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    Sull’idea di salvezza

    Appunti di fenomenologia
    della vita spirituale [1]

    Roberta De Monticelli


    1. La leggenda kafkiana dell’Uomo di fronte alla legge

    Consiglio a ciascuno di leggere (o rileggere) il racconto di Kafka intitolato La Legge (o la leggenda dell’uomo davanti alla Legge – vedi sotto Appendice 2). Con la sua indimenticabile conclusione – dopo che l’uomo, per una vita, ha atteso di fronte a una, infima fra le molte, porte della Legge, e giusto prima che muoia – messa sulla bocca del custode: «Questa porta era destinata a te. Ora vado a chiuderla». Ecco espresso il senso acutissimo, indicibile, delle vite destinate alla fioritura (salvezza), e irrimediabilmente perdute.
    Anche la fenomenologia ha tematizzato l’idea di salvezza con straordinaria acutezza.
    Questo sarà uno dei nostri temi: la salvezza personale come scoperta e realizzazione della propria “destinazione”, secondo il termine scheleriano che ha molti sinonimi nella lingua biblica tedesca, come vedremo fra poco, e che Scheler intende come il compito che alla vita di una persona conferisce il suo personale ordine di priorità valoriale, o meglio ancora la dimensione valoriale e il relativo modello umano che lo “interpella”, lo “chiama”, lo “colpisce”. Il compito o il “dovere personale” che è così facile non identificare, fraintendere o fallire.
    Innanzitutto l’approccio fenomenologico cerca di definire i tratti essenziali delle realtà a partire dal modo in cui possiamo farne esperienza in prima persona, dal modo in cui la cosa stessa ci si dà a conoscere nel nostro relazionarci con essa. Ad esempio non descriverà la salvezza basandosi sulle descrizioni che commentatori di testi sacri ne fanno, ma partirà dall’esperienza di “guarigione”, o “ricreazione”, rinnovamento, respiro che si allarga, conforto, che una persona può vivere su di sé, magari suscitata dalla meditazione sui testi sacri.
    In questa prospettiva è possibile comprendere una delle proposizioni più vere e profonde, in un certo senso misteriose di tutta l’opera di Max Scheler: «Il bene rimane sempre più sconosciuto del male». Non c’è bene per il mondo che non sia il portato di una fioritura personale ovvero della scoperta di cosa devo fare – di come devo vivere – io: la porta della legge “destinata a me”. Quella che troppo spesso non osiamo farci aprire… Perché?[2] Fin troppe suggestioni misteriose. Andiamo alla cosa stessa, ma per arrivarci partiamo dall’ambiguità della parola.

    2. I due sensi di salvezza

    Esistono almeno due sensi in cui si può intendere il concetto di salvezza. Il primo (Rettung) indica una conservazione (Bewahrung), un salvaguardare dalla trasformazione.
    In questo senso “salviamo” anche i nostri file. Il secondo (Heil) rimanda alla sfera di significati religiosi come quelli di liberazione, redenzione o rinascita (Erlösung), destinazione (Bestimmung), vocazione (Berufung), elezione (Erwählung), missione (Sendung).
    Il primo senso di salvezza ha una versione nobile e pervasiva in filosofia, in certo modo coincidente con l’aspirazione profonda del filosofo come tale. È il famoso sozein ta fainomena, salvaguardare i fenomeni – nel senso quindi di renderne ragione, contro la sfida dello scetticismo teorico e pratico, la “morte” della filosofia. In fondo la filosofia, come la conosciamo, nasce in buona parte dalla risposta di Platone alle tre tesi di Gorgia: nulla esiste; se anche esistesse non sarebbe conoscibile; se anche fosse conoscibile non sarebbe comunicabile. Anche la fenomenologia si inserisce in questo solco combattendo contro lo scetticismo e le sue forme moderne. “Nulla appare invano”, ecco il motto di una filosofia che si propone di salvare i “fenomeni”, vale a dire le cose che appaiono nella nostra esperienza quotidiana: alberi e città, persone e istituzioni, affetti e progetti, opere e promesse, imprese e doveri… La nostra esperienza è aperta al vero? Ciò che crediamo di noi stessi è giustificabile? Una maturazione anche cognitiva dell’uomo nel corso della sua vita è possibile? La vita nel suo più alto orizzonte socratico, la ricerca di conoscenza chiara ovvero la ricerca delle ragioni di credere e di agire, è possibile? Due temperamenti – quelli di Scheler e Edmund Husserl, due grandi filosofi che rappresentano le due anime complementari della fenomenologia – rispondono positivamente alla sfida scettica. Per entrambi la filosofia è il mestiere di salvare i fenomeni, e dunque la serietà di tutta la nostra esperienza quotidiana, fattuale e morale.
    Ma Husserl lo intende come il lavoro socratico della “giustificazione” – dunque il cercare prove ed evidenza per tutte le prese di posizione più o meno implicite che motivano scelte e comportamenti, ma anche il far chiarezza su di esse, il portarle a coscienza e precisa espressione: il lavoro che Husserl chiama della “meditazione”, la Besinnung. In Scheler invece prevale l’aspetto contemplativo tipico della sapienza monastica, l’accogliere una verità che mi si manifesta: egli valorizza la recettività, l’attenzione, il rispetto del dato essenziale come “sentimento dei fili delicati che prolungano ogni cosa nell’invisibile” [3]. Ecco due passi che attestano vividamente l’uno e l’altro atteggiamento: «Ogni vita umana capace di veglia avanza attraverso sforzi e azioni esterne e interiori. Ma ogni azione è motivata da intenzioni o convinzioni: relative all’essere, come quelle riferite a realtà del mondo circostante; ma anche relative a valori, come quelle riferite al bello o al brutto, al bene o al male, all’utile o all’inutile, etc. Per la maggior parte del tempo queste intenzioni sono completamente vaghe e prive di ogni evidenza della cosa stessa. Il metodo di conoscenza socratica è un metodo di chiarificazione assoluta. Socrate […] reagendo contro la scuola dei sofisti che contestavano ogni senso razionale alla vita, poneva al centro dell’interesse etico [...] la contraddizione fondamentale che domina ogni vita personale vigile, quella fra l’opinione oscura e l’evidenza [...] [Platone] traspose alla conoscenza il principio socratico della giustificazione» [4].
    «[Ogni filosofare] è un atto di partecipazione, determinato dall’amore, del nucleo di una persona umana finita all’elemento essenziale di ogni cosa possibile» [5].
    Che sia salva ogni cosa, nella sua essenza: che a ciascuno sia aperta la via della conoscenza dell’essenziale. Il fenomenologo è in un certo senso uno che salva l’essenziale dei fenomeni. Discutere questa prospettiva, che lungi dal liberare il filosofo dalla fatica dell’esperienza e della sperimentazione, o almeno dell’informazione sullo stato delle scienze, lo impegna a un confronto continuo con l’attualità del sapere empirico, ci tratterrebbe a lungo nell’esame dell’innovativa teoria fenomenologica degli a priori materiali. Non è questo il luogo per farlo: questa caratterizzazione della filosofia può però già aiutarci a mettere a fuoco il modo nuovo – rispetto alla tradizione antica e moderna – che la fenomenologia ha di pensare il rapporto fra filosofia e religione.
    Per le linee essenziali di quell’approccio filosofico alla religione che è la fenomenologia della religione ci si può riferire ad almeno tre opere classiche: L’eterno nell’uomo di Max Scheler (1921), Fenomenologia e religione di Jean Héring (1925) [6], e Vie della conoscenza di Dio di Edith Stein (1942) [7].
    Esse rappresentano l’atto di nascita di una possibilità nuova nella storia dei rapporti fra fede e ragione, fra religione e filosofia, fra teologia e metafisica (non intendo affermare che queste tre opposizioni si riducano a una). Una possibilità nuova, capace di rendere ragione all’uomo adulto, ai Lumi intellettuali e morali della modernità, ai principi di autonomia etica e di eguale dignità che stanno alla base degli ordinamenti civili moderni (e delle costituzioni). E insieme di rendere dignità e nobiltà – diremmo, la nobiltà dell’età matura – alla vita spirituale, compresa quella delle persone che aderiscono a qualche fede confessionale e in particolare a quelle cristiane. Una possibilità di dare al secolo quel che è del secolo, e a Dio quel che è di Dio, e ad entrambi di dare a piene mani, senza nulla togliere. Una possibilità nuova, che però tragicamente non fu compresa e non fu accolta da una parte della cristianità – la parte cattolico-romana – e che passò sorprendentemente inosservata anche dalle chiese protestanti. Ma neppure fu veramente assimilata dalla cultura filosofica europea, affascinata da altre avventure per tutto il secolo scorso. Chi conosce le splendide pagine di questi autori su questi argomenti? Non è un caso che ricompaiano così tardivamente in traduzioni italiane complete e affidabili. Oggi assistiamo da un lato al processo di “secolarizzazione”, il progressivo crescere della nostra ignoranza della trama simbolica e iconologica in altri tempi sottesa ai gesti e ai riti quotidiani, dall’altro ad una “ripoliticizzazione del religioso”. In che modo possono venire utili, alla nostra intelligenza di questo stato di cose, i nostri fenomenologi? La risposta che suggerisco è: in quanto ci portano ciò che ci manca: una consapevolezza dell’essenziale, senza la quale siamo relativamente incapaci di leggere e afferrare i mutamenti in atto. Con questa espressione intendo una capacità di cogliere in un fenomeno ciò che gli conferisce definitezza e identità, profondità e ricchezza: la sua essenza reale, il pezzo di realtà che manifesta. La religione, ad esempio, è un fenomeno, o mille e diversi? Manifesta forse una regione del mondo della vita, che non varia in alcuni suoi tratti definitori, anche se l’esperienza che possiamo farne e la coscienza che possiamo prenderne mutano e si approfondiscono con noi, con la nostra memoria e la nostra maturità intellettuale e morale? Oppure non è che un coacervo di tradizioni, di forze sociali ed economiche, di contingenze storiche e di pulsioni psichiche?

    3. Fenomenologia della religione: lasciar parlare e salvare i fenomeni

    Nulla appare invano: salvare l’essenziale che nei fenomeni appare è la vocazione stessa della fenomenologia. Leggiamo un passo di Max Scheler: «Il fenomenologo è convinto che una familiarità profonda e vivente con il contenuto e il senso dei fatti in questione debba precedere ogni domanda di criteri relativi a un determinato campo. […] Una filosofia basata sulla fenomenologia deve essere caratterizzata prima di tutto dal contatto più intensamente vitale e più immediato con il mondo stesso, vale a dire, con quelle cose nel mondo di cui vuole occuparsi, e con queste cose come sono date immediatamente nell’esperienza […] e sono “là in se stesse”» [8]. La fenomenologia della religione è senz’altro il miglior modo di esemplificare la natura di una filosofia dell’attenzione specifica, “accogliente”. Che è il contrario di una filosofia totalizzante, di un sistema. Una filosofia accogliente è una filosofia che accompagna ciascuno sulla soglia di uno specifico tipo di esperienza, e per parlare degli oggetti di quell’esperienza vi si immerge riflessivamente: scoprendo la norma propria dell’oggetto, il modo in cui esso vuol essere esperito. E quindi parla di ogni cosa iuxta propria principia di quella cosa: per parlare della religione ascolta il religioso, per parlare dell’arte esperisce l’opera e così via, e tuttavia non si sostituisce né al religioso né all’artista, ma indica cosa fare per ricevere nel modo corretto. È davvero una disciplina del ricevere, e quindi del sentire, del leggere, dell’ascoltare.
    L’essenziale della religione, se qualcosa del genere c’è, andrà dunque indagato a partire dall’esperienza religiosa. E dunque dal suo primo dato, che già Tommaso d’Aquino aveva riassunto con parole limpide: «Religione non è fede, ma attestazione di fede per mezzo di segni esterni» [9].
    Dunque la fenomenologia della religione è lo studio in primo luogo di ciò che nell’esperienza di fede religiosa è dato – il divino – e in secondo luogo del modo in cui è dato: l’esperienza religiosa e la sfera degli atti tipici di essa. A differenza dagli approcci più sociologici, o antropologici, la fenomenologia della religione privilegia comunque il lato interiore, quello dell’esperienza spirituale – più di quello dei “segni esterni”, delle istituzioni e delle azioni (cerimonie, liturgie, usanze) che caratterizzano l’aspetto visibile delle religioni (in questo senso è particolarmente sviluppata la fenomenologia dell’esperienza non istituzionale, ma diremmo naturale-spirituale del divino: la “teologia simbolica” secondo Stein, la mistica secondo Gerda Walther).
    Ben raramente la filosofia ha “lasciato parlare” i fenomeni della religione: la “filosofia della religione” nasce con una pulsione riduttiva congenita. Se Kant aveva in qualche modo ridotto la religione alla ragione pratica e Hegel l’aveva superata nella filosofia, fra l’Ottocento e il Duemila la religione sperimenta tutte le riduzioni possibili: storico-culturale, sociologica, psicologica, oggi addirittura biologica (con Daniel Dennett e Richard Dawkins).
    La fenomenologia è una forza di resistenza alla tentazione di chiudersi in una visione del mondo cieca ai fenomeni che non vi rientrano, per decretare che cosa sia e che cosa non sia illusorio, a volte nella più perfetta ignoranza delle cose di cui parla: ad esempio della modalità di esperienza e pensiero che, con parola carica di equivoci, viene chiamata “fede”.
    Oggi lo spirito di riduzione investe il visibile: l’intero mondo degli oggetti d’esperienza quotidiana, il mondo della nostra fisica ingenua e quello della nostra ingenua morale, con la muta certezza che abbiamo ordinariamente di essere centri di libera azione e decisione, cause responsabili di ciò che nel bene e nel male mettiamo al mondo.

    4. L’intenzionalità caratteristica dell’esperienza religiosa

    Risale al saggio centrale di L’eterno nell’uomo di Scheler – “Problemi di religione” – l’idea, poi condivisa da tutti i fenomenologi, della fondamentale differenza di oggetto intenzionale – e dunque di orientamento, di senso, di rapporto al reale – di due modalità di ricerca dell’assoluto che nella nostra storia hanno cercato reciprocamente o l’una di inglobarsi l’altra, o di escluderla: religione e filosofia, fede e ragione.
    I rapporti fra filosofia e religione sono stati, nell’arco della nostra tradizione, improntati a due fondamentali modelli, secondo Scheler: quello dell’identità parziale o totale del loro oggetto ultimo – il divino – e quello di una diversità essenziale (vedi lo schema che riportiamo in appendice). Il tomismo, ad esempio, rientra nella prima categoria, assumendo una parziale identità di oggetto e metodo (la metafisica costituisce una parte della teologia, la parte “naturale” o “razionale”). Ma vi rientrano anche i maggiori sistemi filosofici tradizionali, come la metafisica spinoziana o il sapere assoluto di Hegel, o il pensiero di Heidegger di cui si nutre non a caso metà della teologia contemporanea.
    Questi sono i sistemi della moderna “gnosi”, per i quali in definitiva la religione è la forma infantile e mitica del pensiero dell’assoluto. Sul fronte opposto, l’identità totale viene postulata dal tradizionalismo religioso, per il quale, all’inverso, la filosofia non è che il cascame secolare delle rivelazioni, religione da intellettuali – tesi ereditata del resto dalle varie ondate del positivismo, vecchio e nuovo.
    Ai sistemi dualistici (di matrice protestante) Scheler ascrive il grandissimo merito di riconoscere la reciproca autonomia di filosofia e religione ma lamenta la mancanza di una caratterizzazione positiva di questa differenza essenziale. E in questa caratterizzazione positiva è tracciato il programma di una filosofia della religione, la quale non può cominciare a esistere prima che sia riconosciuta questa differenza di oggetto intenzionale di religione e metafisica, rispettivamente il sommo bene e l’assolutamente reale. Héring ripartirà da questa constatazione fenomenologica che vede il divino, in quanto oggetto intenzionale dell’esperienza propriamente religiosa, non come fondamento della realtà ma come ciò che rende preziosa la realtà, non come termine di un desiderio di conoscenza ma di un desiderio di salvezza. Così nel 1921 Scheler caratterizzava questa distinzione: «[…] la differenza fondamentale dell’intenzione essenziale e la diversità che ne dipende di sviluppo e dei corsi di sviluppo della religione e della metafisica. La questione della salvezza rimane secondaria per il metafisico, la conoscenza dell’assolutamente reale è secondaria per il religioso. La salvezza e l’amore alla salvezza di ogni cosa rimangono indipendenti categorie primitive della religione; l’essere, come è in sé, rimane la primitiva categoria indipendente della metafisica» [10].
    Grande è la densità di questa tesi. Ci soffermiamo su due soltanto fra le numerose conseguenze: come il divino ne risulta caratterizzato a parte objecti, “noematicamente”, e a parte subjecti; quali tratti essenziali qualifichino cioè la sua esperienza e cognizione.

    5. L’oggetto: eidetica del “divino” (Das Heilige)

    La sfera propriamente religiosa del valore è precisamente caratterizzata come la sfera di ciò che “heilt” – possiamo tradurre appunto “il salvifico”. Qui c’è nei fenomenologi un punto nuovo rispetto alla caratterizzazione dello heilig proposta nel 1917 da Rudolf Otto [11] e dalla quale i fenomenologi hanno sicuramente imparato molto. Infatti, tradurre anche in questo caso l’aggettivo con “sacro” è, per quanto inevitabile, meno giustificato che nel caso del libro di Otto, dove il senso legato alla radice latina di sacer – secerno, separazione – risulta meglio valorizzato. C’è invece in Scheler e in Stein un’idea di heilen, “risanare”, per la quale forse, molto più tardi, fu Etty Hillesum a trovare il termine giusto: un “balsamo per le nostre ferite”.
    Il disegno dell’Eterno nell’uomo parte dal saggio su Pentimento e rinascita che espone la chiave in cui probabilmente Scheler concepì fin dall’inizio la religione, in particolare quella cristiana. Scheler vede nella religione una forma di autoguarigione dell’anima (heilenheilig) offertale insieme a un modo di redenzione: la redenzione di tutto il passato.
    Un’offerta di renovatio mentis e di rinascita, cui probabilmente Scheler si sentì chiamato a rispondere attraverso il rinnovamento radicale del pensiero che fu per lui la fenomenologia.
    Profondamente agostiniano, Scheler pensa come presenza del passato e del futuro quel vestigio di eterno nell’uomo che è appunto il presente – in esso per via di memoria ed attesa “tutto” il vivere è in qualche modo raccolto e non disperso nel tempo come qualunque evento temporalmente esteso. Grazie a questo «ci sono presenti, nel vissuto di ognuno degli indivisibili momenti di vita temporali, la struttura e l’idea del tutto della nostra vita e della nostra persona […]. Grazie a questo meraviglioso fatto non la realtà, bensì il senso e il valore del tutto della nostra vita si trovano ancora nella nostra libera sfera di potenza in ogni momento della nostra vita […]. Forze giovani e innocenti dormono in ogni anima» [12].
    In questa qualità di heilig i fenomenologi colgono l’effetto di rinnovamento e rinascita che la teologia antica attribuisce allo Spirito: ciò che risana, ossia che salva, sostiene, nutre, rinnova e fa fiorire ciascuna persona. “Spiritualità” in Scheler è esperienza del divino (dei valori del divino), e questo è vita di ciò che vi è di più personale nelle persone. Il divino è ciò che “ricrea”, “risveglia”, “rallegra” (Agostino), dà vita nuova, respiro nuovo, renovatio mentis, rinascita: tutto ciò che ha l’effetto opposto sicuramente non è “divino”, non è esperienza di quel livello di valori. Tutto ciò che si fa battaglia e bandiera sulle pubbliche piazze o nello spazio dei media, ciò che difende supposte identità invece di rinnovare la mente e il cuore, non assomiglia al divino.

    6. L’esperienza del “divino”

    È un tipo di esperienza valoriale – che parole come “devozione”, “adorazione”, “Ehrfurcht”, “awe” evocano – ed è, in particolare, l’esperienza della sfera “più alta” della gerarchia valoriale, quali che siano nelle diverse epoche e culture i beni che la esemplificano. Perciò, comunque la si chiami, la commozione specificamente religiosa precede nell’ordine soggettivo dell’esperienza, anche nelle religioni teologicamente strutturate come il cristianesimo, l’eventuale atto di fede, l’assenso e l’impegno caratteristici di un credo. Si può illustrare questa fenomenologia con un famoso dialogo fra un pagano e un cristiano, che traiamo dal De deo abscondito di Nicolò da Cusa. Il pagano descrive con precisione il fenomeno che vede nel cristiano: «Un uomo commosso da quello che ignora». Un fenomeno che sa di ignorare, perché «più che essere affermato come qualche cosa, Dio rifugge piuttosto da ogni concetto, visto che non si trova, in luogo di creature, chi non ha condizione di creatura» [13]. Ciò che il cristiano del dialogo fa comprendere al pagano è che essere in conspectum Dei, per così dire, non è per nulla pensare l’impensabile, ma pensare o vedere le cose del mondo nella luce dello Heilig. La fenomenologia scheleriana del “sacro” fa emergere precisamente il senso di quell’emozione di cui parla il personaggio di Cusano – e che può chiamarsi devozione o gratitudine – che ispira la confessio laudis e la confessio culpae, la preghiera e il salmo, ma certamente non riduce il divino a uno stato d’animo, né la vita di fede alla vita sentimentale: al contrario, intende il divino come ciò che in questa devozione si manifesta, o “rivela”.
    E con questo siamo all’altro punto fondamentale di una fenomenologia del religioso: dopo la caratterizzazione essenziale del divino, che vede le religioni fondarsi assiologicamente piuttosto che metafisicamente, ma senza con questo affatto ridurre la religione all’etica né ancor meno giustificare qualunque fondazione teologica dell’etica (per non parlare poi del diritto o della politica!). La fenomenologia della religione prevede una descrizione essenziale degli atti in cui il divino si fa fenomeno. Il nucleo di questa fenomenologia dell’atto religioso è la fenomenologia della “rivelazione”: «La religione in ciascuna delle sue forme, nella ricchezza del suo contenuto, scorre sempre infatti da una fonte: oggettivamente dalla “rivelazione” di Dio (che è essa stessa per gradi, sia nella forma sia nella ricchezza), soggettivamente dalla fede. Per “rivelazione” non intendo qui quello che i teologi chiamano “la” rivelazione, e neppure la “vera” rivelazione (per non parlare della rivelazione “positiva”), ma soltanto lo specifico modo di datità di ogni sorta di dati di intuizione e di esperienza vissuta di un oggetto che abbia l’essenza del divino e del sacro, e propriamente lo specifico modo di datità dell’essere partecipato o del divenire tale – sia in modo mediato, sia immediato. L’essenza di questo modo di conoscenza sta in opposizione a ogni atto di conoscenza spontaneo; e qui non si tratta di una semplice differenza oggettiva nel modo causale in cui il sapere si produce nell’uomo, ma di un modo radicalmente diverso della possibile formazione di evidenza, che è iscritto nel processo di conoscenza vissuto» [14].

    7. Edith Stein e le vie della conoscenza di Dio. Credere non è opinare

    Questo è un punto che Edith Stein approfondirà nel suo scritto postumo sulle Vie della conoscenza di Dio, in forma di commento all’opera dello Pseudo-Dionigi l’Areopagita. Colui che vive l’esperienza religiosa, ovvero “cerca”, può anche non trovare nulla: ma se trova, trova in un modo caratteristico, che possiamo verificare attestato in tutta la tradizione spirituale del cristianesimo, ma che i nostri autori generalizzano – sulla scorta di un’intuizione che risale a Lessing e che è familiare alla storiografia religiosa tedesca, fino a Ernst Troeltsch. Questo modo distintivo della “scoperta” religiosa ha due caratteristiche.
    In primo luogo, il soggetto vive la scoperta come tale, e non come invenzione propria: in particolare, come un approfondimento della sua comprensione di qualche aspetto dell’esperienza umana, che gli viene in qualche forma “comunicato”, “partecipato”. Sia questo il modo più umano e comune di ricevere comunicazioni, la lettura di testi, o sia l’improvviso accendersi di significati nuovi che ci è familiare da altri ambiti, come quelli della poesia e delle arti, attraverso metafore e immagini, a differenza del poeta l’homo religiosus non esperisce come opera e iniziativa sua la “scoperta” che “gli è dato fare”.
    L’homo religiosus si vive come essenzialmente e primariamente “chiamato”, cercato, e teso all’ascolto: e questo è evidente perfino nella fenomenologia di colui che parla e chiama, anzi “grida” – il “profeta”. «Ogni sapere religioso di Dio è un sapere mediante Dio, per quanto riguarda il modo di ricezione del sapere stesso. Questo antico grande principio soltanto dà alla religione quell’ultima unità di cui essa ha bisogno. Anche la necessaria distinzione di rivelazione naturale e positiva non toglie questo principio» [15].
    Un punto essenziale nella fenomenologia dell’esperienza spirituale riguarda il correlato soggettivo della “rivelazione”: la nozione di fede. Qui il confronto con Scheler è particolarmente utile, perché la pagina di Héring è su questo punto cruciale molto, forse troppo sintetica. La tesi, espressa da Scheler con estrema chiarezza, è quella della natura non “dossica”, non “epistemica”, della fede religiosa. Qualunque cosa sia, la fede religiosa non è credenza nel senso di opinione, più o meno certa, più o meno fondata, su fatti fisici o metafisici. «Non c’è nessuna fede nel probabile, nessuna fede ipotetica. La “certezza granitica” che si costruisce sull’evidenza di fede è qualcosa di fondamentalmente diverso da ogni sapere congetturale. Solo la libertà dell’atto di fede nella sua differenza dall’atto di intelligenza vincolato alla cosa (sachgebundene) rende l’evidenza della fede e la “certezza granitica” possibili. La fede è libero impegno della persona e del suo nucleo per il contenuto e il bene della fede – il giudizio di fede è solo il giudizio sul contenuto dato nell’atto di fede. Per ipotesi e verosimiglianza o pure congetture o assunzioni dal lato degli atti – non c’è mai posto, nella fede e nell’atto di fede» [16].
    Questa tesi richiederebbe troppo spazio ancora per essere adeguatamente discussa.
    Quello che è certo è che situa l’atto di fede non all’interno, ma oltre la sfera della motivazione razionale. Lo situa correttamente nella sfera che tradizionalmente si chiama della grazia, e che distingue la gratuità dell’atto di fede dagli atti di riconoscimento di una tesi o di una norma ben fondate, che invece sono dovuti. La fede religiosa non è mai dovuta. Questa tesi libera il contenuto di una fede religiosa autentica da ogni possibile accordo o disaccordo con i fatti che rendono veri o falsi i nostri giudizi (relativi per esempio all’origine del mondo, o della vita, o della vita umana…). Perché il giudizio nella sfera di questi fatti, che siano al momento accessibili alla ricerca scientifica o filosofica o che non lo siano ancora, non gode affatto della libertà dell’atto di fede: nelle questioni di realtà o abbiamo buone ragioni per un dato giudizio, e allora non si può rifiutarlo senza ragioni ancora migliori, oppure non le abbiamo, e allora è arbitrario affermarlo. Se si confondono le sfere della grazia e della natura, invece, si rischierà di condannare il prossimo Teilhard de Chardin, una volta di nuovo, per trent’anni ancora.

    8. Scheler e l’etica del bene in sé per me

    La seconda caratteristica essenziale di questo modo del trovare (o dell’essere trovati?) è l’aspetto profondamente “personale” di questa forma di sapere partecipato. Questo è un punto davvero nuovo e illuminante nella fenomenologia scheleriana del divino – un punto che anche Edith Stein non solo fa profondamente proprio, ma nel quale si riassumono in certo modo i punti precedenti. Il primo anzitutto, il darsi del divino come ciò che è prezioso nel senso della sfera “più alta” del valore. Che cosa ne fa appunto il vertice di quella scala, che ha alla sua base i valori sensoriali e vitali, e poi quelli culturali e sociali? La circostanza che i valori del divino siano i valori “della personalità”: che in essi appaia il senso dell’unicità e irripetibilità di ciascuno, in quanto punto di vista o centro d’esperienza di un aspetto del bene (del valore) che “solo lui” può portare a realizzazione nel mondo. Il divino in questo senso è il termine della “destinazione” di ciascuno, che non è necessariamente il suo destino (nella maggior parte dei casi l’esistenza fallisce purtroppo questa possibile destinazione) ma piuttosto la sua “vocazione”, ciò che qualcuno “era chiamato ad essere” e a fare. Secondo un tema che profondamente pervade la concezione della Bildung stranamente attribuita in generale ai romantici, e radicata invece nell’illuminismo di Lessing [17].
    Héring nota che la moderna ricerca storica, lungi dal confermare il carattere primitivo, arcaico, magico e superstizioso della religione, tende al contrario a riconoscere nelle religioni più evolute l’espressione integrale del carattere intrinseco di ogni religione [18]. E in definitiva la tesi che la religiosità è la parte più elevata dell’esperienza valoriale come tale comporta che essa sia nella sua essenza un modo dell’esperienza assiologica che non è legato a stadi arcaici o primitivi della cultura: ma che in tutte le culture, anche quelle arcaiche e primitive, corrisponde a un livello di maturazione della sensibilità assiologica che è il più alto. Cioè il più libero, il meno legato ai meccanismi dell’affermazione biologica e della sopravvivenza sociale, in questo senso, virtualmente, il più “personale”. Tanto più tragica risulterebbe, se i fenomenologi hanno ragione, quell’involuzione delle grandi religioni istituzionali, che constatiamo in alcune parti del mondo oggi, e che consiste nel rigetto del “mondo diventato adulto” – o addirittura nella contestazione della laicità delle sfere etica e pubblica della vita civile.

    9. La destinazione

    Vale la pena di approfondire ancora la questione del nesso fra esperienza spirituale e personalità, in cui si riassume il tema forse più affascinante dell’intera fenomenologia dell’esperienza spirituale. In che senso l’esperienza della sfera dei valori del divino, cioè dei valori più elevati, è virtualmente la sfera più “personale”, più “individuata” (lungi dall’essere arcaica o tribale) dell’esperienza assiologica? La risposta di Scheler la troviamo in quella parte della sua etica materiale dei valori che è dedicata al fenomeno della “vocazione” – in un senso molto più lato che quello strettamente religioso, e che tuttavia conserva «l’intuizione evidente di un bene, la cui essenza oggettiva e il cui contenuto assiologico originario a priori rinviano a una persona individuale, e il cui il dovere assume la forma di un “richiamo” (Ruf) rivolto a una persona e soltanto a questa persona, indipendentemente dal fatto che il “richiamo” sia rivolto o no anche ad altri. In questo, dunque, consiste il balenare (Erblicken) del valore essenziale della mia persona – in linguaggio religioso diremmo: dell’immagine di valore che l’amore di Dio, in quanto è rivolto a me, ha di me e quasi mi disegna davanti e porta ai miei occhi: su quest’originario contenuto di valore proprio e individuale si fonda precisamente la coscienza del dovere individuale; è il riconoscimento evidente di un bene in sé, ma appunto del “bene in sé per me”» [19]. Questa è una pagina di fenomenologia di ogni vocazione, intesa come l’esperienza del tipo di valori che io posso realizzare: il “bene in sé per me”, ovvero il “compito” che mi è assegnato.
    Scheler sottolinea la trama delle parole della tradizione che egli fa “rivivere in questo contesto: «Sulle idee di “vocazione” (Berufung, Vocation), “missione” (Sendung), “elezione” (Erwählung) a un compito […]. Tutte queste idee hanno a proprio fondamento l’esperienza fondamentale di cui sopra». Vogliamo soffermarci in particolare su questa formula: una vocazione – scrive Scheler – è il «riconoscimento evidente di un bene in sé, ma appunto del “bene in sé per me”».
    Scheler ha alle spalle una grande tradizione tedesca (Goethe, i romantici, Friedrich Schleiermacher) che tanto ha lavorato e letterariamente prodotto a partire dal concetto di Bildung (formazione, educazione): si pensi alla Theatralische Sendung, alla Vocazione teatrale di Wilhelm Meister (e alle altre versioni del grande romanzo goethiano); al romanzo di Novalis Il fiore blu, ai numerosi altri romanzi che hanno a tema la scoperta, attraverso l’esperienza, della propria identità morale o personalità. In filosofia e teologia, fu soprattutto Schleiermacher, studiato poi da Wilhelm Dilthey, a sviluppare l’idea di una religione che nel rapporto intimo e personale col divino trova la propria esclusiva ragion d’essere. Queste pagine di Scheler non solo hanno alle spalle questa grande tradizione, ma hanno anche come termine polemico immediato il tentativo di Georg Simmel, neokantiano, di dar voce a questa tradizione in un breve saggio che precisamente tenta l’operazione impossibile di individualizzare la Legge kantiana [20].
    Quello di “bene in sé per me” non è un concetto contraddittorio? Non c’è una contraddizione logica? No, è naturalmente la risposta di Scheler. Ma perché? La qualità di valore non è tale perché a me pare tale (questo sarebbe soggettivismo, relativismo, nominalismo etico). Buono in sé per me non vuol dire “buono in se stesso perché così pare a me”. Potremmo dire: quel “per me” non è una specificazione epistemologica – lo so io che è bene, ma non lo sai tu – ma è una specificazione ontologica. Scheler scrive che qualcosa è “buono in sé” proprio nel senso di “indipendentemente dalla circostanza che io lo sappia o no”, perché è questa l’implicazione di “in sé”. “In sé” vuol dire precisamente indipendentemente dalla mia esperienza. Qui Scheler ribadisce la sua tesi realistica in materia di valori: “in sé” è la formula del realismo.
    A questo punto, possiamo cominciare a comprendere la compatibilità di questo realismo con l’idea del compito assegnato a me. Non a tutti è dato fare le stesse scoperte, e produrre le stesse realizzazioni assiologiche. Il mondo dei valori, dice Scheler, si presenta a ciascuno – o almeno c’è questa possibilità, se non è soffocata dalla mancata fioritura della persona – come carico di un particolare richiamo personale: “Questo è per te”. «Ma, inoltre, è il bene in sé “per me” nel senso che in questo specifico contenuto materiale del bene in sé c’è, a volerlo descrivere, un rinvio a me stesso, quasi un dito puntato che esce da questo contenuto e indica me, come se mi sussurrasse: “per te”» [21]. Si noti la finezza della descrizione fenomenologica, il suo essere vividamente intuitiva. In sede di conclusione di questa riflessione è forse più chiaro il senso del suo inizio – con la parabola kafkiana dell’uomo di fronte alla Legge.

    10. Una posizione unica nel cosmo morale

    «Questo contenuto mi assegna una posizione unica nel cosmo morale, e, secondariamente, mi ordina azioni, atti, opere che sembrano dire: “io sono per te” e “tu sei per me”».
    Questa conclusione caratterizza la personalità di una persona come qualcosa che è veramente comprensibile a partire dalla sua destinazione. Il concetto di “destinazione” si oppone a quello di “destino” – che è il concetto di quel tanto di determinato che le circostanze date della mia vita e del mio carattere impongono alla mia vita. Nel destino è quella che Martin Heidegger chiamerebbe la mia fatticità e la mia Geworfenheit, il mio “essere gettato” nel mondo, il mio essere qui, “da”. In effetti una parte importante della sezione sulla persona nei contesti etici è dedicata alla distinzione fra carattere e personalità. Carattere sta a destino come personalità sta a vocazione. Fra i due è lo scarto della libertà, di cui Scheler dunque abbozza una teoria profondamente innovativa. La libertà della persona è il suo spazio d’azione fra destino e vocazione. Per concludere dunque la nostra esplorazione della monadologia scheleriana e del concetto di individualità del mondo personale, dobbiamo passare per un chiarimento di questa differenza.
    «Ogni profonda valutazione morale di un’altra persona consiste precisamente nel fatto che non commisuriamo le sue azioni né a norme di validità universale, né ad un’immagine ideale aleggiante dinanzi a noi, ma bensì ad un ideale che ci siamo formati ricavando dalla centrale comprensione della sua essenza individuale le intenzioni fondamentali della sua persona e riunendole in una concreta ed intuitiva immagine del suo valore ideale: a questa immagine appunto misuriamo le sue azioni empiriche» [22]. Qui il concetto da sottolineare è proprio quello di “essenza ideale di valore di una persona” (Ideale Wertwesen). Questa è per così dire la persona nella luce della sua vocazione, o la persona sullo sfondo della sua destinazione. Vale a dire di quella «unicità della sua posizione nel cosmo morale» in cui la vocazione la pone.
    Scheler prosegue la sua analisi fenomenologica riscontrando che è in primo luogo quella comprensione dell’originalità più profonda della persona, che acquistiamo mediante l’amore per lei, a permetterci di vedere questa sua ideale essenza di valore individuale.
    «Questo intelletto d’amore è il grande artefice e (come nella bella e profonda immagine del celebre sonetto di Michelangelo) il grande artista plastico che dalla folla dei dati parziali empirici (e talvolta solo da un’azione, o da un solo gesto espressivo) riesce a trarre le linee dell’essenza di valore della persona. Ci sono dunque anche essenzialità che si manifestano solo in un individuo. Per questo ha senso parlare di un’essenza individuale e di un’essenza di valore individuale di una persona» [23].
    Questa essenza di valore di tipo personale e individuale è ciò cui Scheler si riferisce parlando di “salvezza personale”. Non c’è, per la persona, una salvezza che non sia “la sua”, vale a dire ancora una volta la sua “destinazione” e la sua “essenza di valore”, il suo compito e la sua propria libertà. «Questa esperienza vissuta di un obbligo che è il mio – indipendentemente dal fatto che lo condivida o no con altri, che sia riconosciuto da altri, che addirittura possa essere riconosciuto – si fonda già sull’esperienza (Erfahrung) della mia essenza di valore individuale [individualen]» [24]. La conoscenza di sé è data in definitiva attraverso la comprensione del compito che la mia essenza forma. È un’intuizione del mio possibile. La stessa che altri, che mi amano, possono avere di me, o che possono avere molto meglio. D’altra parte, l’amore stesso, in ogni sua forma, può essere così “veggente” in quanto, con le parole di Scheler «ogni amore è un amore di Dio ancora incompiuto, soprattutto addormentato, stupefatto, in qualche modo fermato sul suo cammino» [25].
    Siamo arrivati il più vicino possibile alla comprensione dell’ardua tesi scheleriana sul “bene in sé per me”. Alla base di questa tesi c’è l’idea che ognuno acceda alla conoscenza e all’azione solo in dipendenza del tipo di valori ultimi – cioè in ultima analisi di valori della persona – che risvegliano il suo amore per il mondo. Nella luce di questo il mondo è visto da ciascuno sotto l’aspetto della sua propria destinazione, o del compito di realizzare beni (o levare mali) che era proprio lui “destinato” a portare al mondo.

    Appendice 1: Lo schema dei rapporti tipici fra filosofia e religione

    Appendice 1

    Appendice 2: La leggenda dell’uomo davanti alla Legge (Franz Kafka) [27]

    Davanti alla legge sta un guardiano della porta. A questo guardiano si presenta un uomo che viene dalla campagna e chiede di poter accedere alla Legge. Ma il guardiano della porte gli dice che adesso non può concedergli l’accesso. L’uomo riflette e poi chiede se potrà entrare in seguito. «È possibile», dice il guardiano, «ma non ora». Poiché la porta che conduce alla legge è aperta come sempre e il guardiano si mette in disparte, l’uomo si china per spiare all’interno attraverso la porta. Quando il guardiano se ne accorge, ride e dice: «Se ti attira tanto, prova pure a entrare nonostante il mio divieto. Ricordati, però: io sono potente. E sono soltanto il guardiano della porta inferiore. C’è un guardiano davanti ad ogni sala, e ognuno è più potente dell’altro. Io stresso non riesco a sostenere la vista del terzo». L’uomo di campagna non si era aspettato simili difficoltà, la legge dovrebbe essere sempre accessibile a tutti, pensa, ma dopo aver osservato meglio il guardiano in cappotto di pelliccia, il suo grande naso appuntito, la barba nera, lunga e sottile, alla tartara, decide che preferisce aspettare il permesso di entrare. Il guardiano gli dà uno sgabello e lo fa sedere a lato della porta. Lì resta seduto per giorni e anni. Fa molti tentativi per entrare e stanca il guardiano con le sue suppliche. Il guardiano lo sottopone spesso a piccoli interrogatori, gli chiede del suo paese e di molte altre cose, ma sono domande poste con indifferenza, alla maniera dei grandi signori, e alla fine gli dice sempre che non può ancora farlo entrare. L’uomo, che per il viaggio si era equipaggiato con molte cose, le usa tutte, per quanto preziose, al fine di corrompere il guardiano.
    Questi accetta ogni cosa, ma tutte le volte dice: «Lo accetto solo perché tu non creda di aver trascurato qualcosa». Durante tutti quegli anni l’uomo osservò il guardiano della porta quasi ininterrottamente. Dimentica i guardiani delle altre porte e questo primo gli appare come l’unico impedimento al suo ingresso nella legge. Nei primi anni maledice quella fatalità a voce alta, più tardi, quando invecchia, si limita a brontolare fra sé e sé.
    Rimbambisce, e poiché nell’annosa osservazione del guardiano della porta ha imparato a riconoscere perfino le pulci nel suo collo di pelliccia, prega anche le pulci di aiutarlo a far cambiare idea al guardiano. Infine gli si indebolisce la vista, e non sa se intorno a lui si fa davvero buio o se sono i suoi occhi ad ingannarlo. E tuttavia ora riconosce nel buio un bagliore che erompe inestinguibile dalla porta della legge. Ormai non vivrà più a lungo.
    Prima di morire, tutte le esperienze fatte nel corso del tempo si riuniscono nella sua mente in una domanda che fino ad allora non aveva ancora posto al guardiano della porta. Poiché non riesce più a sollevare il suo corpo che si sta irrigidendo, gli fa un cenno con la mano. Il guardiano deve chinarsi profondamente su di lui, perché la differenza di statura si è modificata molto a svantaggio dell’uomo. «Che cosa vuoi ancora sapere?», chiede il guardiano, «sei insaziabile». «Tutti aspirano alla legge», dice l’uomo, «com’è che in tanti anni nessuno oltre a me ha cercato di entrare?». Il guardiano riconosce che l’uomo è arrivato alla fine, e per raggiungere il suo udito ormai quasi spento lo investe gridando: «Nessun altro poteva ottenere il permesso di entrare qui, perché questo ingresso era riservato a te. Ora vado a chiuderlo».


    NOTE

    1 Un ringraziamento a Marco Trevisanut e a Giuseppe Di Salvatore per il loro prezioso aiuto in fase redazionale.
    2 M. Scheler, Ordo amoris, trad. di E. Simonotti, Morcelliana, Brescia 2008, p. 69.
    3 M. Scheler, “Rivalutare le virtù”, in Il valore della vita emotiva, a cura di L. Boella, Guerini, Milano 1999, p. 172.
    4 E. Husserl, Storia critica delle idee (1923-1924), Guerini, Milano 1989, p.10.
    5 M. Scheler, “L’essenza della filosofia” (1921), in L’eterno nell’uomo, a cura di P. Premoli De Marchi, Bompiani, Milano 2010, p. 237 (traduzione lievemente modificata).
    6 J. Héring, Fenomenologia e religione (1925), trad. di G. Di Salvatore, Edizioni Fondazione Centro Studi Campostrini, Verona 2010.
    7 E. Stein, Vie della conoscenza di Dio. La „teologia simbolica“ dell’Areopagita e i suoi presupposti nella realtà (1942), trad. di F. De Vecchi, con un saggio di R. De Monticelli, Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 2008.
    8 M. Scheler, Phänomenologie und Erkenntnistheorie, in Schriften aus dem Nachlass, I: Zur Ethik und Erkenntnislehre, Francke, Bern 1957, traduzione mia; cfr. Fenomenologia e teoria della conoscenza, in Scritti sulla fenomenologia e l’amore, a cura di V. d’Anna, Franco Angeli, Milano 2008, pp. 56-57.
    9 Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 94, a. 1.
    10 L’eterno nell’uomo cit., p. 158.
    11 R. Otto, Il sacro, in Opere, a cura di S. Bancalari, Serra, Pisa-Roma 2011. L’edizione italiana fu pubblicata per la prima volta nel 1926 nella traduzione di Ernesto Buonaiuti, che doveva poco dopo vedersi sottratta, in base ai Patti Lateranensi, la docenza nell’Università pubblica.
    12 M. Scheler, “Pentimento e rinascita”, in L’eterno nell’uomo cit., p. 169.
    13 Nicolò da Cusa, Il dio nascosto, trad. di N. Parinetto, Marcos y Marcos, Milano 1983.
    14 M. Scheler, L’eterno nell’uomo cit., p. 399.
    15 Id.
    16 Ibid., p. 409.
    17 M. Scheler, “Le forme del sapere e la Bildung” (1927), in La Bildung ebraico-tedesca del Novecento, a cura di A. Kaiser, Bompiani, Milano 1999, p. 182.
    18 Cfr. Fenomenologia e religione cit., p. 14.
    19 M. Scheler, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori (1913-1926), trad. G. Caronello, San Paolo, Milano 1996, p. 600.
    20 G. Simmel, La legge individuale (1918), trad. di F. Andolfi, Armando, Roma 2001.
    21 M. Scheler, Il formalismo cit., p. 600.
    22 Ibid., p. 598.
    23 Id.
    24 Ibid., p. 599.
    25 Ordo amoris cit. p. 69.
    26 Che è poi quella che Marco Vannini chiama “la religione della ragione”: «Mistico non è affatto il misterico, misterioso, esoterico – cioè, in ultima analisi, il mistificatorio – bensì il razionale puro, il logico pienamente dispiegato, ben oltre la povertà del ragionare condizionato da un fine – ossia da una passione, da un legame» (La religione della ragione, Bruno Mondadori, Milano 2007, p. 89).
    27 Cfr. Il processo, trad. di L. Longato, Giunti, Firenze 2006, pp. 291-293. Pubblicata originariamente nel 1915 sulla rivista Selbstwehr.

    (FONTE: Fogli Campostrini Rivista online della Fondazione Centro Studi Campostrini ‐ Verona; Vol. 1 ‐ Anno 2012 ‐ Numero 1 Quale esperienza per la filosofia della religione?


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