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    Montale

    e il canone poetico

    del Novecento

    Romano Luperini 
     

    Proviamo a considerare la poesia di Montale da una certa distanza, come un paesaggio visto da lontano o come una catena montagnosa descritta da una pianura.

    Ossi di seppia si colloca su un altipiano accidentato, a mezza costa, tra picchi e vallate, cime e bassure. È un libro ricco e vario, scosceso e contraddittorio, ora roccioso, ora verde e frondoso, composito, frastagliato. Si regge su un baricentro precario, sottoposto a spinte contrastanti, crepuscolari, vociane, dannunziane, antidannunziane, prosastiche e cassicistiche. Può dare ragione di tale polivalenza la stessa data in cui il libro appare, il 1925, in bilico fra due opposti momenti: da un lato le avanguardie sono già al tramonto, dall’altro il ritorno all’ordine e al classicismo sta trionfando in ogni campo, non solo in quello letterario. Lo stesso simbolismo degli Ossi è contraddittorio. Certamente nel libro la vocazione a un simbolismo di marca francese – ma con forti componenti pascoliane e soprattutto dannunziane - è forte, e coincide con un’idea alta della poesia come privilegio e nobiltà, come dono per i «pochi felici», per gli «iniziati». Sono termini di Diario genovese, in cui si legge anche: «Il Simbolismo ha avuto il merito d’innalzare l’arte, ponendola al di sopra del contatto delle anime mediocri» (E. Montale,Quaderno genovese, ora in Il secondo mestiere. Arte, musica, società, a cura di G. Zampa, Mondadori, Milano 1996, p. 1326). E tuttavia questa vocazione appare incapace di realizzarsi pienamente, ed è costretta a declinarsi – se si eccettua Riviere e qualche altro esempio minore – su un versante prevalentemente negativo. E cuore è uno strumento troppo «scordato» e le correspondances appaiono impos­sibili o addirittura – Mediterraneo insegna – da fuggirsi perché pericolose per l’integrità morale del soggetto. In Fine dell’infanzia esse sono giudicate adatte alla vita infantile: vanno lasciate dietro alle spalle insieme con, il panismo dannunziano, abbando­nate con gesto doloroso sì, ma anche virilmente sostenuto.

    Nei due libri successivi, Le occasioni e La bufera, la linea della poesia montaliana s’impenna: la scelta monolinguistica e, soprattutto, monostilistica diventa chiara (particolarmente nella prima raccolta), la metrica si fa classica, il tono è più eletto e rarefatto. Indubbiamente i due libri contribuiscono a modificare il canone del secolo: insieme con le opere di Ungaretti, di Cardarelli e degli ermetici lo riassesta su un profilo più alto, correggendo in modo determinante l’impronta prosastica lasciata dalle avanguardie primonovecentesche. Nello stesso tempo però la linea simbolista presente negli Ossi e nei primi testi delle Occasioni cede, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni Trenta, a un allegorismo umanistico e cristiano e poi, nella Bufera, anche biologico-vitalistico. Il fatto è che la scommessa dell’incarnazione – la fusione del valore e del terreno – appare ben presto perduta, e la loro scissione fa crollare i fondamenti del sublime e della rivelazione epifanica e simbolica, preparando il loro tonfo nella palta e nello sterco. La tendenza al classicismo predomina largamente, ma è un classicismo moderno o “modernista”, che a poco a poco si fa sempre più contraddittorio e paradossale. Le ultime poesie della Bufera e i racconti di Farfalla di Dinard sono già indizio di una crisi. E classicismo da un lato si tende, si contamina, si screpola, dall’altro finisce per diventare decenza quotidiana, difesa psicologica, ma anche sociale, di uno stile di vita.

    Con Satura il grafico tende decisamente alla discesa, l’abbassamento è costante, la direzione prosastica e desublimante prevalente. Nel linguaggio, nel tono, nella metrica si riprende la linea prosastica già affiorante negli Ossi. E nuovo libro riflette e provoca un nuovo assestamento del canone, in coerenza con i risultati dei «novissimi» e delle nuove avanguardie. L’allegorismo persiste, ma non è più propositivo, bensì apocalittico e giudicante: non canta il valore, ma prende atto del disvalore dilagante e attesta ormai solo un coraggio di vivere ridotto ad atto privato. Luci e barbagli del vecchio splendore s’illuminano solo a intermittenza, sempre più affievoliti.

    Nei libri successivi il passaggio dalla prosa al diario disegna una linea orinai piatta e orizzontale, con bevi increspature, che vanno diminuendo di altezza e di frequenza verso la fine. L’allegoria ritorce la propria furia distruttiva su sé stessa: si passa dall’allegorismo pieno delle Occasionie della Bufera e da quello giudicante di Satura alle macerie e ai relitti delle allegorie vuote che costellano i Diari e Altri versi. E in effetti, in quest’ultima raccolta, un testo dal titolo ormai inevitabile, L’allegoria, dichiara: «Il senso del costrutto non è chiaro / neppure per coloro che riguarda». La poesia dell’assenza di significato è, per l’appunto, l’allegoria vuota. Anche l’allegorismo apocalittico di Satura è ormai abbandonato e superato: «Alcuni suggeriscono marchingegni / che facciano crollare il tutto su se stesso. / Ma tu non credi a questo: la gioia del farnetico / è affare d’altri».

    Montale e il simbolismo

    Se il diagramma ora tracciato è accettabile, il primo problema che esso pone è il rapporto di Montale con la grande tradizione del simbolismo, con la linea orfica, prima romantica e poi decadente, che da Novalis giunge a Mallarmé. Indubbiamente Montale muove dal simbolismo francese, appreso attraverso l’antologia di Van Bever e Léautaud Poètes d’aujourd’hui che aveva letto negli anni della formazione giovanile. Ma è un fatto non meno indubitabile che subito la corregge con Laforgue, con i crepuscolari, con Govoni e con Palazzeschi. Analogamente nelle Occasioni è evidente il riferimento all’alta tradizione metafisica della poesia francese, tedesca e soprattutto inglese, e tuttavia la tendenza progressivamente prevalente è a declinarla in senso allegorico, assimilando la lezione di Eliot e di Dante piuttosto che quella di Mallarmé, e puntando non già su una linea di poesia pura e analogica ma su quella di una poesia di pensiero. Lo stesso classicismo delle Occasioni e di parte della Bufera è niente affatto decorativo e appare anzi consapevolmente moderno: un testo arduo come il mottetto 5 (Addii, fischi nel buio...), pure così innalzato dalla sintassi e dal rigore metrico, è fitto di termini prosastici e quotidiani e si chiude con una parola brasiliana divenuta d’uso popolare.

    Si può azzardare allora una prima ipotesi: il significato storico dell’esperienza poetica di Montale non sta nella sua continuità rispetto alla grande tradizione del simbolismo, ma nel fatto che egli dapprima la pone in discussione dall’interno e poi si colloca decisamente al di là di essa. Anche se considerassimo solo la funzione storica della poesia montaliana relativa al trentennio che va dall’uscita degli Ossi di seppia a quella. della Bufera, dovremmo arrivare alla conclusione, di non piccola portata, che essa ha raggiunto il risultato di creare una linea di lirica alta e tuttavia estranea all’orfismo simbolista (Cfr. G. Simonetti, Dopo Montale. Le «Occasioni» e la poesia italiana del Novecento, Maria Pacini Fazi editore, Lucca 2002, pp. 7-113). Italia, rientrare nella grande tradizione lirica europea (è stato questo, in fondo, l’obiettivo della ricerca poetica montaliana fra anni Venti e Cinquanta) non ha comportato aperture di credito nei confronti del simbolismo romantico-decadente. Ne sono derivate, per la storia della nostra lirica, conseguenze non di poco conto. Infatti, in quegli anni, la centralità dell’esperienza montaliana nella nostra poesia e persino nella nostra cultura ha contribuito in modo decisivo a determinare i caratteri della poesia lirica italiana del nostro secolo, differenziandola da quella tedesca e soprattutto da quella francese (altra storia ha avuto quella inglese, più vicina alla nostra; e anche qui ha giocato la linea Eliot-Montale). Al posto di Char o di Jabès abbiamo avuto il Sereni di Gli strumenti umani o il Luzi di Nel magma o lo Zanzotto di La Beltà, o, per altra via, l’allegorismo civile di Fortini. Occorrerà attendere gli anni Settanta e Ottanta per trovare una generazione di poeti italiani – quelli della cosiddetta «parola innamorata» – che abbia cercato di ricollegarsi – con scarsi risultati, peraltro – al simbolismo francese e tedesco scavalcando mezzo secolo di storia della lirica italiana e recuperando, al di là di esso, la poetica dell’ermetismo e, ancora più indietro, D’Annunzio, il Campana «orfico» e alcuni aspetti del primissimo Montale (quello di Riviere).

    E oggi?

    E oggi? Si può parlare ancora di una centralità di Montale? La domanda, fra gli anni Cinquanta e Sessanta, sarebbe apparsa persino retorica. Montale era infatti considerato il punto d’arrivo di una linea simbolista o ermetica o metafisica, senza che spesso si distinguesse bene fra queste diverse tendenze.

    Cerchiamo di rispondere muovendo in prima istanza da una constatazione persino ovvia. La centralità di Montale è intanto quella di un autore che non appare mai bloccato su un’unica linea di sviluppo e si presenta invece sempre disponibile a infinite correzioni, ripensamenti, ritorni all’indietro, contaminazioni di esperienze diverse. Senza essere mai eclettico, e anzi mantenendo sempre un timbro suo inconfondibile, Montale è in qualche modo compartecipe di tutte le tendenze fondamentali del nostro secolo: sembra avvicinarsi alla grande tradizione orfica del simbolismo e subito la controbilancia in direzione prosastica ed espressionista; condivide la cifra ardua e chiusa della poesia ermetica, ma respinge sempre la poesia pura e analogica; approda a un classicismo che intende tutelare la nobiltà e la decenza della forma e immediatamente lo interpreta in senso “modernista”; opta per un realismo basso e comico che presenta diversi punti di contatto con la ricerca delle neoavanguardie degli anni Sessanta e nello stesso tempo lo orienta verso esiti – niente affatto eversivi bensì ironicamente lucidi e citazionisti – che saranno propri delle poetiche postmoderniste.

    Questa duttilità va messa sul conto della grande capacità di Montale di confrontarsi apertamente con la storia del suo tempo, riflettendola nella propria poesia e talora persino anticipandola. Per i suoi contemporanei essa ha costituito, soprattutto a partire da un certo momento, un problema critico aperto e persino spinoso. Dopo l’uscita di Satura, infatti, il profilo dell’ autore, e in qualche misura anche la sua stessa identità poetica, sono apparsi alterati o modificati. Le diverse, e per certi versi opposte, stroncature di Fortini e di Pasolini nascono anche dallo sconcerto di lettori che vedono deluse le loro aspettative e che non riconoscono il loro autore. Ha contribuito a tale cambiamento d’immagine anche l’evoluzione dei cosiddetti “eredi” di Montale – cioè Sereni, Zanzotto, Luzi – che vivono tutt’e tre, nella loro produzione degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, il disfacimento del simbolismo, avvicinandosi a posizioni più realistiche e più sperimentali. Chi aveva chiuso Montale in una linea precisa e precostituita, ignorando le tensioni interne della sua ricerca e i contrastanti segnali provenienti non solo dagliOssi ma anche da certe zone delle Occasioni e della Bufera, ha visto porre in dubbio le proprie certezze. Così, negli anni in cui la lunga esperienza poetica di Montale attraverso il secolo (dal 1920 al 1980) volgeva al termine, è diventato sempre più difficile collocarla in una formula univoca. Contemporaneamente, anche il modo di concepire il suo posto e il suo ruolo nello sviluppo della poesia del nostro secolo si andava progressivamente spostando e correggendo.

    Con l’uscita degli ultimi libri non solo si modificava l’immagine di Montale, ma con essa andava modificandosi l’idea stessa di un secolo di poesia: cambiava, insomma, il canone del Novecento. Ne abbiamo una conferma dalle antologie di poesia, che fra gli anni Cinquanta e Ottanta hanno avuto la funzione di determinare il canone poetico del Novecento. Prima di Satura le interpretazioni che esse offrivano, per quanto di autori diversi per impostazione teorica e talora per poetica, erano tuttavia convergenti nella classificazione storiografica della poesia montaliana. Fra gli anni Quaranta e Sessanta, dalle antologie di Anceschi (1943) e di Anceschi-Antonielli (1953) a quelle di Contini (1968) e di Sanguineti (1969), si è continuato a indicare, come asse del canone novecentesco, la linea dei «lirici nuovi» ed ermetici culminante in Ungaretti e in Montale. E va da sé che Anceschi o Contini da un lato e Sanguineti dall’altro delineavano bilanci e progetti diversi del Novecento: i primi due avevano in mente un modello di evoluzione sostanzialmente unitario, ruotante intorno al simbolismo e al postsimbolismo, e cioè una linea che, muovendo da Campana interpretato in chiave prevalentemente orfica o da un primo Ungaretti letto già come simbolista e “poeta puro” giungeva, attraverso Montale, a Quasimodo, Luzi, Sereni, Zanzotto; invece Sanguineti ipostatizzava uno schema binario che poneva sì al centro Ungaretti, Montale e gli ermetici, ma per contrapporre loro il filone alternativo dell’avanguardia, che da Lucini, Gozzano e Campana, questa volta interpretato in senso espressionista, sarebbe giunto sino ai «novissimi».

    In conclusione, dalle antologie, pure ben diverse fra loro, uscite prima di Satura, risulta un quadro della poesia novecentesca fondato sul predominio di un canone unitario in cui rientrerebbero sia Saba, sia Ungaretti e Montale. Ne risultavano così appiattite le differenze: tanto nell’antologia di Contini quanto in quella di Sanguineti non solo veniva sacrificato Saba (che non appartiene al novero dei poeti simbolisti e postsimbolisti e neppure aderisce alla linea delle avanguardie), ma lo stesso Montale veniva schiacciato su Ungaretti e imprigionato in una collocazione che al lettore d’oggi appare sicuramente troppo stretta. Non sembra privo di significato, per esempio, per restare nell’ambito dell’esplicito conflitto delle poetiche, che Montale non abbia mai nascosto le sue simpatie per Saba, o, in direzione diversa, per alcuni poeti sperimentali (da Govoni a Gozzano ai vociani), e la sua polemica lontananza, invece, dal postsimbolismo ungarettiano. Anzi, le obiezioni montaliane a una poesia che punti all’assoluto e che, in nome dell’essenza, dimentichi l’esistenza mostrano il carattere inconciliabile della sua contrapposizione a Ungaretti. L’opposizione Ungaretti-Montale indica dunque un’alternativa che, dagli anni Trenta agli anni Cinquanta, divide radicalmente la lirica “alta” della tradizione novecentesca, suggerendo due esiti ben diversi alla poesia successiva: non sarà certo un caso che i già ricordati poeti della «parola innamorata» optino decisamente per il primo contro il secondo.

    Alla fine degli anni Settanta, dopo Satura e i Diari, s’imponeva dunque l’esigenza di ri-definire un modello di sviluppo diverso della lirica italiana del Novecento, più coerente con l’evoluzione della poesia di Montale e con la sua stessa complessità. In tale prospettiva è tornato utile il recupero di un paradigma interpretativo in parte già operante in Passione e ideologia (1960) di Pasolini. Già da questo libro appariva infatti un panorama della poesia italiana del nostro secolo più frastagliato e complesso: anche se il «novecentismo» (e cioè la linea del simbolismo e del postsimbolismo, in cui ancora Pasolini inseriva Montale) continuava a far la parte del leone, vi emergevano altri filoni, come quello sabiano, più figurativo e impressionista (che da Saba si prolunga sino a Bertolucci, Penna, Caproni), o quello dialettale che, in alcuni suoi esponenti di punta come Tessa (ma potremmo aggiungere anche i nomi di Noventa o di Loi), non è certo riconducibile alla linea lirica novecentista. E infatti, alla fine degli anni Settanta, chi ha ripreso, esplicitamente o implicitamente, le indicazioni pasoliniane, come il Mengaldo di Poeti italiani del Novecento (1978) o il Fortini di La poesia del Novecento (1977), ha finito con il proporre giustamente un Novecento poetico né unitario né binario, ma variegato e frastagliato, policentrico e multidirezionale, liquidando definitivamente il modello storiografico fondato sulla centralità del postsimbolismo.

    Montale e il Novecento poetico

    Alla fine del secolo e del millennio l’opera di Montale sta lì a documentare – ma anche a legittimare con l’autorità che ormai le è riconosciuta – una varietà di esiti e di soluzioni che non ha eguali nel Novecento e che costituisce la migliore garanzia della ricchezza e della libertà della nostra tradizione lirica. Nello stesso tempo, però, non si deve scambiare questa sua varietà con un’apertura indiscriminata e onnicomprensiva. Proprio la diversificazione di esiti che offre, unita peraltro a un’eccezionale coerenza di svolgimento che esclude occasionali omaggi alle mode di turno, costituisce una salutare rottura con Montale – il più “dantista” dei nostri poeti del Novecento – che viene finalmente liquidato, da parte di una tradizione lirica “alta”, il secolare modello chiuso e compatto del petrarchismo che pure giunge, attraverso Ungaretti, sin nel cuore del secolo, e viene invece rilanciato il modello aperto del percorso dantesco – dalle varianti stilnoviste a quelle comiche, dall’allegorismo cristiano a quello apocalittico -. Un modello in cui il significato non preesiste all’atto poetico né è insito in esso – come nell’ambizione orfica del simbolismo -, ma va cercato con un percorso imprevedibile, vario e accidentato e tuttavia moralmente e intellettualmente sempre rigoroso e coerente. Un modello in cui l’esistenza non è mai dimenticata in nome dell’essenza e in cui l’orizzonte del significato – anche nelle poesie più difficili – resta comunque storico.

    Così la ricerca di Montale, lungi dal costituire il momento culminante di un’unica vittoriosa tradizione, rappresenta oggi l’aperto crocevia da cui non possono non transitare, incontrandosi e scontrandosi, i filoni più avanzati della ricerca poetica del nostro secolo. Se talora i suoi risultati più alti sembrano ancora prigionieri di un’ideologia e di una pratica poetica del “privilegio” estetico – e ciò può forse render conto della zona d’ombra o parziale eclisse in cui la sua opera pare entrata nell’ultimo quindicennio – e se, a differenza di Saba e di Ungaretti, Montale sembra oggi senza più eredi, almeno nella generazione nata dopo la seconda guerra mondiale, è anche vero che Ossi di seppia, da un lato, e buona parte della Bufera e di Satura, dall’altro, affrontano con grande determinazione e con spregiudicata apertura sperimentale i problemi che la crisi di quel “privilegio” ha posto. D’altronde le ferite e gli sconvolgimenti che l’esperienza montaliana – così centrale e tuttavia così poco «tipica» (Mengaldo) – ha provocato nel canone poetico del Novecento stanno appena ora cicatrizzandosi e riassestandosi. 

    Se ormai, alla fine del secolo, non sembra più proponibile né lo schema unitario di Contini né quello binario di Sanguineti e al nuovo millennio la poesia italiana si presenta con una varietà di modelli e di proposte che rispecchia la sua indubbia ricchezza, la figura di Montale non appare destinata a perdere, a causa di questo terremoto ermeneutico, la propria centralità, ma ad acquistarne un’altra, forse più duratura. Rompendo con i modelli chiusi, rilanciando la lezione allegorica di Dante e ponendo con forza la questione del significato – del suo bisogno, della sua ricerca, infine della sua mancanza -, Montale indica una strada nell’inferno meccanizzato, nel nuovo Medio Evo postmoderno in cui andiamo addentrandoci: più che alla fine di un percorso, sembra al suo inizio. 

     


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