Universo e dintorni
Fernando Savater
All'uomo non basta far parte della realtà: ha bisogno anche di sapere che si trova in un mondo, per poi domandarsi subito come sarà questo mondo di cui non è un semplice abitante, ma parte integrante. Perché in un certo senso questo mondo mi appartiene (è il mio mondo), ma anch'io gli appartengo, l'intera specie umana gli appartiene ed è nata da esso come ogni altro dei suoi componenti. Che cos'è un «mondo»? Un ambiente dotato di senso, un contesto nel quale tutto mantiene una certa relazione, la cui evidenza può essere spiegata. Per incominciare, l'idea del «mondo» ha vari livelli, dal più aderente e apparentemente banale, fino al più scomodo e cosmico che possiamo concepire. Al gradino più basso si trova ciò che siam soliti chiamare colloquialmente il «mio mondo» e perfino il «mio piccolo mondo», vale a dire l'ambito della famiglia, il gruppo di amici, il luogo dove si lavora e quelli dove andiamo a divertirci, gli angoli che ci sono più familiari o più cari, il nostro focolare. Un gradino dopo c'è il mio ambiente sociale e culturale, quello degli individui che sono «come me» anche se li conosco appena o non li conosco affatto. Continuo a salire e trovo il mio paese, la comunità nazionale cui appartengo, l'area internazionale in cui si integra la mia comunità, e perfino l'umanità di cui condivido la condizione simbolica, il mondo degli umani. Poi esco dalla sfera del mondo affettivo, sociologico, specificamente umanista, e passo alla dimensione planetaria: il «mio mondo» è questa terra in cui nasciamo e moriamo, il pianeta blu di mari e foreste in cui conviviamo con tanti altri esseri viventi o inanimati, ciò che il buon E.T. avrebbe chiamato in modo commovente «casa!», nel caso fosse stato «T.» e non «E.T.». Più in là del nostro mondo ci sono il sistema solare, già parzialmente visitato da esploratori e strumenti umani, e la Via Lattea, che comprende il nostro Sole. E dopo, il mondo continua a dilatarsi in qualcosa di gigantesco, remoto, sconosciuto, si carica di nuove stelle, galassie, nebulose, buchi neri, materia e antimateria... finché cessa di essere mondo e diventa universo. Il luogo dove sono tutti i luoghi, l'ambito che comprende tutto ciò che esiste e sulla maggior parte del quale non sappiamo nulla di certo.
Non è vertiginosa questa successione di «mondi», ciascuno dentro un altro più grande – come le matriosche e le scatole cinesi – dalla stanza dove mi trovo, o dal bar dove faccio colazione, fino ai confini dello spazio siderale, il cui presunto silenzio spaventava Pascal, come confessò questo tormentato pensatore del Seicento? Dal mio «piccolo mondo» fino all'universo di tutti e di tutto! E l'aspetto più notevole di tale successione di mondi, sia detto per inciso, è che i più angusti e limitati sono comunque quelli che esistenzialmente mi stanno più a cuore. Mi preoccupa molto di più il tubo del gas di casa mia, o il terremoto che scuote il mio paese, delle colossali esplosioni di stelle la cui luce impiegherà secoli ad arrivare fino agli osservatori della Terra... se mai arriverà! Tuttavia, malgrado questa prospettiva irrimediabilmente provinciale, sono sempre cosciente anche del fatto che faccio parte dell'Universo con la «u» maiuscola. E non meno irrimediabilmente mi domando cose su di esso: di che cosa è fatto? È finito o infinito? Come è incominciato? Finirà, un giorno? Era previsto che noi umani, e dunque anch'io, comparissimo a un certo punto su una scena così grandiosa?
È indubbio che i primi a porsi gli interrogativi a proposito dell'universo furono i filosofi dell'antichità (che ancora non sapevano neppure in che cosa consistesse essere «filosofi»!) . E assai probabile che non abbiano incominciato a filosofare interrogandosi sul proprio «io», come si sta facendo in questo libretto colpevolmente moderno, per lo stesso motivo per il quale i bambini incominciano domandando quanta acqua c'è nel mare o perché le stelle non cadono, e mai con il quesito «chi sono io?». La stupita curiosità, che secondo Aristotele è il primo stimolo alla filosofia, è risvegliata prima dal mondo che non dalla domanda su che diavolo c'entri io. In passato, le spiegazioni sull'universo venivano sempre date sotto forma di miti: gli astri erano dèi, e così la Terra e i vulcani, mentre mari e animali erano sempre originati da esseri favolosi. Il tuono dei cieli era un gong suonato da un gigante invisibile... Non crediate che queste risposte in forma di leggenda a domande concrete rivelino soltanto un riprovevole atteggiamento superstizioso, incapace di raziocinio. Le divinità e gli avi mitici rappresentano anche le idee, nel senso in cui le definisce Spinoza nei suoi Pensieri metafisici: «Le idee non sono altro che i racconti o le storie della natura nella mente». E tali idee mitiche sono a volte profonde, molto suggestive e indubbiamente capaci di aiutarci a riflettere meglio su ciò che il mondo significa mentalmente per noi. I primi filosofi sostituirono queste idee metafisiche con altre forme di narrazione mentale della natura. Le loro idee furono meno antropomorfiche e per spiegare la realtà ricorsero a elementi impersonali. Quando Talete di Mileto volle dire che la realtà universale è fondamentalmente umida e fluida non parlò di Oceano o di Teti – le divinità acquatiche –, ma disse che «tutto è fatto di acqua». Un'affermazione letteralmente «demistificatrice» e con conseguenze rivoluzionarie. Perché?
Naturalmente, non perché sia molto più veritiera delle storie raccontate dai miti; se vogliamo essere pignoli, dire che il mondo sia fatto d'acqua è falso come dire che è stato generato da Caos, figlio ribelle di Cronos. Inoltre, già nel secondo capitolo abbiamo parlato dell'esistenza di diversi campi di verità, ognuno dei quali è accettabile nei limiti del suo ambito. Ma, nonostante tutto, le idee filosofiche hanno una serie di vantaggi su quelle mitiche. Tanto per incominciare, non si limitano semplicemente a tramandare una tradizione, ma propongono un punto di vista personale sulla realtà: diciamo che le idee filosofiche hanno una firma, sia quella di Talete, di Eraclito o di Anassimandro. In secondo luogo, ricorrono normalmente a elementi materiali non antropomorfici e a forme intellettuali non personalizzate (l'Intelligenza cosmica proposta da Anassagora non è condita di amori e di altre avventure come quelli che si raccontano di Afrodite e di Zeus). Si noti il paradosso: i miti sono anonimi, ma raccontano il mondo attraverso nomi propri e personaggi, mentre le idee filosofiche, che sono legate alla personalità di coloro che le sostituirono alla mitologia, sono impersonali (l'acqua, il fuoco, l'apeiron, gli atomi...) ; Diogene Laerzio scrisse le Vite dei filosofi, ma di coloro che inventarono i miti non si sa assolutamente niente. Da ciò deriva, in terzo luogo, la maggior oggettività o il maggior realismo della filosofia, se per tale intendiamo il fatto di accettare l'idea secondo cui il mondo non è costituito da esseri che ci assomigliano perlomeno nelle passioni, nelle lotte e nelle occupazioni (anche se sono immortali e sovrumani), bensì da principi estranei alla soggettività e che hanno ben poco a che fare con le nostre preoccupazioni tipicamente umane. In quarto luogo, le proposte filosofiche operano sempre una distinzione fondamentale fra le apparenze che ci si offrono attraverso i sensi e la realtà che supporta tali apparenze e che può essere scoperta solo attraverso l'uso della ragione o «ascoltando logos», come disse il filosofo presocratico Eraclito.
Infine, e innanzitutto, i miti devono essere accettati o rifiutati collettivamente, ma non ammettono di essere argomentati e discussi da coloro che li accettano. A un mito non si possono muovere obiezioni, bisogna dargli credito senza riserve. Per questo, al di fuori della comunità culturale in cui nascono, sono arbitrari, se non assurdi. Il greco che parla della dea Gaia e il babilonese che racconta la storia di Tiamat hanno poco da discutere al riguardo. Il massimo che si può chiedere loro è di ammettere che il mondo greco deriva da Gaia, mentre quello babilonese viene da Tiamat. Dopodiché, pace. Invece, le idee filosofiche nascono dalla e per la controversia. La maggior parte dei greci accettava l'idea di un universo finito, ma Archita di Taranto, un contemporaneo di Platone, insinuò il seguente dubbio: «Se mi trovassi all'estremo limite del cielo, potrei allungare una mano o un bastone verso l'esterno? Sarebbe certamente assurdo che non potessi farlo, ma se ci riesco, ciò vuol dire che fuori c'è ancora qualcosa, corpo o luogo che sia». Dunque, il finito deve essere meno finito di quanto sembra... o no? Sarebbe ridicolo dubitare di un mito in questo modo (come non sembra opportuno rimproverare Cervantes delle assurdità commesse da Don Chisciotte), ma l'obiezione è assolutamente ragionevole quando si tratta di un'idea filosofica o scientifica, che è lì per essere discussa e non per essere riverita e accettata senza riserve.
E fa lo stesso che i soggetti coinvolti appartengano a comunità culturali diverse, perché «ragionare filosoficamente» consiste nel tentare di tendere ponti dialettici fra coloro che la pensano in un modo e quelli che la pensano in un altro... ma, comunque, pensano. Bertrand Russell racconta il caso di un guru indiano che tenne una conferenza sull'universo, a Oxford. Sosteneva che il mondo è appoggiato su un grande elefante che, a sua volta, poggia le zampe su un'enorme tartaruga. Una signora del pubblico gli domandò come si sostenesse la tartaruga e il saggio spiegò che si appoggiava su un ragno gigante. La signora insistette domandando dove si appoggiasse il ragno e il guru – un po' infastidito – affermò che si manteneva in equilibrio su una roccia colossale. Naturalmente la signora tornò alla carica, domandando quale fosse la base d'appoggio della pietra e il saggio esasperato rispose gridando: «Signora, le assicuro che ci sono rocce sotto di noi!». Il problema non era che il guru fosse un indiano e la signora curiosona un'inglese, bensì che l'uno parlava il linguaggio del mito (in cui le cose vengono «narrate», ma non «pensate» in base ad argomenti), mentre l'altra nutriva un'autentica e impertinente curiosità filosofica; immagino che entrambi dovettero abbandonare la conferenza molto irritati...
I filosofi e gli scienziati, nel corso dei secoli, si sono interrogati sull'universo (cioè, sull'insieme che costituisce la realtà, da quella che ci è più vicina e familiare fino a quella più lontana e ignota) ponendosi tutte le domande che merita un tema di questa portata. Alcune di esse, concrete, che riguardano, per esempio, la composizione chimica dell'acqua o l'orbita della Terra intorno al Sole, hanno ricevuto risposte abbastanza valide, ma altre, di natura più generica, continuano a rimanere in sospeso, checché ne dicano certi scienziati fuorviati quanto ottimisti. Mi riferisco alle domande cosmologiche, quelle che tentano di sviscerare il come e il perché dell'universo nel suo insieme. Correndo il rischio di semplificare, credo che siano principalmente tre, anche se ciascuna di esse può dar luogo a molte altre:
a) Che cos'è l'universo?
b) Possiede, l'universo, un ordine e una progettualità?
c) Qual è l'origine dell'universo?
Non ho certo bisogno di dire che non ho risposte definitive (e neppure provvisorie!) per nessuna di esse, ma voglio azzardare un'analisi di queste domande.
Che cos'è l'universo? L'impegno di rispondere a questa domanda dovrebbe essere quello di chiarire, innanzitutto, che cosa intendiamo per «universo». Diciamo che le accezioni del termine sono due, una heavy e l'altra piuttosto light. Secondo la prima, l'universo è una totalità nettamente definita e distinta dalla combinazione delle altre sue componenti, su cui è necessario porsi interrogativi specifici. Per la seconda, non è altro che il nome che diamo all'insieme o alla raccolta indeterminata di tutto ciò che esiste, una specie di abbreviazione semantica per l'accumulo innumerevole e infinito di cose grandi e piccole, priva di qualunque entità specifica sulla quale teorizzare separatamente. Il primo concetto di universo sembra essere quello più vicino alla nostra in-tuizione: se esistono parti e componenti, come non può esistere un tutto definito in cui esse trovano una loro collocazione, in un modo o nell'altro? La maggior parte dei filosofi greci credette in un universo di questo tipo, un grande Oggetto di cui tutti gli altri oggetti non sono che componenti da esso coordinate. È chiaro che per loro un simile oggetto doveva essere finito (riusciamo forse a immaginare un oggetto infinito? E, se è infinito, come possiamo dire che sia uno? E in che modo potrebbe servirci tale infinitezza per mettere in relazione le parti finite in maniera intelligente?), seppure di una finitezza talmente speciale da comprendere ogni cosa. Ed è proprio questo paradosso della finitezza senza un fuori ciò che volle mettere in luce Archita di Taranto stendendo (mentalmente) la sua mano al di fuori dell'universo, come qualcuno che voglia sapere se – fuori dal cosmo! – stia piovendo oppure no. Infatti, se accettiamo intuitivamente che tutti gli oggetti debbano essere finiti, dobbiamo anche accettare che tutti gli oggetti debbano avere un esterno. Se c'è un oggetto senza esterno, perché diciamo che è finito? Se non è finito, perché diciamo che è un oggetto?
La difficoltà che, a questo punto, si presenta – la stessa che si presentò ai greci e, successivamente, a tutti i loro eredi intellettuali – dipende dal fatto che sull'immensità continuiamo a formulare le stesse domande che hanno un senso su scala più ridotta... e forse solo su questa scala! Per esempio: sappiamo che ogni cosa occupa un posto e, pertanto, possiamo avere la tentazione di domandarci «che posto occuperà, allora, l'insieme delle cose?». Sappiamo che un film incomincia a una determinata ora e termina un numero preciso di minuti più tardi, il che ci fa supporre che anche l'universo – senza dubbio una superproduzione notevolmente superiore a Via col vento – debba aver avuto inizio in un determinato momento e che, a un certo punto, dovrà finire. Ma, come osservò Bertrand Russell, il fatto che ogni essere umano abbia una madre non ci autorizza a pensare che l'umanità debba averne una.
Vediamo che tutti gli oggetti che conosciamo sono formati da parti e che anch'essi sono parti di oggetti più grandi (pietre, terra e vegetazione costituiscono una montagna, che a sua volta si integra in una catena, la quale appartiene a un continente che fa parte del nostro pianeta, eccetera), ragion per cui ci sembra plausibile immaginare un oggetto enorme formato da tutti gli oggetti possibili e immaginabili. E su di esso incominciamo a porci le stesse domande che siamo abituati a formulare sulle cose che ci circondano, ma con risultati profondamente sconcertanti, incominciando dalle complicazioni che comporta concepire l'universo, finito o infinito che sia, cui si dedicò il saggio Kant alla fine della sua Critica della ragion pura.
E se non esistesse niente di simile alla supercosa-universo? E se ci fossero solo cose, innumerevoli cose che si succedono le une alle altre, si uniscono e si separano, finiscono e incominciano, ma non ci fosse nessuna grande Cosa formata da tutte le cose? Perché, allora, sentiamo quasi il bisogno di credere in un simile oggetto universale? Il poeta, nonché filosofo portoghese Fernando Pessoa, azzarda una spiegazione degna di essere presa in considerazione: «La materia è costituita da oggetti, cose... la coscienza no. Solo l'insieme (per così dire) della coscienza è 'reale'; nella materia, l'insieme non è reale, non c'è insieme, ci sono parti, oggetti soltanto. L'idea che ci sia un Universo, un insieme della materia, è applicare alla materia ciò che è caratteristico della coscienza». Ciascuno di noi si considera uno, un soggetto, e forse è per questo che sentiamo il bisogno di unificare la nostra esperienza della realtà in oggetti, e tutti gli oggetti in un unico grande Oggetto che li riunisca tutti rispetto alla coscienza.
Sin dall'antichità, la negazione dell'universo come oggetto unico è collegata alla filosofia materialistica, esposta in maniera insuperabile da Lucrezio nel suo lungo poema cosmologico De Rerum Natura. Naturalmente, il materialismo filosofico non ha niente a che fare con certo uso volgare della parola, secondo il quale essere «materialista» significa de-siderio di ricchezza e di eccessi sensuali, nonché mancanza di ideali e di generosità. In filosofia, il materialismo è un punto di vista caratterizzato fondamentalmente da due principi complementari: primo, non esiste un Universo, ma una pluralità infinita di mondi, oggetti e cose che non è mai possibile concepire o considerare in base al concetto di unità; secondo, tutti gli oggetti e tutte le cose che percepiamo sono composti di parti e, prima o poi, si scomporranno in parti. I materialisti classici definiscono «atomi» le ultime parti impercettibili della realtà, vale a dire ciò che non può essere ulteriormente diviso in parti più piccole. Tuttavia, si tratta di un'ipotesi metafisica e non di un'osservazione fisica (non bisogna confondere gli atomi di Leucippo, Democrito e Lucrezio con quelli della fisica moderna!).
Possiede, l'universo, un ordine e una progettualità? Sia che accettiamo il fatto che esista l'universo nel suo senso «forte», come oggetto unico di cui tutto è parte, sia che lo prendiamo nell'accezione più «leggera» del termine, come un'abbreviazione per riferirci a tutte le cose reali, è inevitabile domandarsi se ci sia in esso qualche forma di ordine comprensibile alla nostra ragione. Di fatto, sia in greco sia in latino, le parole che lo nominano indicano ordinamento e armonia: il kosmos è ciò che è ben organizzato e disposto (di qui la parola «cosmetica», che indica la cura del proprio aspetto), e lo stesso vuol dire mundus in latino (il suo opposto è l'«immondo», che significa sporco e disorganizzato). Tuttavia, secondo la mitologia greca così com'è narrata da Esiodo nella sua Teogonia, l'origine di tutti gli dèi, nonché dei mortali, è in una divinità primigenia chiamata Caos, l'Abisso, il grande Sbadiglio, ciò che non ha forma ed è eternamente incomprensibile in base a modelli ordinati. E colui che, forse, fu il più enigmatico e profondo dei primi filosofi, Eraclito, dice in un frammento dei suoi aforismi giunti fino a noi: «Proprio come un mucchio di rifiuti gettati a caso, è il più bello dei mondi» (fr. 124 Diels-Kranz, trad. it. di C. Diano). Dunque, occorre domandarsi se al principio fosse l'ordine – il cosmo – o piuttosto il disordine caotico. O forse, come sembra suggerire ironicamente Eraclito, l'ordine cosmico assomiglia a un mucchio di cose ammucchiate casualmente e coincide, dunque, esattamente con ciò che altri chiamano «caos»?
Prima di spingerci oltre, dovremmo tentare di chiarire che cosa intendiamo per «ordine», una nozione filosoficamente fondamentale, ma nient'affatto ovvia. In questo stesso momento, sul tavolo su cui scrivo si ammucchiano carte, appunti, schede, attaches, le mie chiavi e un'infinità di piccole cose che fanno parte di un insieme apparentemente casuale come quello menzionato da Eraclito. Ma se una mano benintenzionata, mossa dalla volontà di aiutarmi, incomincia a fare pacchetti simmetrici dei fogli di carta, mette le chiavi nel cassetto e sposta altrove le attaches, senza dubbio griderò: «Chi ha messo sottosopra la mia scrivania? Adesso non ritrovo più niente!». Nell'apparente disordine di prima mi muovevo con familiarità, individuando, quasi senza guardare, ciò che volta per volta mi serviva. Adesso, l'ordine altrui che mi è stato imposto mi priva dei miei soliti punti di riferimento e diventa, per me, un autentico caos. Il mio impertinente benefattore (o benefattrice!) sosterrà con pazienza le ragioni per cui ha disposto le cose secondo quel nuovo ordine: le schede devono stare con le schede, gli appunti non debbono mischiarsi con le attaches, è meglio che le chiavi non stiano sempre in giro, adesso sul tavolo c'è molto più spazio, eccetera. Ma io continuerò a protestare affermando che per me non cambia niente, che chi se la deve vedere con queste cose sono io e che non m'importa nulla di quale aspetto abbia la mia scrivania quando riesco a trovare quello che mi serve. Le schede erano sparpagliate, ma tenevo vicino a me quelle che utilizzavo in un determinato momento e un po' più lontane quelle che avrei utilizzato successivamente, sapevo perfettamente che sotto le schede c'erano quei certi appunti e le chiavi mi servivano da fermacarte per non far volare via una nota importante, eccetera. Morale: il mio disordine era ben ordinato per i miei scopi, mentre nel nuovo ordine non ritrovo più niente. Allora, quando posso dire che il mio tavolo è veramente ordinato, prima o adesso? Lo chiedo a te, lettore, che sei imparziale.
Torniamo allo spazio siderale. Nella chiara notte estiva scopro le stelle dell'Orsa Maggiore e individuo anche alcune costellazioni, per esempio quella di Cassiopea. Come milioni di uomini nel corso del tempo, osservo ammirato l'ordine maestoso dei cieli. Ma se parlo con un amico astronomo di professione, si farà gioco della mia ignoranza. Quei raggruppamenti di stelle sono assolutamente bizzarri, per non parlare delle presunte forme che disegnano, e non c'è Orsa Maggiore, o Minore, che tenga. Unico fondamento dell'ordine celeste delle costellazioni è la commistione di abitudine e fantasia che serve unicamente ad alimentare i bisbigli degli innamorati, nonché alle soperchierie degli astrologhi. Se vieni con me all'osservatorio, dice il mio amico, ti mostrerò il profilo della nostra galassia e delle altre che ci circondano, ti spiegherò che cos'è un buco nero e perché riteniamo che il 95% della massa del nostro universo sia invisibile, in una parola: ti farai un'idea più giusta del vero ordine cosmico.
Io ci vado, all'osservatorio, e sono grato all'amico per la sua generosa lezione, ma non ho il coraggio di esprimere il mio dubbio: non sarà che anche l'ordine che mi viene adesso rivelato costituisce un certo modo di vedere lo spazio siderale, non diverso dall'ingenua e tradizionale suddivisione delle costellazioni, un altro modo di vedere, utile a soddisfare certi interessi teorici, ma che non può aspirare a scoprire la verità astrale «in se stessa», qualora esistesse? Senza dubbio il punto di vista scientifico è solitamente più ricco e, alla lunga, per molti aspetti più suggestivo del punto di vista comune, ma forse non costituisce lo specchio necessario dell'ordine del mondo, bensì un altro ordinamento fra i molti possibili di una realtà in se stessa abbastanza caotica. L'innamorato che vuole godersi la chiara notte estiva in compagnia della sua amata ordina le stelle in arbitrarie figure leggendarie e forse il suo cosmo non è peggiore, per lui, di quello disegnato dall'astrofisico. Certamente, lo zoologo ha le sue buone ragioni per classificare la balena fra i mammiferi e non fra i pesci, ma sono altrettanto valide quelle del marinaio che la considera il più grande dei pesci e nient'altro: perché respirare con i polmoni, invece che con le branchie, è un criterio ordinatore più valido dell'essere un animale che vive nel mare?
Il concetto di «ordine» è sempre un tentativo di introdurre unità e di articolare relazioni in una molteplicità di elementi, sia questa unità inerente alle cose, sia che derivi da un nostro modo di pensare. Ma non è facile indicare un'unità inerente alle cose che abbia a che vedere con il nostro modo di pensare. Secondo quel che dice Kant nella Critica della ragion pura, «l'ordine dunque e la regolarità, nei fenomeni che diciamo natura, l'introduciamo noi stessi, [...]. L'intelletto, dunque, [...] è la legislazione della natura; cioè senza intelletto non si darebbe assolutamente una natura, unità sintetica del molteplice dei fenomeni secondo regole (Deduzione dei concetti puri, Sezione III nella prima edizione del 1781; trad. it. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice)». Significa che chiamiamo «ordine del mondo» il nostro modo di conoscere il mondo e di disporne, come io chiamo «ordine» il caos che regna sulla mia scrivania e considero «ben ordinate» le stelle delle antiche costellazioni che stuzzicano i capricci della mia fantasia. Ebbene, che portata oggettiva possiamo attribuire agli aspetti di questo «ordine», il cui principio soggettivo è innegabile? Senza dubbio, a prescindere dagli interessi e dai capricci soggettivi degli osservatori, è possibile osservare delle regolarità nei processi dell'universo, che consentono agli scienziati di avanzare previsioni che poi si verificano puntualmente. Stiamo quasi cercando di suggerire che l'obiettività dell'ordine cosmico è dimostrata dalla validità di un identico determinismo causale in tutto ciò che, di esso, riusciamo a sapere.
Ma queste leggi causali di portata universale sono norme stabilite da Dio, «come un re stabilisce le leggi del suo regno», secondo il pensiero di Cartesio, o semplici patti o alleanze estemporanei (foedera) nati per caso, come suppose Lucrezio? Tale determinismo meno rigido, e con una componente di aleatorietà, sembra adattarsi meglio agli enunciati della fisica quantistica del nostro secolo, secondo le opinioni di Werner Heisenberg e di Niels Bohr... Ma l'incertezza causale di questa impostazione potrebbe anche risiedere esclusivamente nel nostro nuovo modo di osservare la natura, alla luce delle leggi di questa fisica, e non nella natura stessa.
Azzardiamoci ad andare un poco oltre le nostre perplessità. Possiamo essere sicuri che tutto l'universo sia ordinato come quella parte in cui ci troviamo noi e che i nostri mezzi cognitivi riescono a raggiungere? Forse ci è toccato di vivere in un frammento di cosmo dotato di un ordine casuale cui però abbiamo accesso, mentre esistono molte altre province strutturate in base a formule differenti da quelle della nostra, cui non potremo mai accedere e che per noi sarebbero un autentico caos? Non potrebbe darsi che l'ordine che constatiamo intorno a noi sia proprio quello che ci ha permesso di esistere e che gli altri ordini o disordini possibili ci escludano non solo intellettualmente, ma anche fisicamente come specie? Questo vincolo intrinseco fra il nostro modo di conoscere e la nostra possibilità di esistere è ciò che ha portato alcuni astrofisici moderni a formulare quello che chiamano principio antropico (il principio che si orienta o si dirige verso l'uomo) del cosmo, che ammette due formulazioni, una più prudente e l'altra molto più «forte». La prima, che risale ai primi anni sessanta, si deve a Robert Dicke (in seguito fu sottoscritta anche da Stephen Hawking nella sua Breve storia del tempo) e dice all'incirca così: «Poiché nell'universo, ci sono osservatori, questo deve possedere delle proprietà che permettono l'esistenza di tali osservatori». Messa così, la cosa è abbastanza lapalissiana: visto che esistono osservatori nel cosmo, ciò vuol dire che, senza alcun dubbio, nel cosmo possono esistere degli osservatori. Ma quel che significa questa apparente ovvietà è che le regolarità causali che possiamo osservare nell'universo sono necessariamente collegate alla comparsa degli uomini in veste di studiosi della realtà. Come abbiamo già detto nel secondo capitolo, se siamo capaci di riflettere in modo abbastanza oggettivo la forma del mondo (perlomeno, la forma del mondo che ci riguarda) è perché ne facciamo parte... e perché se fossimo completamente incompatibili con la sua comprensione, non lo sapremmo, perché non avremmo neppure avuto la possibilità di esistere!
Anni dopo, Brandon Carter ripropose il principio antropico in modo molto più impegnativo, sebbene indubbiamente molto più affascinante: «L'universo deve essere costituito, nelle sue leggi e nella sua organizzazione, in modo tale da non poter mai cessare di produrre osservatori». E qui le cose sembrano andare troppo sfacciatamente lontano. E indubbio che l'esistenza dell'uomo nell'universo è possibile (perché di fatto esiste!), ma la supposizione che un evento così imponente fosse inevitabile racchiude un eccesso di autocompiacimento... a meno che non sosteniamo che le possibilità, quando si compiono, diventano necessariamente necessità. Questa convinzione megalomane ci avvicina pericolosamente alla ridicola conclusione che il frutto maturo che si è prefisso l'universo nel suo sviluppo siamo proprio noi (ma guarda un po'!). Non che le condizioni cosmiche siano tali da permettere la nostra comparsa (e, una volta comparsi, ci consentano di capirle, almeno in parte, oggettivamente), ma che sarebbero tali precisamente allo scopo di permetterci di comparire. Tuttavia, la modestia (e la saggezza!) dovrebbero impedirci di aspirare a tanto.
Supporre che il progetto universale esiga la nostra comparsa come specie implica la convinzione che questo scenario infinito sia fatto (almeno, in buona misura) per compiacerci. In alcuni versi eloquenti del suo De Rerum Natura (libro V, 195-234), Lucrezio raccoglie argomenti contrari a questa ipotesi. E anche Michel de Montaigne rifiuta vigorosamente questa pretesa: «Chi gli ha fatto credere [all'uomo] che quel mirabile movimento della volta celeste, la luce eterna di quelle fiaccole ruotanti così arditamente sul suo capo, i movimenti spaventosi di quel mare infinito siano stati determinati e perdurino per tanti secoli per la sua utilità e per il suo servizio? E possibile immaginare qualcosa di tanto ridicolo quanto il fatto che questa miserabile e meschina creatura, che non è neppure padrona di se stessa ed è esposta alle ingiurie di tutte le cose, si dica padrona e signora dell'universo, di cui non è in suo potere conoscere la minima parte, tanto meno comandarla?». Anche se avessimo la capacità di conoscere in certo modo alcune parti del cosmo e rinunciassimo perfino alla pretesa di governarlo, non risulterebbe eccessivo credere di essere il suo obiettivo o uno dei suoi obiettivi necessari?
Qual è l'origine dell'universo? La terza, grande domanda si riferisce alla causa iniziale di questa realtà universale, sia essa una e finita o infinitamente plurale, tanto nel caso che sia ordinata in se stessa quanto che lo sia solo in parte, o che siamo noi a ordinarla a modo nostro per poterla osservare meglio. Anche qui ritroviamo i paradossi impliciti nel tentativo di formulare su insiemi enormi o sull'infinito quel tipo di domande che funziona perfettamente su scala più piccola. Siamo abituati a domandare quale sia la causa originaria, o le cause originarie, degli esseri che ci circondano e a rispondere in maniera abbastanza soddisfacente: l'origine causale di Las Meninas è Velázquez, quest'albero è nato dal seme che ho piantato anni fa, il tavolo lo ha fatto il falegname e io stesso sono stato generato perché un ovulo di mia madre è stato fecondato da uno spermatozoo di mio padre. La domanda sull'origine causale di qualcosa potrebbe essere tradotta grossolanamente in questo modo: da dove viene quello che c'è qui? Ciò che vogliamo sapere è a partire da che cosa è giunto a essere ciò che non era prima: cerchiamo questo oggetto o essere precedente senza il cui intervento quel che adesso è davanti a noi non ci sarebbe mai stato. Diamo per scontato che tutto debba avere una «ragione sufficiente» per poter esistere, per usare la terminologia di Leibniz. Ebbene, se tutto ha una causa, non dovrebbe anche esserci una Causa di Tutto? Se sembra avere un senso indagare il perché dell'esistenza di ogni cosa, perché non dovrebbe averlo anche domandare il perché collettivo dell'esistenza universale delle cose? Oppure, per dirlo secondo l'impostazione stabilita da Heidegger nel nostro secolo, perché esiste qualcosa e non piuttosto nulla? Qual è la causa dell'esistenza in generale?
Come in altre occasioni in cui abbiamo formulato sul Tutto la domanda cui siamo abituati a rispondere senza problemi quando riguarda la parte, la ricerca della Causa di tutte le cause ci sprofonda immediatamente nella vertigine intellettuale. Normalmente pensiamo che, per definizione, le cause debbano essere diverse dai loro effetti e precedenti a essi. In tal modo che la Prima Causa dell'universo deve essere diversa dall'universo e precedente a esso. Ebbene, ciò che intendiamo per universo è proprio l'insieme di tutto quel che esiste nella realtà. Se la Causa Prima esiste nella realtà, deve far parte dell'universo (e pertanto bisogna anche domandarsi quale sia la sua causa); se non esiste nella realtà, come può agire? Certo è che nemmeno rinunciare all'esistenza di una causa prima ci soddisfa pienamente, dal punto di vista teorico. Possiamo ragionevolmente supporre che l'universo (vale a dire, la concatenazione continua di cause ed effetti) sia sempre esistita e, pertanto, che non sia mai incominciata. Alla domanda perché esiste «qualcosa» e non invece «nulla» risponderemo tranquillamente: perché dovrebbe esserci il «nulla» prima del «qualcosa»? Ci risulta che esistano casi in cui ci sia il «nulla»? Da dove ci viene l'idea che una volta potesse non esserci «nulla»? Agli inizi della filosofia, il greco Parmenide compose un poema che continua a essere la riflessione forse più profonda ed enigmatica di cui abbiamo avuto notizia. Dice che c'è sempre qualcosa, quello che c'è già stato e quel che ci sarà, vale a dire che questo «c'è» è unico per tutte le cose esistenti e che non si crea né si distrugge, a differenza delle cose che ci sono, le quali tutte, grandi o piccole che siano, appaiono e scompaiono. Questo «c'è» (tradotto dai commentatori come «essere» o «l'essere») non è nessuna delle cose che ci sono, né può essere pensato a prescindere, ma ci permette di pensare a ognuna di esse perché è ciò che tutte hanno in comune: un continuo apparire e scomparire che mai è scomparso né mai scomparirà. L'essere non è niente senza le cose, ma le cose non «sono» senza l'essere. Le implicazioni e le interpretazioni del poema di Parmenide hanno impegnato tutti i metafisici che sono esistiti da allora fino ad oggi... e sicuramente continueranno a farlo finché gli uomini saranno capaci di riflettere. Tuttavia, tale riflessione non dissipa, bensì infittisce le nostre perplessità, perché se ogni cosa esistente ha origine da un'altra e, a sua volta, è causa di un'altra ancora in un processo senza fine, e cioè senza inizio, come ha fatto a giungere fino a noi? Come può avere effetti, ora, una serie di cause che non ha mai avuto inizio? Siamo in grado di concepire la successione temporale delle cause «minori», che conosciamo, nell'ambito della durata infinita della causalità universale che non ha né inizio né fine?
Nella nostra tradizione cristiana, la risposta più famosa a questo rompicapo è quella che ricorre a un Dio creatore. Lasciando da parte la rispettabilissima religiosità di ciascuno, si tratta di tentare di spiegare qualcosa che comprendiamo poco mediante qualcosa che non comprendiamo affatto. L'universo e la sua origine sono difficilissimi da capire, Dio, invece!... L'eternità e l'infinità di Dio provocano lo stesso sconcerto dell'eternità e dell'infinità dell'universo: se alla domanda sul perché esista l'universo rispondiamo dicendo che lo ha fatto Dio, l'inevitabile domanda successiva sarà: perché c'è Dio, o chi ha fatto Dio? Se accettiamo che Dio non abbia causa, allora possiamo anche accettare l'idea che neppure l'universo ne abbia una e risparmiarci questo viaggio. Alcuni teologi sostengono che Dio è causa sui, cioè una causa che è causa di se stessa, la qual cosa contraddice le due caratteristiche che definiscono ciò che intendiamo per causa: non è diversa, ma identica al suo effetto e non è precedente, ma contemporanea a esso. Possiamo continuare, allora, a chiamare «causa» qualcosa che è, per definizione, l'opposto di ciò che normalmente riteniamo essere una «causa»?
L'argomento intuitivo più comune a favore dell'esistenza di un Dio creatore è l'ordine del cosmo, che immaginiamo possa derivare solo da un'Intelligenza ordinatrice. Abbiamo già detto che tale «ordine» può ben derivare dall'intelligenza dell'osservatore e non da quella di un creatore. Sin dal XVIII secolo è stata ripetuta molto spesso la metafora dell'orologio: se, uscendo di casa, troviamo un orologio, immaginiamo che non esista per caso, ma che sia stato fabbricato da un orologiaio. Ugualmente, constatando i mirabili ingranaggi del meccanismo universale, dobbiamo supporre che sia stato fabbricato da un creatore di mondi, con un'intelligenza simile a quella umana, anche se infinitamente superiore. Tuttavia, in realtà non conosciamo nessuno che costruisca alberi, mari e, tanto meno, mondi. Per questo è irrefutabile la protesta di David Hume nei suoi magnifici Dialoghi sulla religione naturale: «Qualcuno mi dirà forse, con viso serio, che un universo ordinato deve provenire da qualche pensiero e da qualche arte simili a quelli dell'uomo perché noi ne abbiamo l'esperienza? Per verificare questo ragionamento, si richiederebbe che noi avessimo esperienza dell'origine dei mondi e non è certo sufficiente che noi abbiamo visto dei battelli e delle città provenire dall'arte e dall'industria degli uomini...». E anche un altro pensatore del secolo dei Lumi, Lichtenberg, s'indigna eloquentemente a questa supposizione in uno dei suoi aforismi: «Nelle interpretazioni comuni sul Creatore del mondo si intromette spesso la follia bacchettona e afilosofica. Il grido 'come sarà chi ha creato tutto questo?' non ha molto più valore di quello che dice 'dove sarà la miniera in cui fu trovata la luna?', poiché, innanzitutto, bisognerebbe domandarsi seil mondo fu mai creato e, poi, se l'essere che lo ha fatto sarebbe in grado di costruire un orologio... io credo di no, solo un uomo è capace di questo. [...] Se il nostro mondo è stato creato, lo ha fatto un essere che assomiglia all'uomo come la balena all'allodola. Di conseguenza, ci stupisce sempre il fatto che uomini famosi dicano che l'ala di una mosca abbia in sé più sapienza di un orologio. Una tale affermazione significa solo questo: il modo in cui si fanno gli orologi non serve a fare l'ala di una mosca, ma nemmeno il modo con cui si fanno le ali di mosca serve a fare orologi».
Dire «Dio creò il mondo dal nulla» ha la stessa forza esplicativa del dire che «non sappiamo chi ha fatto il mondo, né come c'è riuscito». Ma quando affrontano il problema dell'origine, gli scienziati incorrono spesso in paradossi non molto diversi da quelli teologici. Secondo la teoria del big bang, per esempio, l'universo incomincia a espandersi partendo da un'esplosione iniziale, un'irripetibile particolarità che non si verificò in un punto dello spazio e in un momento del tempo, ma che diede origine all'espansione dello spazio e al trascorrere del tempo. Beh, nemmeno questo è troppo chiaro. Affinché ci sia un'esplosione iniziale, per metaforica che sia, deve pur esserci qualcosa che esplode in essa; forse, l'esplosione di questo «qualcosa» è l'origine di nebulose, galassie, buchi neri e altri oggetti più o meno conosciuti (nel mucchio, ci siamo anche noi), ma allora, da dove è uscito fuori questo «qualcosa»? Se è sempre stato lì (cioè, da nessuna parte), perché questo «qualcosa» esplose in un determinato momento, né prima né dopo? E così via. Visti i risultati di queste ricerche, non sarebbe meglio smettere di farsi tali domande e ritornare alle risposte poetiche dei miti? Ma possiamo veramente smettere di porci tali quesiti?
Nel suo romanzo Il resto è silenzio, lo scrittore guatemalteco Augusto Monterroso crea un personaggio umoristico, quello di un pensatore assorto nelle più gravi meditazioni. Una di esse dice così: «Poche cose come l'universo!». In effetti, l'unica cosa evidente è che se c'è qualcosa come una
Cosa-Universo, è sommamente singolare rispetto a tutto il resto. Tuttavia, è indubbiamente lì, nell'universo, che noi uomini ci troviamo a vivere la nostra vita. Forse dobbiamo discendere dalla dimensione cosmica e tornare alle nostre piccole faccende, fra lo zero e l'infinito...
Spunti di riflessione...
Perché noi esseri umani abbiamo bisogno di un «mondo» in cui vivere, e non solo della realtà? Quali sono i diversi tipi di «mondo» in cui abitiamo? Come si ascende dall'uno all'altro? Quali furono le prime risposte alle domande sull'«universo» e su ciò che in esso esiste? I miti sono semplici superstizioni ignoranti? In che cosa i miti assomigliano ai principi proposti dai primi filosofi? Quali vantaggi presenta la narrazione filosofica rispetto a quella mitica? Quali sono le tre grandi domande fondamentali sull'universo che si pongono i filosofi? Quali sono le due accezioni principali del concetto di «universo»? Che difficoltà teoriche presenta ognuna di esse? Quali paradossi comporta il formulare sull'immensità le stesse domande che facciamo sulle cose finite? In che cosa consiste il «materialismo» inteso filosoficamente? L'universo è, innanzi tutto, «cosmo» o «caos»? Esiste un «ordine» nell'universo? Possiamo slegare il concetto di «ordine» dalle nostre necessità e dai nostri interessi? Ciò che chiamiamo «ordine» dell'universo può essere determinato dal nostro percorso cognitivo o perfino dal nostro modo di vivere? Che cos'è il principio antropico e quali sono le sue due formulazioni? La causalità, che ci rivela da dove viene ogni oggetto che si trova alla nostra portata, può essere applicata a tutto l'universo? È risolutivo ricorrere a Dio per placare le nostre inquietudini teoriche sull'origine della realtà universale? L'universo è simile a un orologio che ha bisogno del suo orologiaio? Il big bang e le altre risposte degli astrofisici risolvono il problema dell'origine dell'universo? Se l'universo è una grande Cosa, perché non può essere come tutte le altre cose che conosciamo?
(Le domande della vita, Laterza 1999, pp. 95-114)