ma schiavi), la logica dell’Eucaristia e del giorno domenicale è infatti quella del tempo donato, del tempo ricevuto e scambiato come un dono: il giorno nel quale ciascuno è invitato a riconoscersi come donato a se stesso e al mondo, grazie ad un Altro.

    Su questo punto è ancora grande il cammino da fare nelle nostre comunità, a partire dalla Messa che è da molti vissuta in modo troppo individualista. Senza far prediche, si tratta di recuperare l’antica via mistagogica (che cioè fa entrare nel Mistero attraverso l’esperienza del mistero stesso), valorizzando i segni  e i linguaggi della celebrazione che esprimono ed operano la comunione, e ponendo dei gesti “profetici” ed esemplari al di fuori di essa. Con pazienza e tenacia, proprio il giorno domenicale può costituire il tempo e lo spazio opportuno nel quale la comunità, all’ombra della celebrazione eucaristica, si riconosce come famiglia di Dio amata dal Signore e affidata dallo Spirito al mondo, per fare di esso un’Eucaristia vivente, vale a dire una dimora di comunione. 

    La libertà e il movimento. Alla luce dell’Eucaristia, è possibile valorizzare quelle espressioni della sensibilità che contraddistinguono il tempo e lo spazio festivo: il movimento e il gioco, lo sport e il turismo, sino al dolce far nulla del riposo.

    Il movimento è una delle massime espressioni simboliche della libertà: libertà di muoversi, di uscire e di entrare (Gv 10,9), di fare esperienze nuove, di percepirsi vivi e attivi, nel corpo che vibra e si scioglie, che si protende e si distende. Così l’automobile si riempie per il weekend, alla ricerca di un luogo tranquillo o di un luogo pieno di vita, comunque di un luogo “altro” rispetto la ferialità. Gli occhi cercano nuovi paesaggi, oppure bellezze naturali e artistiche nelle quali riposarsi e specchiarsi. Il corpo cerca lo sport: gli sci o la bicicletta, il calcio per i ragazzi o la corsa mattutina. Da soli, di fronte a un limite; oppure insieme, di fronte ad un regolamento. I polmoni si aprono, i muscoli si tendono e si distendono; la mente si libera e si concentra su un punto, i nervi accettano una disciplina che apparentemente obbliga la libertà, ma in realtà la riordina e la tempra. Nella competizione del gioco, il corpo si confronta con altri corpi, stringendo alleanze e catalizzando in una forma controllata quella parte violenta e aggressiva che è accovacciata alla nostra porta.

    Per molte persone – soprattutto giovani – il fine settimana mette in movimento il corpo attraverso il ballo. Il corpo entra in contatto e accorcia le distanze imposte dal codice sociale, aumenta il ritmo del battito cardiaco e diminuiscono i freni inibitori. Ritmo e movimento fanno uscire il corpo da se stesso, sino al rischio di uscire fuori di sé, di oltrepassare la giusta distanza, che è data in ultima analisi dalla qualità della relazione. Così per tanti giovani il ballo corre il rischio dello sballo, pura emozione senza alcuna razionalità. Altri hanno imparato - con il corpo, più che con la mente - che nella danza il ballo si fa opera d’arte, poesia del corpo: equilibrio e leggerezza, passo misurato e contatto sfiorato, passione ed energia controllata.

    C’è un “di più” di vita che si promette nell’esperienza del turismo, dello sport, della danza, del corpo in movimento. C’è un “di più” di vita che non è affatto estraneo alla logica del giorno del Signore. Tutto dipende da come lo si vive: se “nella carne” di un atteggiamento egoistico e consumistico o “nello spirito” della comunione e della gratuità.

    Così ci vuole saggezza perché l’ecologia del corpo e degli occhi sia più in profondità ecologia della mente e dello spirito. Ci vuole un cuore puro per volgere sulla creazione e sulle creature “uno sguardo colmo di gioioso compiacimento” (Dies Domini, 11). Ci vuole un cuore pacificato nella comunione perché il gioco non si trasformi in scontro, perché il ballo non sia fuga da se stessi o esibizione narcisistica. Ma per chi si lascia plasmare dall’Eucaristia anche l’uscire e il rientrare dalle nostre case può diventare gesto eucaristico di benedizione e di lode; la danza può diventare gioia di vivere accanto agli altri, rispettosi di sé e degli altri; pure lo sport può essere benedizione e memoria vivente di un corpo che ci è stato dato per fare la Sua volontà, che è la comunione (Eb 10,5-7).

    Il ballo del sabato sera, il turismo e lo sport domenicale: nemici della domenica? L’ambiguità del divertimento, che invita il corpo a “di-vertere”, cioè a distogliersi e allontanarsi (da chi e da dove?) impedisce una risposta univoca, di assoluta condanna o di generosa permissione, e incoraggia invece per ciascuno l’esercizio del discernimento spirituale; per tutti la proposta nelle nostre comunità di sentieri di comunione che passano attraverso il corpo in movimento, perché la lode si trasformi in ludus, gioco che dilata la gioia e la libertà. 

    Giocare, riposare sotto lo sguardo del Signore. «Il giorno di domenica siate tutti lieti, perché colui che si rattrista in giorno di domenica fa peccato». Così la Didascalia degli apostoli, insieme al “severo” Tertulliano: non si tratta di promuovere una visione ludica del tempo e della vita come rimedio alla tristezza che opprime il mondo, ma di riscoprire il valore della gioia cristiana. Se nella sua radice ultima la gioia cristiana è partecipazione alla gioia del Signore risorto, nelle sue concrete espressioni non si dà opposizione tra la gioia cristiana e le vere gioie umane (Dies Domini, 58), dal momento che l’una fonda e invera le altre. Siamo dunque rinviati alla dimensione ludica della gratuità, chiamata ad impregnare tutte le azioni che espandono sull’intero giorno del Signore la grazia dell’Eucaristia.

    Le parole severe di san Tommaso d’Aquino, secondo cui la domenica è per lodare e non per divertirsi (non ad ludendum sed ad laudandum), risuonano come un monito deciso per quella parte di noi che è talmente preoccupata di divertirsi e di “staccare la spina” da lasciare all’ultimo posto e all’ultimo minuto il gesto della lode, salvo poi dimenticarsene. E tuttavia la verità e la qualità della lode non può non farsi canto, festa, gioco: anzitutto nella liturgia, che è stata giustamente avvicinata all’esperienza del gioco (regolato ma libero, privo di scopo ma pieno di senso, movimen­tato ma riposante…); quindi nei gesti e nei riti che espandono la grazia dell’Eucaristia nella gioia del pasto festivo, dell’uscita domenicale, del gioco sportivo e di quello libero da ogni schema, della danza e dell’incontro che dilata gli orizzonti del cuore.

    Forse nulla come il gesto del sorridere e del ridere insieme esprime meglio questa apertura che scioglie la muscolatura e insieme dilata il cuore: come il riso nasce da un rovesciamento di prospettiva che sorprende e desta simpatia, così la domenica nasce da un radicale capovolgimento dello sguardo e del giudizio sul mondo, all’insegna di una speranza e di una positività che non può ispirare il sentimento giocoso che apre la bocca al sorriso e scioglie la lingua in canto di gioia (Sal 126,2). Certo, il gioco che Dio propone è estremamente serio e ne va della vita: ma per entrarci occorre diventare come bambini.

    Già, i bambini: come non preoccuparci del fatto che i nostri bambini sono sempre più iperstimolati, catturati da quell’ansia da prestazione che durante il gioco li fa chiedere: “cosa c’è dopo?”. Là dove il tempo libero è sempre più organizzato e sovraeccitato, la domenica rischia di essere per il fanciullo un tempo di staticità e di inattività, di fronte al quale si trova impreparato, incapace di giocare da solo o con i propri fratelli, semplicemente, nella più completa libertà. Il rimedio della televisione, o dei compiti da concludere, è il classico tappabuchi, tanto comodo quanto diseducativo (con tutto il rispetto e la comprensione per le situazioni di emergenza…!). Ormai anche per i bambini vale la parola di Gesù: “Se non diventerete come bambini”: occorre mettere i bambini nelle condizioni di vivere da bambini, ritrovando il gusto e la capacità di un gioco davvero libero dal tempo dell’orologio e dallo spazio organizzato.

    E il diritto a un po’ di sano e santo riposo, dove lo mettiamo? Non fa parte anch’esso della domenica? C’è proprio bisogno di muoversi e fare dei chilometri, per sentirsi liberi? Non erano poi gli antichi che parlavano bene dell’otium, prima che diventasse un vizio, anzi il padre dei vizi?

    Effettivamente presso gli antichi la dimensione degli impieghi e delle occupazioni pubbliche (il cosiddetto negotium) era definita in base alla dimensione personale e prioritaria dell’otium, dove per otium non si doveva intendere il di­sim­pegno frustrante, né la “vacanza”, intesa come semplice pausa di decompressione dagli affanni del lavoro quotidiano, bensì il tempo dedicato alla cura della mente e dello spirito, nella meditazione, nello studio e in tutto ciò contribuisce alla “tranquillità dell’anima”. L’antico otium come “arte di riposare il cuore” ci riporta alla necessità di apprendere l’arte del “rallentando”, la “sapienza della lentezza” (Kundera), che non va immediatamente alla ricerca di qualcosa da fare per non trovarsi a far niente, e che non teme di rientrare in se stessi (habitare secum, come dicevano gli antichi monaci), per cogliere le orme del passaggio di Dio nella propria vita, per fare memoria del proprio destino e della meta finale, o molto più semplicemente per riposare sotto lo sguardo del Signore.

    In un tempo in cui il mondo del lavoro cambia con grande velocità, anche il riposo cambia di segno: là dove la fine del cosiddetto “capitalismo solido” mette in crisi la concezione del lavoro come vocazione e come asse etico della vita individuale e sociale, anche il riposo è sempre meno univocamente collegato all’astensione dal lavoro (e dunque al disimpegno e al rilassa­mento) e sempre più alla cura della propria interiorità e degli altri.

    In questa prospettiva, il primo riposo è pertanto quello della meditazione e della preghiera, di un silenzio del corpo e della mente che permette di vedere e ascoltare cose nuove, in modo nuovo, come quando ci si ferma nel cuore del bosco e si è sorpresi dal pulsare della vita animale e vegetale, altrimenti sconosciute. A questo scopo, il libro della Parola, foresta inesauribile di sensi (infinita selva sensuum: così la definivano i teologi medioevali), non può non rappresentare il grande codice per apprendere l’arte di un nuovo sguardo e di un ascolto più profondo.

    Con ciò, non è detto che non ci sia posto per il romanzo o il cruciverba, per un bel film con gli amici o per la lettura del giornale, per il dolce far niente, davanti ad una tazza di the, o per lo stare sdraiati a prendere il sole, e neppure per una bella siesta pomeridiana. Come accennato, il riposo cristiano si traduce non solo nell’attività contemplativa di chi rallenta per fare memoria della storia che dà senso al nostro vivere (come quando ci si ferma in mezzo alla strada, per farci venire in mente una cosa dimenticata), ma pure nel semplice riposare sotto lo sguardo del Signore. È questo, ovviamente, che fa la differenza, e che sappiamo non viene da sé: ha bisogno di tempi, spazi, gesti, dedizione costante e attenzione specifica, capace di dare uno “stile libero” anche ai gesti del riposo più disimpegnato. Sì, lo stile cristiano del tempo libero e della festa è uno “stile libero”: tanto più bello, fluido, naturale, quanto più preciso, coordinato, essenziale. La ricerca di un tale stile impone decisioni, certamente: la decisione di dare un limite al sonno, perché il giorno non si confonda con la notte; la decisione di non naufragare nella navigazione telematica o nell’ipnosi televisiva; la decisione di non cedere alle mille tentazioni che impediscono di stare in silenzio (mangiare, chiamare, uscire…). Si tratta di decisioni che non intendono mortificare il riposo, ma che invitano a rileggere la dimensione ascetica nell’orizzonte di un’arte di vivere che non annulla la libertà, ma dà ad essa la forma eucaristica della comunione.

    L’esperienza quotidiana - complessa e per molti aspetti sottratta al nostro volere immediato - del sonno (agitato, sereno, prolungato, interrotto… in ogni caso abitato dagli strati più nascosti e profondi della nostra umanità), ci riporta a quello sguardo originario da conquistare, ma pure da invocare, da ricevere in dono e custodire, che permette ai gesti del riposo di essere davvero riposanti. Anche per il riposo vale la regola aurea: dove c’è la carità e la comunione, lì c’è il riposo. 

    “Camminare, adagio, verso la fontana”. Nel celebre romanzo di Saint-Exupéry, il piccolo principe incontra, ad un certo punto del suo viaggio alla scoperta dell’uomo, un mercante di pillole che placano la sete: inghiottendone una alla settimana non si avverte più il bisogno di bere. Allo sconcerto del fanciullo – «perché vendi questa roba?» - risponde sicuro l’adulto: «è una grossa economia di tempo. Gli esperti hanno calcolato che si risparmiano cinquantatre minuti alla settimana». «E cosa ne fai di questi cinquantatre minuti?». «Quello che si vuole», risponde il mercante. E il piccolo principe: «Io se avessi cinquantatre minuti da spendere, camminerei adagio verso una fontana».

    La pillola settimanale del mercante stolto è l’antitesi della festa cristiana: estingue il bisogno, ma pure il desiderio e il piacere di camminare adagio verso una fontana di acqua fresca. Essa rappresenta bene il rischio che corre il riposo festivo: di essere solo una pausa, un intervallo tra una settimana e l’altra, un risparmio di energie e di tempo per la vita che veramente conta, quella in cui l’homo faber produce e accumula. Ma la pillola del mercante è anche simbolo della tentazione opposta: di chiedere alla festa “tutto e subito”, come se si potesse afferrare in un attimo tutto quello che la settimana e la vita normale non riesce a offrire. Così il tempo festivo diventa lo scopo della vita dell’homo ludens, estenuante dispendio di energie nel tentativo di placare con rimedi superficiali la profonda sete di vita che egli porta con sé.

    Il piccolo principe invece propone di camminare adagio verso la fontana. Camminare, cioè muoversi, attivare il corpo e il desiderio. Adagio, per gustare il cammino e non divorare il tempo. Verso la fontana, simbolo delle sorgenti sacre della vita. La domenica è il tempo donato da Dio per camminare adagio verso la sorgente eucaristica della vita. L’Eucaristia è per il cristiano la sorgente da cui sgorga l’acqua viva della Parola di Dio che si fa nuovamente carne e sangue, nel vino “già” nuovo del suo sacramento donato. La festa cristiana è tempo e spazio dedicato ad abbeverarci alla sorgente. 

    Per approfondire: Paolo Tomatis, La festa dei sensi. Riflessioni sulla festa cristiana, Cittadella, Assisi 2011.


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