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    La “via pulchritudinis”

    Bellezza e verità del celebrare cristiano

    Bruno Forte


    Nella riflessione che segue, dedicata al rapporto fra la liturgia e la via pulchritudinis” a partire dal legame fra bellezza e verità nel celebrare cristiano, proverò a costruire una simbolica cattedrale dello spirito, con un pronao, tre campate e un’abside: il pronao consiste in una citazione dell’Esortazione Apostolica Postsinodale sull’Eucaristia fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa Sacramentum Caritatis di Benedetto XVI, del 22 febbraio 2007, che al n. 35 richiama in densa sintesi i temi che andremo toccando. Questa citazione vuol essere anche un grato omaggio a Papa Benedetto XVI, la cui eredità spirituale ci darà ancora a lungo a pensare, nutrendo la vita e la missione della Chiesa. Essa dice così: «Il rapporto tra mistero creduto e celebrato si manifesta in modo peculiare nel valore teologico e liturgico della bellezza. La liturgia, infatti, come del resto la Rivelazione cristiana, ha un intrinseco legame con la bellezza: è veritatis splendor. Nella liturgia rifulge il Mistero pasquale mediante il quale Cristo stesso ci attrae a sé e ci chiama alla comunione... La vera bellezza è l’amore di Dio che si è definitivamente a noi rivelato nel Mistero pasquale. La bellezza della liturgia è parte di questo mistero; essa è espressione altissima della gloria di Dio e costituisce, in un certo senso, un affacciarsi del Cielo sulla terra. Il memoriale del sacrificio redentore porta in sé stesso i tratti di quella bellezza di Gesù di cui Pietro, Giacomo e Giovanni ci hanno dato testimonianza, quando il Maestro, in cammino verso Gerusalemme, volle trasfigurarsi davanti a loro (cf. Mc 9,2). La bellezza, pertanto, non è un fattore decorativo dell'azione liturgica; ne è piuttosto elemento costitutivo, in quanto è attributo di Dio stesso e della sua rivelazione. Tutto ciò deve renderci consapevoli di quale attenzione si debba avere perché l’azione liturgica risplenda secondo la sua natura propria» (n. 35).
    Le tre campate della simbolica cattedrale dello spirito toccano rispettivamente il rapporto fra verità e bellezza nella liturgia, l’idea agostiniana di bellezza come ordo amoris, e dunque come forma generatrice di armonia, e quella tomista di bellezza come veritatis splendor, e la loro rispettiva attuazione nel celebrare cristiano. Sviluppando la riflessione attraverso questi tre passaggi cercherò di rispondere all’interrogativo su come la riflessione cristiana sul bello quale riflesso e splendore del vero, sperimentato e accolto nella liturgia, possa diventare scelta pastorale, itinerario per un rinnovamento della vita ecclesiale in conformità al disegno divino d’amore rivelato e donato in Gesù Cristo, il bel Pastore (cf. Gv 10,11). La conclusione, figurata nell’abside della nostra cattedrale dello spirito, tenterà di fare delle idee presentate materia di contemplazione e di lode, stimolando a tradurre il “lógos” in “hýmnos” come avviene nel celebrare cristiano, dove si incontrano la bellezza e la verità del Dio tre volte Santo, Uno nell’eterno Amore, che si dona a noi per la nostra gioia, la vera pace e la salvezza eterna.


    1. Liturgia, verità e bellezza

    Il rapporto fra verità, bellezza e liturgia è radicato nella natura stessa dell’azione liturgica, che rende presente il mistero pasquale di Cristo affinché i fedeli siano partecipi della vita divina, amore infinito, verità salvifica e infinita bellezza. Perciò, Papa Francesco nell’Evangelii gaudium, testo programmatico del Suo pontificato promulgato il 24 novembre 2013, afferma che «la Chiesa evangelizza e si evangelizza con la bellezza della liturgia, la quale è anche celebrazione dell’attività evangelizzatrice e fonte di un rinnovato impulso a donarsi» . Queste 1 affermazioni ci aiutano a comprendere come il Mistero pasquale si renda presente nella storia in modo particolare attraverso la “via pulchritudinis”, ossia attraverso segni sensibili ed eventi di bellezza, in cui si fa presente le Verità di Cristo Salvatore: segni ed eventi di cui sono ricche le azioni liturgiche.
    Peraltro, l’intera storia della fede proclamata, celebrata e vissuta attesta come l’azione liturgica si compia attraverso un insieme di “signa sensibilia”, che si pongono secondo una linea di continuità che va dall’incarnazione del Figlio eterno alla celebrazione della Chiesa: è quanto osservava già San Leone Magno, scrivendo che «quanto del nostro Redentore si è reso visibile è passato nei sacramenti»2. In tale linea Papa Francesco afferma : «Fin da subito la Chiesa ha compreso, illuminata dallo Spirito Santo, che ciò che era visibile di Gesù, ciò che si poteva vedere con gli occhi e toccare con le mani, le sue parole e i suoi gesti, la concretezza del Verbo incarnato, tutto di Lui era passato nella celebrazione dei sacramenti»3. Nella liturgia i sensi sono coinvolti quale veicolo per raggiungere i fedeli e renderli partecipi della vita divina: anche così risulta evidente come il cristianesimo, fondato sulla fede nel Verbo Incarnato, sia la religione della salvezza “della storia” e non “dalla storia”. In esso, ciò che è storico e umano è assunto e trasfigurato dalla grazia, perché l’Eterno vi prenda dimora.
    In questa luce i cinque sensi, con cui la persona entra in relazione col reale, rivestono un ruolo peculiare nell’atto liturgico: essi costituiscono le porte attraverso cui l’umano è raggiunto dal divino e a sua volta si mette in comunicazione con il Signore vivente. Il Figlio di Dio, venuto nella carne e risorto dai morti, continua a servirsi di questi canali: attraverso l’udito comunica la Sua Parola di vita, che offre la verità salvifica e appella all’ascolto; attraverso il tatto si rende percepibile nei gesti sacramentali e nelle opere di carità; si fa nostro cibo offrendosi al gusto nel pane di vita e nel vino salutare; attraverso l’olfatto ci fa assaporare il Suo profumo, evocato dall’odore del crisma, dell’incenso o dei fiori; si lascia contemplare attraverso la vista, che guarda le immagini del divino rappresentate dall’arte o i gesti compiuti nella liturgia o nella testimonianza della fede e dell’amore operoso. Attraverso i sensi il dono della verità divina, offertoci nel Figlio fatto uomo per noi, raggiunge chiunque l’accolga con fede: «La verità, infatti, - afferma Papa Francesco - non è un’idea astratta, ma è Gesù, il Verbo di Dio in cui è la Vita che è la Luce degli uomini (cf. Gv 1,4), il Figlio di Dio che è insieme il Figlio dell’uomo»4.
    Incontrare e accogliere la Verità così intesa vuol dire trovare il senso e la forza rinnovatrice della vita, nella comunione del popolo santo di Dio e in armonia con tutto il creato: «Nell’incontro con Lui, il Vivente (cf. Ap 1,18) e il Primogenito tra molti fratelli (cf. Rm 8,29), il cuore dell’uomo sperimenta già sin d’ora, nel chiaroscuro della storia, la luce e la festa senza più tramonto dell’unione con Dio e dell’unità coi fratelli e le sorelle nella casa comune del creato, di cui godrà senza fine nella piena comunione con Dio»5. Dalla liturgia ben celebrata nasce, dunque, con sempre nuova freschezza un popolo di cristiani adulti, chiamati a far esperienza della bellezza di Dio e a testimoniarne la verità nella quotidianità della vita per la gioia e la vita piena di tutti: in tal senso, Fr. Max Thurian non esitava ad affermare che la liturgia è la «joie du ciel sur la terre»6. Chiesa radunata ed espressa dalla liturgia e Chiesa che irradia la divina verità e bellezza nel suo essere in uscita al servizio della pace e dei più diversi bisogni umani, sono due aspetti della medesima realtà ecclesiale voluta dal Signore. È questa la Chiesa del Concilio, è questa la comunità della salvezza che Papa Francesco non si stanca di stimolare, vivificare e inviare, perché sia accogliente verso tutti, serva di tutti, portatrice della bellezza di Dio in ogni situazione umana.
    Analogamente a come l’esperienza delle realtà corporali avviene attraverso i cinque sensi fisici, l’esperienza delle realtà spirituali, con cui partecipiamo alla verità e alla bellezza del Salvatore, si compie attraverso quelli che possono dirsi i “sensi spirituali”: mediante questi viene a realizzarsi la comunicazione tra chi partecipa alla liturgia e il Dio vivente. Afferma Papa Francesco nella Lettera Desiderio desideravi: «La liturgia non ci lascia soli nel cercare un’individuale presunta conoscenza del mistero di Dio, ma ci prende per mano, insieme, come assemblea, per condurci dentro il mistero che la Parola e i segni sacramentali ci rivelano. E lo fa, coerentemente con l’agire di Dio, seguendo la via dell’incarnazione, attraverso il linguaggio simbolico del corpo che si estende nelle cose, nello spazio e nel tempo»7. In tal senso, Origene parla delle potenzialità spirituali che i sensi assumono: «La vista, che può fissare le realtà superiori al corpo [...]; l’udito, che percepisce dei suoni che non si trovano realmente nell’aria; il gusto che ci fa assaporare il pane vivo disceso dal cielo per dare la vita al mondo; i profumi di cui parla Paolo, che sono per Dio il buon odore di Cristo; il tatto, grazie al quale Giovanni afferma di aver toccato con le mani il Verbo della vita»8.
    È, però, Agostino a offrirci un’appassionata testimonianza personale sul valore spirituale dei sensi nella relazione con Dio, quando nelle Confessioni afferma: «Ma che amo, quando amo te, (Signore)?... Amo una sorta di luce e voce e odore e cibo e amplesso nell’amare il mio Dio: la luce, la voce, l’odore, il cibo, l’amplesso dell’uomo interiore che è in me, dove splende alla mia anima una luce non avvolta dallo spazio, dove risuona una voce non travolta dal tempo, dove olezza un profumo non disperso dal vento, dov’è colto un sapore non attenuato dalla voracità, dove si annoda una stretta non interrotta dalla sazietà. Questo amo, quando amo il mio Dio»9. Perciò occorre sempre di nuovo prestare attenzione all’insieme dei segni sensibili attraverso cui la celebrazione liturgica viene a realizzarsi: come osserva Papa Francesco, perché la ricchezza della liturgia «sia efficace ci viene chiesto di riscoprire ogni giorno la bellezza della verità della celebrazione cristiana. Mi riferisco ancora una volta al suo senso teologico, come il n. 7 della Sacrosanctum Concilium ha mirabilmente descritto: la Liturgia è il sacerdozio di Cristo a noi rivelato e donato nella sua Pasqua, reso oggi presente e attivo attraverso segni sensibili (acqua, olio, pane, vino, gesti, parole) perché lo Spirito, immergendoci nel mistero pasquale, trasformi tutta la nostra vita conformandoci sempre più a Cristo»10.
    Ad agire attraverso i “sensi spirituali” è lo Spirito Santo: grazie alla Sua azione il tocco divino ci raggiunge e trasforma nell’ascolto della Parola di Dio, nella vista che educata dalla fede sa leggere il linguaggio dei segni e dei gesti, nel tatto che ci mette in rapporto con i “sancta” (segni eucaristici, olio delle unzioni, acqua lustrale, ecc.), nello sguardo che riconosce l’azione divina negli atti sacramentali, nel gusto che assapora il pane eucaristico come cibo di vita eterna, nell’olfatto che attraverso il profumo dei segni si apre al profumo di Cristo (cf. 2 Cor 2,14-16).
    L’opera dello Spirito sul Risorto si estende così fino a raggiungere e vivificare i credenti che si aprano con fede ai doni della grazia: per la via dei “sensi spirituali” la comunità dei discepoli è raggiunta dalla bellezza e dalla verità di Dio ed è resa Corpo del Signore vivente nella storia. Il tocco della carne di Cristo vivificata dal Paráclito, in particolare, diventa sorgente di vita nuova, partecipazione alla comunione trinitaria. È possibile allora riconoscere in questa azione compiuta coinvolgendo i “sensi spirituali” l’opera del Figlio incarnato, datore di vita, che agisce in noi effondendo lo Spirito Santo, per vivificarci come Lui è stato raggiunto e vivificato dal Consolatore.
    Quest’“accondiscendenza” divina (“synkatábasis”) viene ad attuarsi nella celebrazione secondo due vie: l’armonia della comunione a noi partecipata (“forma amoris”) e la “trasgressione simbolica”, di cui ogni liturgia vive e che la rende così feconda e necessaria ai pellegrini del tempo.
    Non è difficile, peraltro, cogliere nella grande tradizione del pensiero della fede come Cristo, il “bel Pastore” (Gv 10,11), sia la rivelazione della bellezza che salva secondo la duplice via della bellezza armonica, propria del “più bello fra i figli degli uomini” (Sal 45,3), e di quella conturbante dell’Uomo dei dolori, davanti a cui ci si copre la faccia (cf. Is 53,2). Entrambe le vie, però, per essere percorse, richiedono capacità di stupore e di adorazione: «Lo stupore - afferma Papa Francesco - non è una sorta di smarrimento di fronte a una realtà oscura o a un rito enigmatico, ma è, al contrario, la meraviglia per il fatto che il piano salvifico di Dio ci è stato rivelato nella Pasqua di Gesù (cfr. Ef 1,3-14), la cui efficacia continua a raggiungerci nella celebrazione dei “misteri”, ovvero dei sacramenti… Se lo stupore è vero non vi è alcun rischio che non si percepisca, pur nella vicinanza che l’incarnazione ha voluto, l’alterità della presenza di Dio…La bellezza, come la verità, generano sempre stupore e quando sono riferite al mistero di Dio, portano all’adorazione»11.
    Dei due approcci possono essere indicati rispettivamente come testimoni peculiari Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino, convergenti comunque nella contemplazione e nella proclamazione della verità del Redentore dell’uomo quale bellezza che salverà il mondo, incontrata, celebrata e accolta nell’atto liturgico della Chiesa. A questi due approcci ci accosteremo ora per considerare come bellezza e verità siano all’opera nel celebrare cristiano.


    2. La bellezza come forma: la liturgia e l’“ordo amoris”

    L’intera esistenza di Agostino è attraversata dalla meditazione dei temi, che egli considerava intimamente connessi, di Dio Verità e del bello12. L’interesse per questo secondo motivo è dominante già nel tempo che precede la conversione, vista come un approdo alla vera bellezza. È lui stesso a riconoscerlo nella struggente testimonianza delle Confessioni, in cui il Tu dell’invocazione è rivolto a Colui che è la bellezza: «Tardi Ti amai, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi Ti amai!»13. Queste parole contengono due novità rispetto alla concezione del bello che aveva dominato il pensiero classico: da una parte, Agostino dà del Tu alla Bellezza, mostrandone il carattere personale e dialogico; dall’altra, ne afferma la condizione divina e salvifica, il suo essere “tanto antica e tanto nuova”, eterna e sempre viva, degna di amore assoluto. La Bellezza non è qualcosa, è Qualcuno, l’Unico che si debba amare al di sopra di tutto, perché è la sorgente e il termine stesso dell’amore. Di fronte a questa Bellezza prima e ultima, Agostino riconosce la grandezza e i limiti delle bellezze penultime e confessa che proprio la bellezza delle creature lo aveva tenuto lontano dal Creatore.
    Questi lo ha raggiunto, però, con la Sua bellezza attraverso quella via dei sensi, mediante la quale percepiamo il bello in ogni suo apparire . L’itinerario di Agostino 14 si presenta, dunque, come un cammino dalla bellezza alla Bellezza, dal penultimo all’Ultimo, per poi ritrovare il senso e la misura della bellezza di tutto ciò che esiste nel fondamento di ogni bellezza. Ciò che unifica in modo pregnante questa duplice via di uscita (“ék-stasis”) e di ritorno è il motivo dell’amore: in realtà, la bellezza può tanto su di noi perché ci attrae con vincoli d’amore. È ancora nelle Confessioni che si trova questa considerazione: «Non è forse vero che noi non amiamo che il bello?»15. La forza di attrazione della bellezza non è che quella dell’amore: “ordo amoris” è il mondo del bello16. Nasce perciò la domanda su che cosa nella bellezza attiri l’amore, rendendo bello ciò che è bello. Agostino vi riflette con rigore a partire dalla propria esperienza17: due possibili risposte gli si affacciano alla mente. Stando alla prima, la ragione formale della bellezza è nelle cose stesse che ci appaiono belle; secondo l’altra, invece, la ragione del bello è nel soggetto, che ne prova piacere. È l’alternativa, che vale tanto in rapporto alla bellezza, quanto in rapporto alla verità o al bene: la misura è nel soggetto o nell’oggetto? è bello ciò che è bello o è bello ciò che piace? 18 Per chi, come Agostino, è giunto al forte senso dell’oggettività del vero, che illumina dal profondo il mondo del soggetto, non c’è alcun dubbio nella scelta fra le due possibilità: «Le cose piacciono perché sono belle»19. La bellezza di ciò che è bello non dipende dal gusto del soggetto, ma è inscritta nelle cose, dotata di una sua forza oggettiva: «Le cose sono belle perché le parti, per una sorta di intimo legame, danno luogo a un insieme conveniente»20. Bello è ciò che presenta un’intima, organica “convenientia”, un “con-venire” che ha la sua sorgente nel profondo: la “forma” rispecchia nel finito l’armonia infinita, tanto che il latino chiama “formosus” il bello; la bellezza riproduce nel frammento i “numeri del cielo”. La bellezza, dunque, “viene a noi”, non “diviene in noi”. Proprio così la bellezza risulta essere uno con l’amore, inteso come ordine e corrispondenza degli amanti: e perciò la bellezza più alta sarà l’amore più alto, la Trinità divina, l’“ordo amoris” nella sua forma suprema. Afferma Agostino: «In verità vedi la Trinità, se vedi l’amore»21. «Ecco sono tre: l’Amante, l’Amato e l’Amore»22. Si può dire che tutto ciò che è bello viene dalla Trinità ed è attratto da essa: «Nella Trinità si trova la fonte suprema di tutte le cose, la bellezza perfetta, il gaudio completo»23.
    È questa attrazione verso la bellezza ultima, è questo amore che ispira l’intero movimento di ritorno del creato al Creatore: la bellezza dell’amore infinito apparso in Gesù Cristo suscita l’amore della bellezza, che di grado in grado fa percorrere all’uomo la via che porta alla gioia di Dio tutto in tutti. La via della Bellezza si rivela così come la via della salvezza e della verità: nella bellezza tutto è unificato, tutto giustificato nel suo ultimo senso e valore. La sapienza della bellezza greca è assunta e superata: l’armonia delle forme è la chiave, ma il movimento di trascendenza che la percorre - dischiuso sull’abisso dell’atto creatore e reso sempre di nuovo accessibile a noi nella divina liturgia - porta ben al di là di una bellezza mondana, verso la sponda gustata in questo mondo come anticipo e caparra della bellezza eterna del Dio Trinità Amore. Questa concezione ha conseguenze importanti sull’annuncio e la celebrazione del bel Pastore, il Signore Gesù: due urgenze emergono in primo piano. Da una parte, l’incontro con Cristo va proposto e celebrato in tutta la sua bellezza, capace di attrarre le menti e i cuori con vincoli d’amore; dall’altra, bisogna vivere e testimoniare la bellezza della comunione in un mondo spesso segnato dalla disarmonia e dalla frammentazione.
    In quanto annuncio, celebrazione e dono dell’amore che supera ogni conoscenza, la liturgia è offerta di bellezza: Gesù Cristo non è solo la verità e il bene, egli è la bellezza che salva. Bello è - secondo le parole di Pietro - “stare sul monte” con Lui (cf. Mt 17,4) e farne esperienza su quel “sacro monte”, che è l’altare dove si celebrano i divini misteri. In questo senso, la bellezza della liturgia, celebrata con cura, partecipazione, fede e amore, si offre come feconda per avvicinare gli uomini al Dio di Gesù Cristo e sostenere l’impegno della Chiesa al servizio della Verità. Non a caso il Pastore, che raccoglie le pecore nell’unità del Suo gregge, è presentato nel Vangelo giovanneo come il Pastore “bello” (cf. Gv 10,11). È Lui la buona novella, il Vangelo vivente: perciò, la bellezza del Suo amore, partecipata a noi nell’azione liturgica, è per eccellenza la forza dell’evangelizzazione e della vita nuova. Nella fede i discepoli che celebrano i divini misteri incontrano l’Amato e si lasciano inondare dalla bellezza del Suo eterno amore: «Novi novum canamus canticum» - «Resi nuovi cantiamo il cantico nuovo»24.
    La testimonianza, che dalla liturgia scaturisce (“Ite, missa est!”), è la via dell’annuncio del Vangelo, inseparabile dallo sfolgorio della bellezza negli atti dei discepoli, uniti fra loro in quanto ognuno è interiormente trasfigurato dallo Spirito di Cristo: dove la carità si irradia, lì s’affaccia la bellezza che salva, lì è resa lode al Padre celeste, lì cresce l’unità dei discepoli dell’Amato, uniti a Lui nella forza del Suo amore crocifisso e risorto. Questa bellezza si attinge dalla partecipazione attiva e fruttuosa alla liturgia e risplende nella comunione della Chiesa, vissuta nell’accoglienza reciproca e nel rispetto della diversità di doni e ministeri voluta dal Signore: è la bellezza dell’ordine, della convergenza pacificante delle parti nel tutto, delle diversità in comunione; ed è la bellezza irradiante della carità, nel dono che evoca e ripresenta l’amore del bel Pastore per ciascuno di noi. Questa bellezza si comunica a noi in modo speciale proprio nella liturgia, ripresentazione della carità del Bel Pastore nel cuore della comunione ecclesiale, culmine e fonte della vita e della missione del popolo di Dio nella storia.
    L’ordine e la disciplina liturgica, in questa luce, appaiono nel loro significato di fonte e custodia della bellezza, al servizio di una fedele ed irradiante attualizzazione dell’amore del Salvatore. «La verità manifestata - scrive Pavel Florenskij - è l’amore. L’amore realizzato è la bellezza» : nell’azione liturgica - nei segni, nei luoghi, negli arredi, nelle 25 vesti, nella gestualità, nelle parole, nell’attiva partecipazione di tutti, ognuno secondo il dono ricevuto e il ministero esercitato - verità, bellezza e amore si incontrano, e questo incontro si offre come il simbolo dei simboli del mondo, evento sacramentale in cui il cielo dimora sulla terra e l’eternità mette le sue tende nel tempo, trasformando lo spazio nel tempio santo, che brilla della bellezza celeste. Nella liturgia si incontrano, dunque, il cielo e la terra, e perciò è in essa e da essa che l’identità profonda della Chiesa pellegrina nel tempo sgorga e si manifesta: ed è così proprio dalla liturgia che il popolo di Dio attinge il suo compito profetico, sacramentale e di servizio alla carità e alla giustizia, e la sua vocazione a essere segno e anticipazione della compiuta bellezza del Regno. «Lì noi ci riposeremo e vedremo; vedremo e ameremo; ameremo e loderemo. Ecco ciò che sarà alla fine, senza fine»26.
    Da queste considerazioni nascono alcune domande per la verifica delle nostre celebrazioni e la formazione a una pastorale attenta alla coniugazione di bellezza e verità nel celebrare cristiano: come è presentata nella predicazione, nella catechesi e nell’azione liturgica la bellezza di Dio, rivelata nel bel Pastore, Gesù Cristo? Come è promossa e custodita la bellezza della comunione, che ha nella liturgia il suo culmine e la sua fonte? Si ha coscienza che questa bellezza del reciproco accogliersi rispettoso della diversità è condizione fondamentale della celebrazione e della missione, secondo la parola del Signore «da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35)? Si cura la bellezza e l’ordine della liturgia, degli spazi sacri, degli ambienti della comunità, per annunciare anche così la verità salvifica del Signore Risorto?


    3. La bellezza come crocifisso amore: la liturgia e il Redentore dell’uomo

    Accanto alla via percorsa da Agostino, incentrata sulla bellezza come “forma amoris”, sta l’altra, percorsa ad esempio da Tommaso d’Aquino, per il quale la chiave interpretativa della bellezza a noi partecipata in Cristo non è solo il rimando alla forma, ma la bellezza del crocifisso amore, quell’abbandono del Figlio in Croce, dove una volta per sempre Dio ha abitato la nostra morte per donarci la vita vittoriosa ed eterna. È nel frammento, che è la carne del Verbo fatto uomo, crocifisso per noi, che il bello si è offerto “sub contraria specie”, proprio nel volto di Colui davanti al quale ci si copre la faccia, che è inseparabilmente il volto del più bello dei figli degli uomini (cf. Is 53,3 e Sal 44,3). È la via della meditazione sulla bellezza costruita a partire dal frammento che è il Figlio incarnato, “verbum abbreviatum” dell’intera rivelazione di Dio. Scrive Tommaso nella Pars I della Summa Theologiae27: «La bellezza ha a che fare con ciò che è proprio del Figlio». E aggiunge a spiegazione di quest’affermazione che, perché ci sia bellezza, occorrono l’integritas, la proportio e la claritas, l’integrità, la proporzione e l’irradiarsi della luce, come sono presenti nel Verbo Incarnato.
    La bellezza dipende anzitutto dall’integritas, da quella perfectio, che altro non è se non la realizzazione compiuta della cosa: «La bellezza è la forma del tutto, che sorge dall’integrità delle parti»28. Nella bellezza è il tutto che si affaccia: così, nel Figlio incarnato è la totalità del mistero divino che si rivela, la natura divina resa accessibile nella persona del Verbo, che ha assunto la natura umana: «L’integrità riguarda ciò che è proprio del Figlio, in quanto il Figlio ha in sé in maniera vera e perfetta la natura del Padre». Discepolo dell’eredità classica, convinto perciò che quando si ha a che fare col bello non ci si può fermare al frammento, Tommaso non esita a riconoscere nel Verbo incarnato la presenza della Totalità divina, ben consapevole di come un tale riconoscimento modifichi radicalmente l’idea stessa della totalità. Non si tratta più della totalità chiusa di un’alterità irriducibile; ciò con cui si ha a che fare è la totalità ospitale del Dio incarnato e crocifisso, è il tutto che accoglie in sé ciò che è altro da sé, è il Dio che è Amore.
    Questo tutto irradiante e ospitale si manifesta nella liturgia non solo secondo la via classica della proportio, seguita da Agostino e fatta propria non di meno da Tommaso, ma anche nella via della claritas, secondo cui la bellezza non è solo “forma”, ma anche luminosità, folgorazione, splendore: «La luce è sorgente di bellezza, perché costituisce la sostanza stessa del colore e, nello stesso tempo, la condizione esteriore della sua visibilità; di volta in volta, essa viene presa in considerazione con un’ottica mistica, metafisica o scientifica, ma la sua importanza rimane sempre confermata» . Bello è, allora, il Figlio fatto carne, «luce che 29 splende nelle tenebre» (Gv 1,5), Parola eterna che si comunica a noi nella fragilità delle nostre parole, trasmettendovi l’eco fedele dell’eterno dirsi divino, azione che ci fa partecipi della vita e della bellezza di Dio. Il Tutto si offre come luce che risplende, inabita, trapassa e attira: in particolare, questa luce brilla nella celebrazione liturgica, irradiando nelle tenebre la sua luminosità. Così, ad esempio, nella liturgia delle ore un inno scritto da Sant’Ambrogio canta questa luce indentificandola nel Cristo, splendore del Padre: «Splendor paternae gloriae, / de luce lucem proferens, / lux lucis et fons luminis, / diem dies illuminans» - «O Splendore della gloria del Padre / che trai Luce dalla Luce, / Luce della Luce e sorgente della luminosità, / giorno che illumini il giorno» 30 Perciò secondo Tommaso la claritas «corrisponde a ciò che è proprio del Figlio, in quanto egli è il Verbo, luce e splendore dell’intelligenza». Il Tutto si fa presente nel Figlio incarnato come “splendore” della gloria del Padre, in una circolarità piena - come osserva Umberto Eco - fra “momento estetico” e “momento teofanico”31: questo avviene in particolare nella celebrazione liturgica, in cui la luce venuta a splendere nelle tenebre nel Verbo incarnato è proclamata, professata e accolta. Si può dire, allora, che la liturgia è il luogo in cui la divina Presenza si offre in segni saturi di essa, rendendosi accessibile per la via dei sensi. Lo mostra in maniera densa e profonda uno fra i più belli degli inni eucaristici attribuiti a San Tommaso d’Aquino, l’Adoro Te devote: «Adoro Te devote, latens Deitas, / Quae sub his figuris vere latitas: / Tibi se cor meum totum subiicit, / Quia te contemplans totum deficit». Il Dio nascosto si offre nei segni sacramentali, lasciandosi contemplare in essi come l’approdo a cui il cuore di chi crede può totalmente abbandonarsi, in un’unione di vita piena e bella, come può essere solo quella in cui l’Infinito si fa piccolo per essere da noi abbracciato e colmarci della Sua presenza. «Visus, tactus, gustus in te fallitur, / Sed auditu solo tuto creditur. / Credo quidquid dixit Dei Filius: / Nil hoc verbo Veritatis verius». I sensi sono rapiti nell’esperienza di fede, che risponde all’ascolto della Parola rivelata, proclamata da e nel Figlio di Dio incarnato, Verbo di verità e di vita piena.
    Questa partecipazione nel tempo alla bellezza divina è pegno, anticipo e promessa della bellezza che sarà svelata pienamente nell’eternità: «Iesu, quem velatum nunc aspicio, / Oro fiat illud quod tam sitio; / Ut te revelata cernens facie, / Visu sim beatus tuae gloriae». La meditazione di Tommaso sulla bellezza unisce, allora, due mondi: l’anima greca, con la sua ansia di coniugare il molteplice all’ordinata presenza dell’Uno, e l’anima ebraico-cristiana, con la sua fede nel Dio della storia, che irrompe nella notte del tempo come luce e fuoco divorante e parla le parole degli uomini e stringe alleanza con loro, fedele alle Sue promesse fino al farsi carne del Figlio, in Lui destinandosi per sempre alla creatura consapevole e libera, chiamata a rispondere al patto col patto, precisamente nell’atto della celebrazione liturgica. Perciò Tommaso può affermare: «A definire il bello concorrono sia la luminosità che la proporzione dovuta» . La 32 forma da sola non basta, perché può scadere in estetismo, idolatria del frammento isolato dal tutto; ma anche lo splendore da solo è insufficiente, perché è solo attraversando una forma e trasfigurandola dal di dentro che il Verbo eterno fa irruzione nel tempo.
    È, allora, nell’azione liturgica che si attua l’evento simbolico che tiene insieme lo splendore e la forma, a partire da quanto avviene nella discesa kenotica nelle tenebre del Venerdì Santo e nella vittoria pasquale sulla morte e il peccato. Nel Signore Gesù una volta per sempre il Tutto ha abitato il frammento, trapassandolo da parte a parte, verso l’abisso della divinità e verso le opere e i giorni degli uomini: e questa presenza, scartata dai potenti, ma vittoriosa in Dio, è donata alle nostre opere e ai giorni precisamente nella liturgia. L’agape crocefissa e gloriosa, proclamata, celebrata, accolta e vissuta, è la bellezza che salva e che viene a noi nella celebrazione della Chiesa. È a partire da questa riflessione cristologica che si comprende anche il senso del nome destinato a più larga fortuna per designare la bellezza nelle lingue romanze: “bello” (dal latino medioevale “bonicellum”, “piccolo bene”, “bene abbreviato”). L’idea di bellezza che vi è evocata è quella del contrarsi dell’Onnipotente nella debolezza, dell’Infinito nel finito, della gloria nell’umiltà e nella vergogna della Croce: il bello è l’amore che induce l’infinito Bene a consegnarsi alla morte e a risorgere per il bene dell’amato. Il bello è umiltà, kènosi dello splendore e proprio così paradossale splendore della kènosi, come la liturgia ci fa sperimentare. Il linguaggio del bello nella cultura dell’Occidente trasmette l’idea cristiana nella rivelazione dell’infinito amore sulle braccia della Croce, innalzata sulla collina fuori di Gerusalemme… Quali conseguenze ha questa concezione della bellezza sull’annuncio del bel Pastore Gesù Cristo e per il significato della celebrazione, in cui Egli si offre a noi per l’edificazione della Chiesa e la salvezza del mondo? Due urgenze appaiono qui rilevanti: il primato della carità come “forma Ecclesiae”, e l’annuncio della speranza fondata sulla promessa della bellezza, celebrata e pregustata nell’azione liturgica, anche se non ancora pienamente raggiunta. Nulla come l’amore che si consegna alla morte per l’altro rivela la bellezza che viene da Dio: così, la bellezza letta alla luce del bel Pastore contesta la miopia della falsa bellezza. Se nel grande mercato del “villaggio globale” la maschera pare trionfare su tutti i fronti rispetto alla serietà tragica dell’interruzione e alla vittoria gloriosa della verità e della bellezza che salva, la via cristologica insegna a cogliere la bellezza come evento sempre nuovo di un possibile, impossibile amore, impossibile perché oltre ogni misura delle nostre forze, possibile, perché donato dall’alto e a noi offerto nell’azione liturgica per essere vissuto nella carità operosa. È questo “amore folle” di Dio il volto della bellezza, che sola può aiutare gli abitatori del tempo a “trasgredire” veramente la morte e a “redimere” con la carità il frammento ferito dal male: è l’amore umile e generoso, ricevuto dall’alto, la Bellezza che salva.
    Questa offerta di verità e bellezza che viene a compiersi nella divina liturgia è, infine, annuncio della speranza che non delude. Proporre alle donne e agli uomini del nostro tempo la vera bellezza, rendere la Chiesa attenta ad annunciare sempre, a tempo e fuori tempo, la bellezza che salva, sperimentata lì dove l’eternità ha messo e mette le sue tende nel tempo, vuol dire offrire ragioni di vita e di speranza a chi rischia di non averle o di perderle. Una Chiesa testimone del senso ultimo e perciò apportatrice di fiducia nel cuore della storia umana è popolo della bellezza che salva, in quanto anticipa nel tempo penultimo qualcosa della promessa bellezza di Dio, che sarà tutto in tutti nell’ultimo tempo. La speranza, anticipazione militante dell’avvenire del mondo redento, promesso nel Figlio crocifisso e risorto, è annuncio della bellezza, di cui il nostro tempo ha particolarmente bisogno ed è proprio così condizione preziosa di un nuovo, possibile slancio evangelizzatore, nel servizio alla causa del volerci tutti più umani secondo il disegno di Dio. Non un frutto della terra, ma il dono dall’alto è grazia e salvezza, quello che nella liturgia ci viene fatto e che noi confessiamo dicendo: «Annunciamo la Tua morte, Signore proclamiamo la Tua resurrezione, nell’attesa della Tua venuta!».
    Qui la riflessione si traduce in domande che ci toccano in prima persona: siamo consapevoli del primato che - proprio a partire dalla liturgia - spetta alla carità nella vita e nella missione della Chiesa, perché essa sia la Sposa bella del bel Pastore? Ci rendiamo conto della responsabilità che come credenti abbiamo di testimoniare a tempo e fuori tempo l’amore del Crocifisso, che ha consegnato sé stesso per noi e per tutti e sempre a noi si consegna nell’azione liturgica? Consideriamo l’attività della Chiesa al servizio della giustizia e della pace, come pure il suo impegno per la salvaguardia del creato, come un’espressione quanto mai adeguata della bellezza di cui essa è testimone e riserva per tutti, proprio a partire dalla liturgia «culmen et fons totius vitae Ecclesiae» (Sacrosanctum Concilium, n. 10)? Traiamo dalla celebrazione liturgica la forza per vivere e testimoniare il futuro della speranza, che il bel Pastore ci ha garantito nel Suo mistero pasquale? Siamo consapevoli che la testimonianza della verità e l’esperienza della bellezza che salva, accolte nella celebrazione liturgica, sono inseparabilmente annuncio del senso ultimo della vita e della storia e anticipazione della patria intravista, anticipata e promessa nella rivelazione? Una conclusione aperta… Anche nella risposta a queste domande la riflessione cristiana sulla bellezza, alla scuola della duplice via di Agostino e di Tommaso, può diventare scelta pastorale, itinerario per un rinnovamento possibile della vita ecclesiale in conformità al disegno d’amore rivelato e donato dal bel Pastore, di cui diveniamo partecipi in maniera precipua nella liturgia, celebrata e vissuta. Dei versi di Raïssa Maritain, nella lirica Transfiguration, evocano questo potere trasformante e vivificante che l’incontro col Dio vivente, vissuto dai credenti nella celebrazione liturgica, intesa come invocazione e accoglienza della divina verità e bellezza, può avere su di noi:

    Quando t’avrò vinto o mia vita o mia morte
    Quando t’avrò vinto - amore
    E sarò fatta conforme all’amore eterno
    Come un uccello che batte le ali
    Che discioglie nel suo volo i legami della terra
    Quando t’avrò vinto ostile fascino della felicità
    E avrò conquistato la mia libertà celeste
    Quando avrò sconfitto la gioia e lo sconforto
    Quando avrò superato le vie dei desideri
    E avrò scelto il cammino più duro
    Come il cielo notturno sconfinato e puro
    Nell’armonia vera di tutte le stelle
    Sarà il mio cuore nell’armonia della grazia
    Ma ti avrò salvato - amore
    Di te avrò salvato la vita e non la morte
    E t’avrò incontrato - felicità
    Dopo aver dato al mio Signore tutto di me stessa
    Come un vascello fortunato
    Che rientra nel porto col suo carico intatto
    Approderò in cielo col cuore trasfigurato
    Recando offerte umane e senza macchia...


    NOTE

    1 Esortazione apostolica Evangelii gaudium, n. 24.
    2 De Ascensione Domini II, 2.
    3 Lettera Apostolica sulla formazione liturgica del popolo di Dio, Desiderio desideravi, 29 giugno 2022, n. 9.
    4 Costituzione Apostolica Veritatis Gaudium (29 gennaio 2018), n. 1.
    5 Ib. Lo stesso Papa Francesco afferma nella Lettera Apostolica Desiderio desideravi: «L’incarnazione oltre ad essere l’unico evento nuovo che la storia conosca, è anche il metodo che la Santissima Trinità ha scelto per aprire a noi la via della comunione. La fede cristiana o è incontro con Lui vivo o non è» (n. 10).
    6 Cf. M. Thurian, Joie du ciel sur la terre. Introduction a la vie liturgique, Delachaux et Niestlé, Neuchâtel et Paris 1946. Cf. pure di M. Thurian, L’Eucaristia, Memoriale del Signore, Sacrificio di azione di grazia e d’intercessione, AVE, Roma 1967.
    7 Desiderio desideravi, n. 19.
    8 Origene, Contra Celsum 1, 48.
    9 Agostino, Confessioni, X, 6,8; 27.
    10 Desiderio desideravi, n. 21.
    11 Ib., n. 25.
    12 Cf. J. Tscholl, Dio e il bello in sant’Agostino, Ares, Milano 1996 (originale tedesco: Leuven 1967).
    13 Confessioni, X, 27, 38.
    14 Ib.: «Ecco, Tu eri dentro di me, io stavo al di fuori: qui Ti cercavo e, deforme qual ero, mi buttavo sulle cose belle che Tu hai fatto. Tu eri con me, io non ero con Te. Mi tenevano lontano da Te quelle cose che, se non fossero in Te, non sarebbero. Chiamasti, gridasti, vincesti la mia sordità; sfolgorasti, splendesti e fugasti la mia cecità; esalasti il tuo profumo, lo aspirai e anelo a Te; Ti gustai e ora ho fame e sete di Te; mi toccasti e bruciai del desiderio della Tua pace».
    15 Ib. IV, 13, 20.
    16 Cf. R. Bodei, Ordo amoris. Conflitti terreni e felicità celeste, Il Mulino, Bologna 1991.
    17 Cf. Conf., IV, 13, 20.
    18 Cf. De vera religione 32,59.
    19 Ib.
    20 Ib.
    21 De Trinitate, 8, 8, 12.
    22 Ib., 8, 10, 14.
    23 Ib., VI, 10, 12.
    24 Inno tratto dalla liturgia Iam Christe, sol iustitiae, di sapore agostiniano, ultima strofa: «Te rerum universitas, / clemens, adoret, Trinitas, / et nos novi per veniam / novum canamus canticum».
    25 P.A. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, Rusconi, Milano 1998, 116. Dello stesso cf. la raccolta di saggi Bellezza e liturgia, a cura di N. Valentini, Mondadori, Milano 2010.
    26 Sant’Agostino, De civitate Dei, XXII, 30, 5.
    27 Summa Theologica I q. 39 a. 8 c. Sull’estetica di San Tommaso cf. U. Eco, Il problema estetico in Tommaso d’Aquino, Bompiani, Milano 19822, dove l’Autore riprende e valuta a distanza di anni la sua tesi di laurea, pubblicata nel 1956.
    28 Summa Theologica, I q. 73 a. 1c.
    29 M. Savarese, La nozione trascendentale di bello in Tommaso D’Aquino, EDUSC, Roma 2014, 26.
    30 Inno delle lodi del lunedì della terza settimana.
    31 Cf. U. Eco, Il problema estetico..., o.c., 29.
    32 II IIae q. 145 a. 2 c. Cf. pure II IIae q. 180 a. 3 ad 3um.
    33 R. Maritain, Poesie, a cura di G. Galeazzi, Massimo - Jaca Book, Milano 1990, 122s.

    (Prolusione alla Settimana liturgica - Chiavari, 28 agosto 2023)


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