Ungaretti,
poeta soldato
della Grande Guerra
Anna Bordoni Di Trapani
Era arrivato in Italia nel 1912 da Alessandria d'Egitto, dove era nato nel 1888 e viveva, come ci racconta egli stesso, «in una baracca fuori porta con la corte e le galline, l'orto e tre piante di fichi fatte venire dalla campagna di Lucca» dai genitori emigrati. L'Italia era stata per lui la "terra promessa", la terra dei padri. Si sentiva italiano, soprattutto perché parlava italiano, «perché tutto ciò che m'era caro era nella mia lingua» ed era cresciuto con nel cuore «il miraggio dell'Italia».
Ma, sbarcato a Brindisi, si trattiene solo un paio di settimane a Firenze con gli amici della rivista La Voce cui era abbonato, si ferma pochi giorni a Milano e da lì parte per Parigi, «la città santa dell'uomo moderno»: era la città di Baudelaire, di Mallarmé, era la capitale culturale dell'Europa. Qui avrebbe potuto approfondire la sua formazione di aspirante poeta, frequentando le avanguardie artistiche e letterarie internazionali, deciso a muoversi in una prospettiva di innovazione e sperimentazione. Segue le lezioni alla Sorbona e i corsi di Henri Bergson al Collège de France, frequenta gli ambienti artistici delle avanguardie, i caffè di Montparnasse e di Saint-Germaine, conosce Braque, Picasso, Utrillo, Marcel Proust e, fra gli italiani, Modigliani, Boccioni, De Chirico, F. T. Marinetti, Palazzeschi, Soffici, Papini. Ma l'incontro più importante, anche per il rapporto di profonda amicizia che ne nacque, fu quello con Apollinaire, il poeta post-simbolista dei Calligrammi, della poesia visiva, del verso libero, dell'eliminazione della punteggiatura, delle ardite associazioni analogiche, che le avanguardie artistiche del tempo consideravano un punto indiscusso di riferimento.
E in questo ambiente ricco di stimoli artistici e culturali, Ungaretti matura la propria vocazione di poeta e affina i ferri del mestiere. Ma, conseguito il diploma alla Sorbona, nel '14, allo scoppio della guerra mondiale, si trasferisce subito in Italia, per sostenere attivamente la campagna degli anarchici interventisti. Di temperamento aggressivo e, a suo detto, "violento", finì più volte agli arresti, tanto che il suo nome figura nel Casellario Politico Centrale del ministero dell'Interno appunto come soggetto "anarchico". Ma le sue tendenze al sowersivismo si erano già manifestate ad Alessandria, dove pure era stato schedato come "anarchico".
Nel '15, all'entrata in guerra dell'Italia, si arruola volontario come soldato semplice nel XIX Reggimento di Fanteria e viene mandato a combattere al fronte, sul Carso. Il primo impatto con la realtà della guerra, in trincea, «in presenza della morte», fu durissimo: «Era il giorno di Natale del 1915, e io ero nel Carso, sul Monte San Michele. Ho passato quella notte coricato nel fango, di faccia al nemico che stava più in alto di noi ed era cento volte meglio armato di noi. Nelle trincee, quasi sempre nelle stesse trincee, perché siamo rimasti sul San Michele anche nel periodo di riposo, per un anno si svolsero i combattimenti».
In quel contesto di guerra, in quella precaria e drammatica situazione, il fante Ungaretti scrive un gruppo di poesie, 33 in tutto, che racchiudono la sua esperienza esistenziale di quell'anno in trincea. Il poeta racconta che scriveva su foglietti di carta, «cartoline in franchigia, margini di vecchi giornali, spazi bianchi di care lettere ricevute, pezzettini strappati agli involucri delle pallottole, sui quali da due anni andavo facendo giorno per giorno il mio esame di coscienza, ficcandoli poi alla rinfusa nel tascapane, portandoli a vivere con me nel fango della trincea o facendomene capezzale nei rari riposi».
Accadde un giorno che il poeta, confidenzialmente, leggesse quelle poesie ad Ettore Serra: «Non avevo altro ristoro se non di cercarmi e di trovarmi in qualche parola, [...] era il mio modo di progredire umanamente». Il giovane tenente, sensibile e amante della poesia, rimane folgorato da quei versi così intensi, così sconvolgenti nella loro nudità, e glieli porta via, li fa stampare ad Udine, in ottanta copie, e il 16 dicembre del 1916, di sorpresa, gli porta le bozze in trincea, come regalo di Natale. Nasce così il Porto Sepolto, che poi nel '19 confluirà insieme alle altre poesie scritte nei due seguenti anni di guerra nell'Allegria di naufragi.
Quelle "parole", di cui il poeta prendeva nota in trincea, emergevano dal profondo del suo essere come un'illuminazione: «Poche parole piene di significato che dessero la mia situazione di quel momento: quest'uomo solo in mezzo ad altri uomini soli, in un paese nudo, terribile, di pietra [...] Ecco, questa è in fondo [...] la nascita della mia poesia, la prima conquista, la conquista del valore che può avere una semplice parola quando si arriva a colmarla del suo significato».
Era una concezione della poesia che il poeta aveva maturato a contatto con i simbolisti francesi, ma che gli era congeniale. Una parola non tanto intesa come segno convenzionale della lingua, nella sua funzione referenziale, ma come realtà materiale, sonora, ritmica, una parola-immagine dotata di una capacità conoscitiva straordinaria, che le consentisse di penetrare in profondità e cogliere ciò che la ragione non sa trovare. È dalla parola che ha l'avvio il processo creativo del discorso poetico di Ungaretti: come osserva Contini, «in Ungaretti il discorso nasce successivamente alla parola». Un'illuminazione improvvisa fa affiorare alla coscienza del poeta la sua verità esistenziale, e gli detta la "parola nuda", appropriata, necessaria, una parola a lungo cercata, e attesa in religioso silenzio: il silenzio come condizione essenziale dell'"evento", del miracolo della parola poetica.
Quando trovo / in questo mio silenzio / una parola / scavata è nella mia vita/come un abisso (Commiato, Locvizza il 2 ottobre 1916).
Come non pensare all'esperienza poetica del Dante stilnovista? Il quale racconta che, dopo aver riflettuto «alquanti dì con desiderio di dire e con paura di cominciare», un giorno, mentre camminava solo lungo «uno rivo chiaro molto», improvvise e prodigiose gli sgorgarono le parole del canto. «Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per se stessa mossa, e disse: Donne che avete intelletto d'amore. Queste parole io ripuosi ne la mente con grande letizia, pensando di prenderle per mio cominciamento». Quello sarà il primo verso della più famosa canzone della Vita Nuova. Ma per portarla a termine Dante dovette pensare "alquanti die".
«Il primo verso è sempre un dono degli dei», dice Paul Valéry, ma poi il poeta procede con i propri mezzi e all'ispirazione si affianca lo scavo nel linguaggio, la ricerca che mira a potenziare l'espressività della parola, con l'impiego degli strumenti retorici afferenti al "mestiere". Ungaretti li aveva ben appresi dall'amico Apollinaire, e prima ancora leggendo appassionatamente Mallarmé, che l'aveva affascinato fin da ragazzo, per la musicalità dei suoi versi. in questo "lavoro" sta il passaggio dalla parola-illuminazione che egli andava appuntando su pezzetti di carta in trincea alla successiva elaborazione della scrittura poetica che darà origine a quel gruppo di 33 poesie gelosamente custodite nel suo tascapane. Lo riconobbe espressamente egli stesso: «I problemi più difficili e segreti della poesia, specie in momenti estremi, sono problemi di tecnica; o dicendo meglio, problemi di linguaggio» (Vita di un uomo, Saggi e interventi).
Il Porto Sepolto
Ma che cosa significa questo titolo misterioso? Per Ungaretti il "porto sepolto" era un mitico porto di Alessandria d'Egitto, di epoca faraonica, sommerso, si narrava, in fondo al mare. Quel porto diventa per il poeta il simbolo di ciò che di segreto rimane in noi indecifrabile, un segreto che giace nascosto nell'abisso profondo dell'essere. Egli si propone di scendere nel fondo oscuro dell'inconscio, per avvicinarsi a quel mistero insondabile e tornare poi alla luce, novello Orfeo, riportando i suoi canti fatti di echi, di reminiscenze, di frammenti strappati all'inconoscibile. Ce ne parla il poeta nella breve poesia Porto Sepolto che non a caso dà il titolo alla raccolta e la apre.
Vi arriva il poeta / e poi torna alla luce con i suoi canti/ e li disperde // Di questa poesia / mi resta / quel nulla / d'inesauribile segreto (Mariano il 6 giugno 1916).
In questi versi è espressa una vera e propria dichiarazione di poetica, indubbiamente vicina alla poetica simbolista: era stato Baudelaire per primo ad intendere la poesia come rivelazione di un segreto, nascosto nell'abisso, a tuffarsi «in fondo all'ignoto, per trovare qualcosa di nuovo». E anche per Rimbaud il compito del poeta "veggente" era quello di «investigare l'invisibile» e «ascoltare l'inaudito», attraverso un linguaggio che sorge dall'inconscio, ricco di immagini e di simboli: un linguaggio, aggiungeva Mallarmé, soprattutto evocativo e musicale, perché la poesia è per sua essenza «sogno e canto».
Ungaretti condivide l'idea che si debba potenziare l'espressività della parola poetica attraverso l'impiego di nuovi strumenti retorici e stilistici, ma la accoglie in funzione della novità di contenuto della sua poesia che è radicata in una nuova consapevolezza di sé, nella «presa di coscienza della condizione umana, della fraternità degli uomini nella sofferenza, dell'estrema precarietà della loro condizione», acquisita nell'esperienza della guerra. La sua ricerca formale si muove perciò in una direzione autonoma ed originale rispetto ai simbolisti, perché egli non si accontenta di costruire vaghe suggestioni musicali e rifugge da soluzioni di tipo irrazionalistico.
Lo ha dichiarato espressamente in occasioni diverse: «Non conosco sognare poetico che non sia fondato sulla mia esperienza diretta». Per Ungaretti la poesia «è l'estremo velo della verità», è rivelazione dell'ignoto nascosto nel labirinto del suo cuore. Lo ribadisce una volta per sempre, rivolgendosi ad un lettore privilegiato come Ettore Serra, nella prima parte della poesia Commiato che chiude Il Porto Sepolto:
Gentile / Ettore Serra / poesia / è il mondo l'umanità / la propria vita / fioriti dalla parola / la limpida meraviglia / di un delirante fermento.
La poesia è dunque viaggio alle fonti della vita, alla ricerca della propria identità autentica, quale emerge dall'esperienza esistenziale del poeta. Per Ungaretti è subito imprescindibile il legame della poesia con la vita, e scelte lessicali, immagini, similitudini e analogie, ritmi, pause, silenzi, tutto converge a quest'unico fine, di significare la scarna verità essenziale. Solo a questo patto la poesia avrebbe continuato ad avere una possibilità di comunicazione e di significato.
Scrive il poeta introducendo il saggio Ragioni d'una poesia: «Ho, ed è naturale, riflettuto come qualsiasi scrittore o artista sui problemi dell'espressione poetica e dello stile, ma non vi ho riflettuto se non per le difficoltà che via via l'espressione mi opponeva esigendo di essere posta in grado di corrispondere integralmente alla mia vita di uomo».
L'Allegria di naufragi si impose subito all'attenzione della migliore critica militante per il suo carattere di novità assoluta, nei temi e nella scrittura poetica. Sono poesie intessute di rivelazioni istantanee, illuminazioni improvvise, frammenti balenanti, che via via si compongono nel profilo di un uomo che attraverso il dolore ritrova il senso profondo e segreto della condizione umana: un'opera rivoluzionaria che era destinata a innestare in modo originale nella nostra tradizione l'esperienza post-simbolista francese e a segnare una svolta decisiva nella poesia italiana moderna. Thomas Merton, che lesse in traduzione inglese una scelta di poesie dell'Allegria, ne rimase folgorato: «Realmente io penso che Ungaretti è sconvolgente. La sua intensità ti annienta».
Si pensi all'essenziale brevità di certi componimenti, a quegli attacchi indeterminati, abolite le relazioni di tempo, spazio, causa, alla rivoluzionaria metrica del verso breve che isola foneticamente le parole e ne prolunga la pronuncia enfatizzando le pause.
Leggiamo, ad esempio, Solitudine:
Ma le mie urla / feriscono / come fulmini / la campana fioca / del cielo // Sprofondano / impaurite (Santa Maria La Longa il 16 gennaio 1917).
Ungaretti fu subito consapevole dell'originalità e del valore della sua poesia di guerra, come attesta una lettera del '19, inviata all'amico Papini: «Sono il solo in Francia e in Italia ad averne data la poesia, con tanta essenzialità, tanta precisione nelle parole e nel ritmo; questo merito nessuno me lo leverà: so quel che valgo». E già nel Porto Sepolto, che è il centro genetico dell'Allegria, Ungaretti si sente ormai consacrato poeta e insieme soldato d'Italia, come afferma trionfalmente nella penultima poesia della raccolta, intitolata appunto Italia:
Sono un poeta / un grido unanime / sono un grumo di sogni // Sono un frutto / d'innumerevoli contrasti d'innesti / maturato in una serra // Ma il tuo popolo è portato/ dalla stessa terra / che mi porta / Italia // E in questa uniforme / di tuo soldato / mi riposo / come fosse la culla / di mio padre (Locvizza 11 ottobre 1916).
In un periodo in cui tutti si facevano vanto di non essere poeti, perché non avevano niente da dire, Ungaretti proclama senza perplessità la sua identità di poeta. E non era una stima mal riposta, se ancora oggi «l'Allegria, il libro di guerra, insieme alle Occasioni di Montale, resta "il" libro di poesia del Novecento italiano» (Andrea Cortellessa).
Poeta soldato o soldato poeta?
Annotava in proposito, molti anni dopo, Umberto Saba: «Non fu certamente un soldato che fece il poeta, ma un poeta che fece la guerra». Indubbiamente Ungaretti alla poesia si sentì misteriosamente destinato per sua natura fin dall'adolescenza e nella poesia "abitò" fino alla fine dei suoi anni. Ciò non toglie però che la guerra egli l'ha fatta veramente, come umile fante, soldato fra i soldati, gomito contro gomito, in quelle strette trincee scavate a mano nel terreno, o al riparo di muretti a secco e graticci, a poche centinaia di metri dalle trincee nemiche, sotto il tiro delle mitragliatrici, mescolandosi nel fango, nella neve, nella terra intrisa di sangue, condividendo con i suoi compagni la paura della morte e la speranza estrema di sopravvivere, giorno dopo giorno, fino alla fine: una guerra di trincea, di posizione, di estenuante logoramento, di irrilevanti avanzamenti e successivi arretramenti, di alternanti offensive e controffensive, di assalti che lasciavano sul terreno migliaia di morti, falciati dal fuoco nemico. Pensiamo alla poesia Soldati che chiude emblematicamente l'Allegria:
Si sta come / d'autunno / sugli alberi / le foglie (Bosco di Courton luglio 1918).
Questa poesia, esemplare nella sua drammatica concisione, è stata scritta quando il reggimento cui apparteneva il poeta si trovava in prima linea, sul fronte della Champagne, dove i tedeschi avevano scatenato la loro offensiva. I nostri soldati combattevano dentro un fitto bosco sotto il cannoneggiamento dell'esercito nemico e cadevano insieme alberi e uomini.
Di questa diretta e traumatica esperienza del vivere e del morire, sul fronte, egli fu testimone come soldato e come poeta, interpretando con la sua voce forte e dolente anche il silenzio e le grida dei suoi compagni. E fu una voce che il poeta accordò alla situazione del momento, vivendo intensamente nella sua coscienza di uomo di pena la sofferenza di tutti ed elaborando una forma poetica originale, essenziale, incisiva, tutta concentrata sull'evento che costituiva, per dirla con Montale, l'"occasione" del canto. Solo all'interno di questa esperienza di vita vissuta, circostanziata e sofferta, il poeta ha potuto scrivere la più grande e autentica e antiretorica poesia di guerra della nostra storia letteraria.
Pensiamo ad una delle più celebri poesie del Porto Sepolto, scritta alla vigilia della VI battaglia dell'Isonzo sul San Michele: Sono una creatura:
Come questa pietra / del S. Michele / così fredda / così dura / così prosciugata / così refrattaria / così totalmente / disanimata // Come questa pietra / è il mio pianto / che non si vede // La morte / si sconta / vivendo (Valloncello di Cima Quattro il 5 agosto 1916).
La quotidiana esposizione alla violenza della guerra finisce col prosciugare anche le lacrime, sottraendo al poeta anche l'umano conforto del pianto. E gli pare che il suo cuore si sia indurito e inaridito, reso insensibile come la pietra carsica del San Michele, che si erge dinanzi ai suoi occhi come un simbolo, a rappresentare fisicamente il suo stato d'animo: una specie di "correlativo oggettivo". Poi quei tre versi finali, sillabati, come una sentenza scolpita nella pietra: ma soprawivere alla morte di tante persone care che vita è? Il prezzo da pagare è altissimo, perché tocca vivere col cuore impietrito da un trauma immedicabile, tanto che si attende la morte come una liberazione. Eppure si resiste, nella pena.
Leggiamo un'altra delle più note poesie della prima raccolta: San Martino del Carso
Di queste case/ non è rimasto / che qualche / brandello di muro // Di tanti/ che mi corrispondevano / non è rimasto / neppure tanto // Ma nel cuore/ nessuna croce manca // È il mio cuore / il paese più straziato (Valloncello dell'Albero Isolato il 27 agosto 1916).
Quando il poeta scrisse questa poesia, erano passati pochi giorni dalla nostra conquista di San Martino e del San Michele, che era costata perdite devastanti, sia per i nemici sia per noi. Ma nessuna esultanza traspare qui per la vittoria, alla quale il poeta non accenna neppure. Dinanzi ai suoi occhi è solo lo spettacolo di un paese distrutto dalla guerra, le case ridotte a brandelli di muri. E il poeta pensa anche a quell'altra distruzione, ancora più dolorosa, che ha colpito i suoi compagni, morti combattendo in ore e ore di accanito corpo a corpo, falciati via dalle mitragliatrici: dei loro corpi nulla è rimasto, nemmeno un brandello. Ma il ricordo di tutti è inciso nel suo cuore, dove ognuno di loro ha la sua croce che lo contraddistingue, con nome e cognome, come in un immateriale cimitero diguerra: il suo cuore è il paese più straziato.
Fra le poesie che documentano più da vicino, con una violenza terrificante, il dramma di morte e di distruzione di quella guerra di trincea, la più straordinaria nella sua nuda tragicità è Veglia:
Un'intera nottata / buttato vicino / a un compagno / massacrato / con la sua bocca / digrignata / volta al plenilunio/ con la congestione/ delle sue mani/ penetrata / nel mio silenzio/ ho scritto lettere piene d'amore // Non sono mai stato / tanto / attaccato alla vita (Cima Quattro il 23 dicembre 1915).
Due immagini ravvicinate a rappresentare icasticamente la compresenza della vita e della morte in trincea: un compagno che giace morto con quel volto sfigurato, con la bocca digrignata volta alla luna piena, le mani rigonfie, e accanto il poeta che non può sottrarsi a quella visione atroce, nel silenzio allucinante della notte, sotto la luce impietosa della luna che continua il suo corso, indifferente al destino dell'uomo. E Unga-retti che istintivamente, per inconscia protesta o forse per assicurarsi di essere ancora vivo, scrive lettere piene d'amore. Un gesto che può sconcertare il lettore, ma il poeta, che richiede a se stesso programmaticamente una spietata sincerità, si limita a registrare la propria esperienza estrema: si tratta, come scriverà egli stessonel commento al testo, di «quell'esaltazione quasi selvaggia dello slancio vitale, dell'appetito di vivere che è moltiplicato dalla prossimità e dalla quotidiana frequentazione della morte. Viviamo nella contraddizione».
Sul piano formale colpisce l'assoluta semplicità del linguaggio. Sono tutte parole attinte alla lingua parlata, ma tratte non a caso dal campo semantico della violenza: la crudezza delle immagini rawicinate e l'asprezza dei suoni assumono un forte potere evocativo che richiama l'espressionismo: si pensi all'Urlo di Munch. Parole come "massacrato", "digrignata", "congestione", "penetrata" si susseguono rawicinate e scandite in un crescendo d'angoscia, e sembrano ricreare fisicamente, anche a livello fonico-timbrico, lo strazio di quella scena. Qui è evidente la tensione espressiva che anima la ricerca di Ungaretti, volta a rendere l'idea concreta della tragedia, della violenza disumana di una guerra, non astrattamente pensata, ma patita in trincea.
La realtà è presente non solo nella sua oggettiva violenza, ma anche nelle sensazioni incontrollate che suscita nell'animo del poeta che la vive, ivi compreso l'improvviso, istintivo, irrefrenabile riemergere dell'attaccamento alla vita.
Qui ci si rende ben conto come in Ungaretti la metrica diventi un elemento fondamentale del linguaggio poetico, strumento della sua audace rivoluzione contro gli istituti formali tradizionali. Per dare un risalto speciale alla parola poetica, non solo egli adottò da subito il verso libero, non solo eliminò la punteggiatura, ma disgregò il verso tradizionale in versicoli «scandalosamente brevi» (Contini), con un effetto di grande suggestione: la parola poetica si viene infatti a collocare "nuda", nel bianco tipografico della pagina, fra pause di silenzio, dilatando in questo isolamento irreale il potere evocativo delle immagini. Alla pronuncia sillabata della parola, quasi disarticolata nei suoni che la compongono, si aggiunge il ritmo franto dalle frequenti pause metriche e l'attenta orchestrazione dei suoni. Lo stesso Ungaretti si esibirà poi in letture pubbliche che fecero epoca, perché la sua dizione creava un'atmosfera magica, quasi oracolare, incantatoria.
Un singolare diario di guerra
L'Allegria si compone come un diario e tale lo definì più tardi lo stesso Ungaretti: «Questo vecchio libro è un diario», una successione di istantanee; di qui quel senso di frammentarietà, di immediatezza, di apparente elementarità, che trasmette al lettore la sensazione del vissuto.
Del resto in tutte le poesie della raccolta il poeta riporta sotto il titolo la data e l'indicazione del luogo dove furono scritte, in trincea o in una località delle retrovie. Ma anche quando egli era in licenza lontano dal teatro della guerra, sempre, più o meno esplicitamente, la guerra fa da sfondo ai suoi versi, perché per il poeta soldato anche il riposo era pur sempre un "riposo dalla guerra" e non ne cancellava dalla mente la presenza.
In ogni caso Ungaretti non ci descrive mai la guerra, non parla di assalti e ritirate, di vittorie e di sconfitte, di tattiche e strategie militari, né esprime giudizi ideologici o storici sugli eventi bellici. Egli evoca la guerra vissuta, giorno dopo giorno, come esperienza estrema, nella sua crudeltà, ai limiti dell'umano. Perché il Carso si era veramente trasformato in un paesaggio d'inferno.
Scriveva Ungaretti il 29 giugno 1916 nella poesia intitolata Peso: Ma ben sola e ben nuda / senza miraggio / porto la mia anima. All'alba di quello stesso giorno il nemico aveva lanciato dalle quattro cime del S. Michele gas venefici che spinti dal vento erano scesi sulle nostre prime linee, ed era stata una strage di quasi 3.000 soldati colti nel primo sonno, dopo aver trascorsa la notte vegliando.
Ma anche quelle poesie che non possono dirsi tematicamente poesie di guerra – e sono molte – hanno comunque la loro genesi profonda nel segreto della coscienza di chi si trova a vivere
quotidianamente a tu per tu con la morte, fra le macerie, la devastazione, la disumana violenza della guerra.
Quando Ungaretti scrisse Natale, il 26 dicembre del '16, si trovava in licenza a Napoli in casa di amici, eppure egli non riesce a scrollarsi dalle spalle il peso della sua stanchezza, non ha voglia di confondersi fra la folla in festa per le strade, chiede di essere lasciato solo, in un angolo dove il caldo buono del focolare lo conforta.
Non ho voglia / di tuffarmi / in un gomitolo / di strade // Ho tanta / stanchezza / sulle spalle// Lasciatemi così / come una / cosa / posata / in un / angolo / e dimenticata. // Qui / non si sente/ altro/ che il caldo buono// Sto/ con le quattro / capriole / di fumo / del focolare
Anche il ritmo, così vistosamente spezzato dalle pause metriche ravvicinate, sembra mimare il balbettio dolente di chi, sfinito, fa fatica anche a pronunciare quelle poche parole.
La guerra è per il poeta un'esperienza distruttiva, che lo induce spesso a interrogarsi, scavando dolorosamente dentro di sé, nel suo porto sepolto, per cercare se e quanto resti ancora dei suoi valori e sentimenti, per scoprire attraverso quali segni si manifesti ancora in lui, sia pure ridotto all'essenziale, il senso dell'umano.
È così che egli sente, quasi con sorpresa, in mezzo a tanta violenza ed orrore, affiorare in sé, come fragile segno di umanità persistente, un sentimento di fratellanza con i soldati, che nasce dalla comune sofferenza, dall'esperienza condivisa di un'estrema precarietà. È il sentimento che ispira una delle più note poesie dell'Allegria: Fratelli
Di che reggimento siete / fratelli? // Parola tremante / nella notte // Foglia appena nata // Nell'aria spasimante / involontaria rivolta / dell'uomo presente alla sua / fragilità // Fratelli (Mariano il 15 luglio 1916).
Il soldato poeta si rivolge qui a dei compagni che sopraggiungono nel buio della notte alla sua postazione e li chiama fratelli, unaparola che gli è affiorata sulle lab-
bra così, involontariamente, per un moto istintivo dell'animo, forse un'espressione di rivolta alla violenza degli spari che lacerano il silenzio della notte e seminano morte.
Il poeta, pur senza scrollarsi dalle spalle la sofferenza della guerra, quella sostanziale sofferenza senza scampo che riduce l'uomo allo stato nudo, continua il suo lavoro di scavo attraverso la sonda della poesia, alla scoperta di quella essenzialità dell'essere umano, sentimenti, istinti, desideri, coscienza di sé, che neppure la violenza distruttiva della guerra ha potuto cancellare. È così che egli prende coscienza della propria identità di uomo di pena che, come per miracolo, nonostante tutto, ancora conserva viva in sé l'umanissima capacità di illudersi, e non solo. Pensiamo a Pellegrinaggio:
In agguato/ in queste budella / di macerie / ore e ore / ho strascicato / la mia carcassa / usata dal fango / come una suola / o come un seme / di spinala // Ungaretti / uomo di pena / ti basta un'illusione / per farti coraggio // Un riflettore / di là / mette un mare / nella nebbia (Valloncello dell'Albero Isolato il 16 agosto 1916).
Basta un riflettore lontano perché ai suoi occhi socchiusi la nebbia si trasformi in un mare.
Nell'universale naufragio provocato dalla violenza della guerra, la residua vitalità, che affonda le sue radici nell'istinto di soprawivenza, fa scattare talora in chi sopravvive la «volontà di vivere nonostante tutto, stringendo i pugni, nonostante il tempo, nonostante la morte».
Sono queste le superstiti risorse morali del lupo di mare, in una delle più note poesie dell'Allegria, Allegria di naufragi, che darà il titolo alla raccolta del '19.
E subito riprende / il viaggio / come / dopo il naufragio / un superstite/ lupo di mare (Versa il 14 febbraio 1917).
Poche parole che esprimono il senso drammatico della vita, intesa come una lotta ininterrotta, dove chi non naufraga, ha bisogno del coraggio, della forza del lupo di mare per riprendere il faticoso cammino della vita: «Quell'esultanza - commenta il poeta - quell'allegria che, quale fonte, non avrà mai se non il sentimento della presenza della morte da scongiurare».
Ma la sua è pur sempre un'allegria che si innesta su naufragi, come evidenzia incisivamente l'ossimoro su cui si costruisce il titolo, che fa parte integrante della poesia.
Il contrappunto al diario di guerra
Ungaretti, allievo di Bergson, nelle sue riflessioni intorno all'essenza della natura umana, pone spesso l'accento sullo slancio vitale che si manifesta nelle situazioni più impensate. La guerra è proprio l'occasione traumatica in cui emerge improvviso l'attaccamento alla vita: l'ansia di felicità, la nostalgia della propria terra, i ricordi del passato, i miraggi di oasi di pace e di silenzio, il dialogo con la natura, il sempre rinascente desiderio d'amore. È questa una tematica che riaffiora spesso nell'Allegria, a fare da contrappunto al diario di guerra. Il poeta sente il bisogno, di tanto in tanto, di un po' di leggerezza, di posare altrove lo sguardo, fosse pure su un miraggio:
Ha bisogno di qualche ristoro / il mio buio cuore disperso [...] mio cuore vuole illuminarsi / come questa notte / almeno di zampilli di razzi (Perché? Carsia Giulia 1916).
Talora, mettendo a frutto l'invito di Mallarmé, egli si abbandona al "demone dell'analogia" e accosta le immagini con sorprendente rapidità e arditezza, orchestrando armoniosamente suoni e silenzi. Si tratta di istantanee illuminazioni che si traducono in enunciati spesso brevissimi, di eccezionale densità: «Balaustrata di brezza / per appoggiare stasera / la mia malinconia» (Stasera); «La vita si vuota / in diafana ascesa / di nuvole colme / trapunte di sole» (Inizio di sera); «Col mare / mi sono fatto / una bara / di freschezza» (Universo); «Vorrei imitare / questo paese / adagiato / nel suo camice / di neve» (Dormire); «Ho sognato/ stanotte / una / piana / striata / d'una / freschezza // In veli / varianti / d'azzurr'oro / alga» (Sogno); «Chiuso fra cose mortali / (Anche il cielo stellato finirà)/ Perché bramo Dio?» (Dannazione).
E in un momento di silenzio della guerra, gli capita di soffermarsi a contemplare con tenerezza il carnato del cielo che al tramonto sveglia oasi / al nomade d'amore (Tramonto) o di volgersi intorno, in una limpida mattina di gennaio, e di sussurrare, quasi trattenendo il respiro: M'illumino / d'immenso (Mattina).
Scrive Ungaretti nella Vita d'un uomo: «Ogni volta che provo una profonda emozione, la provo perché uno spettacolo della natura mi ha fatto conoscere, insieme a una novità oggettiva, la mia novità. La natura, il paesaggio, l'ambiente che mi circonda, hanno sempre una parte fondamentale nella mia poesia». Una riflessione che trova la sua piena conferma in una delle sue poesie di guerra più famose, I Fiumi (Cotici il 16 agosto 1916).
Un mattino, durante una pausa di riposo, il poeta si distendenelle acque dell'Isonzo, il fiume che segnava la linea di guerra, teatro di tante sanguinose battaglie. E nel silenzio del paesaggio che lo isola dalla tragica realtà della guerra, e lo colloca "fuori dalla storia " (Ossola), egli vive un momento di identificazione con la natura. E come compiendo un rito di purificazione, deposti sulla riva i suoi panni sudici di guerra, si immerge nel fiume che scorrendo lo levigava / come un suo sasso, poi come un beduino si china a ricevere il sole. In quel contatto fisico vivificante con l'acqua e col sole, si sente in perfetta sintonia con le cose, si scopre una docile fibra dell'universo, e quelle occulte mani che lo intridono gli regalano la rara felicità, perché, il mio supplizio / è quando / non mi credo / in armonia.
Come purificato da questa immersione nella natura, il poeta ripercorre le epoche della sua vita, identificandone simbolicamente le tappe con i suoi fiumi: il Serchio, al quale hanno attinto / duemil'anni forse / di gente mia campagnola / e mio padre e mia madre, il Nilo che mi ha visto / nascere e crescere / e ardere di inconsapevolezza / nelle estese pianure e la Senna che gli evoca la sua intensa e rivelatrice esperienza parigina: in quel suo torbido/ mi sono rimescolato/ e mi sono conosciuto // Questi sono i miei fiumi / contati nell'Isonzo: «le quattro fonti che in me mescolavano le loro acque, i quattro fiumi il cui moto dettò i canti che allora scrissi».
Il bisogno di mettersi in sintonia con i ritmi eterni della natura lo induce talora a soffermarsi con pieno abbandono a contemplare l'incanto dei cieli stellati, come in La notte bella:
Quale canto s'è levato stanotte / che intesse / di cristallina eco del cuore / le stelle // Quale festa sorgiva / di cuore a nozze // Sono stato / uno stagno di buio // Ora mordo/ come un bambino la mammella / lo spazio // Ora sono ubriaco / d'universo (Devetachi il 24 agosto 1916).
Lo stesso stato d'animo ritroviamo in A riposo:
Chi mi accompagnerà pei campi // Il sole si semina in diamanti / di gocciole d'acqua / sull'erba flessuosa // Resto docile / all'inclinazione / dell'universo sereno // Si dilatano le montagne / in sorsi d'ombra lilla / e vagano col cielo//.. (Versa il 27 aprile 1916).
E quando ci riesce ad annullarsi, egli avverte un tale senso di pienezza che ne prova rimorso, come in Godimento:
Mi sento la febbre / di questa / piena di luce // Accolgo questa / giornata come / il frutto che si addolcisce // Avrò / stanotte / un rimorso come un / latrato/ perso nel / deserto (Versa il 18 febbraio 1917).
In Sereno, la contemplazione del cielo suscita invece nel poeta una riflessione sulla brevità della vita contrapposta alla misteriosa immensità dell'universo cui egli guarda con religioso stupore.
Dopo tanta / nebbia / a una / a una / si svelano / le stelle // Respiro / il fresco / che mi lascia / il colore / del cielo // Mi riconosco / immagine / passeggera // Presa in un giro / immortale (Bosco di Courton luglio 1918).
Tutti temi, questi, che emergono con diverse variazioni in molte poesie dell'Allegria. Immersa nel silenzio e nella solitudine di questi paesaggi magici, l'anima del poeta respira e si apre a sensazioni, sentimenti, riflessioni che allontanano per un poco le immagini della guerra e i suoi rumori. Anche provare nostalgia è un segno che dal profondo attesta la vita vibrante dell'anima che conserva nel suo segreto le care immagini del passato e in momenti di grazia le sa restituire intatte: era la nozione del tempo come "durata" che il poeta aveva ben appreso dalle lezioni parigine di Bergson. Alessandria, annota, «ha il deserto, ha la notte, ha il nulla, ha i miraggi, la nudità immaginaria che innamora perdutamente» e il ricordo nostalgico della città bianca e luminosa, rapita dal sole, era rimasto sempre vivo nella memoria del poeta "girovago":
In nessuna / parte / di terra / mi posso / accasare // [...] E me ne stacco sempre / straniero // Nascendo / tornato da epoche troppo / vissute // Godere un solo / minuto di vita / iniziale // Cerco un paese innocente (Girovago, Campo di Mailly maggio 1918).
E in un momento di silenzio assoluto, gli riappare dinanzi agli occhi l'immagine della sua città d'Africa: erano passati quattro anni da quando dal bastimento l'aveva vista lentamente sparire:
Conosco una città / che ogni giorno s'empie di sole / e tutto è rapito in quel momento // Me ne sono andato una sera // Nel cuore durava il limio / delle cicale // Dal bastimento / verniciato di bianco / ho visto / la mia città sparire / lasciando/ un poco/ un abbraccio di lumi nell'aria torbida / sospesi (Silenzio, Mariano il 27 giugno 1916).
Leggiamo Fase, una poesia fatta di sogno, dove il poeta costruisce intorno a sé un'atmosfera di favola. Egli chiude gli occhi ed ha una visione fantastica: e lo sfondo non poteva essere che la sua Africa, il luogo del cuore.
Cammina cammina / ho ritrovato / il pozzo d'amore // Nell'occhio / di mill'una notte / ho riposato//Agli Agli abbandonati giardini/ ella approdava / come una colomba // Fra l'aria/ del meriggio/ ch'era uno svenimento/ le ho colto / arance e gelsumini (Mariano il 25 giugno 1916).
Il paesaggio del suo "paese d'Affrica" ritorna nei versi che chiudono Giugno, una poesia dove il poeta si abbandona ad una interminabile fantasia d'amore, carica di sensualità.
Quando / mi morirà / questa notte f...] // Ora / il sereno è chiuso / come / a quest'ora / nel mio paese dAffrica / i gelsumini // Ho perso il sonno // Oscillo / al canto d'una strada / come una lucciola // Mi morirà / questa notte? (Campolongo il 5 luglio 1917).
Queste non sembrerebbero proprio poesie scritte durante una pausa di guerra, al fronte. Ma il poeta neppure in questo contesto ha perso la sua innata capacità di sognare. Pensiamo a Fase d'oriente, un momento di dolce sospensione fra realtà e sogno.
Nel molle giro di un sorriso / ci sentiamo legare da un turbine / di germogli di desiderio // Ci vendemmia il sole // Chiudiamo gli occhi/ per vedere nuotare in un lago / infinite promesse// Ci rinveniamo a marcare la terra / con questo corpo / che ora troppo ci pesa (Versa il 27 aprile 1916).
Qui, però, al sogno segue il risveglio e il poeta si ritrova col suo corpo appesantito dall'esperienza traumatica della guerra.
In Vanità, il bisogno di un istantaneo abbandono alla contemplazione del paesaggio non cancella la realtà, ma lascia presente sullo sfondo l'immagine inquietante delle macerie della guerra.
D'improvviso / è alto / sulle macerie / il limpido / stupore / dell'immensità // E l'uomo / curvato/ sull'acqua / sorpresa/ dal sole / si rinviene / un'ombra // Cullata e / piano / franta (Vallone il 19 agosto 1917).
Due realtà che si guardano, contrapponendosi drammaticamente, una, materiale, scavata dolorosamente nella storia dell'uomo, l'altra immateriale proiettata nell'infinito di un cielo limpido, cui si volge la creatura umana, consapevole sì della propria fragilità, ma capace ancora di vivere in sé lo stupore dell'immensità.
(Notiziario della Banca Popolare di Sondrio, 128/2015, pp. 112-119)