L'esercizio
della prassi teorica
Rossella Fabbrichesi
Nell'autunno del 2013, a Milano, ho vissuto insieme ai miei studenti un'esperienza seminariale mirata a una riflessione sulla "pratica filosofica". Volevo in particolare che ogni partecipante si interrogasse sulla prassi che esercita quando si dedica al "far filosofia". E questo in effetti è avvenuto, dando vita a pensieri e idee che, in buona misura, trovano eco nelle pagine di quest'ultima parte del volume. Ma è avvenuto anche qualcosa di più e di diverso. I miei studenti hanno espresso un bisogno impellente di discutere il senso della propria scelta di studiare filosofia, di privilegiare questa disciplina tra le altre, spesso sfidando dubbi e critiche nell'ambito delle rispettive cerchie familiari e sociali. In breve, il laboratorio si è tramutato in una sorta di seduta di autocoscienza collettiva. Lo schema delle lezioni è saltato e le prime risposte che ho avuto dagli studenti, in merito al tema che dava il titolo all'incontro – che mi attendevo banali e immediatamente da riorientare –, erano invece già molto elaborate, profonde, sorprendenti.
Ho compreso che uno studente di filosofia spesso non sa bene quel che sta facendo studiando la propria materia, ma ha un disperato bisogno di capirlo, di metterlo in questione, di alzare la testa dai libri e di osservarsi mentre sta esercitando quella pratica molto particolare che è la frequentazione della pura teoria (l'incontro ravvicinato con forze "extraterrestri", come ha detto qualcuno). È la sua passione che lo spinge e lo guida. Spesso fare filosofia significa proprio riuscire a spiegare le ragioni di questa passione e il ruolo che la filosofia continua a mantenere, nonostante tutto, nel tempo presente.
Ecco allora che, affidati solo ai nostri interrogativi, ci siamo trovati in mare aperto: gli interventi si sono fatti continui e vivaci, le discussioni intorno agli scritti prodotti dai partecipanti si sono moltiplicate e si sono riversate nel testo che segue, un testo polifonico, composto collettivamente e dunque anonimo, che – sottoposto via via all'approvazione di tutti – ci comprendeva ma anche, in un certo senso, ci sfuggiva. Ci accompagnava e continuamente ci precedeva, quasi che acquisisse vita e procedesse dove voleva lui e non tanto dove decidevamo noi. Diciamo che le osservazioni fissate in queste pagine rappresentano una sorta di respiro comune che si è liberato in quell'aula (come ha notato una di noi) o anche, come ha detto qualcun altro, un vero esperimento con la verità, alla greca – "Koina ta ton philon" ("Le cose degli amici devono essere comuni"). Ogni studente vi ha ritrovato qualcosa di sé, scritto o detto, ma, soprattutto, l'ha potuto osservare di nuovo plasmato dal lavoro comune. Non voglio intendere con questo che fossimo tutti d'accordo sulle spiegazioni che si è cercato di dare. Il testo riflette, credo, due o più anime che si sono palesate negli incontri. Per semplificare dirò: un'anima più orientata in senso critico-trascendentale, e un'anima maggiormente fedele agli insegnamenti genealogici. Ma identica è stata per ognuno, mi sembra, la disponibilità a mettere a nudo le proprie esitazioni, i propri disagi: non per guadagnare certezze, se mai per permettere agli altri di disorientarlo maggiormente. Però, nel "tepore" dell'aula, riconquistando nel dialogo l'orgoglio di essere "amici del sapere". E l'insegnante, lo posso assicurare, era solo una voce di questa variegata polifonia e ha forse appreso più di quello che ha saputo trasmettere.
Si vedrà che il lavoro è diviso in due parti, corrispondenti ai tentativi di risposta offerti alle due domande che erano state poste: cosa si fa quando si esercita la pratica filosofica? E cosa faccio io, personalmente, quando faccio filosofia?
COSA SI FA QUANDO SI FA FILOSOFIA?
"Cosa si fa quando si fa filosofia?" è una domanda che a prima vista non ha nulla di speciale, e possiamo rispondere in modo molto semplice: "Lo si chieda a uno studente di filosofia!". La questione sembra morire qui; qualcuno, cioè qualcun altro che non sono io, darà la risposta, così come qualcun altro ci saprà dire quali passaggi eseguire, per esempio, per costruire una sedia o per fare un trapianto cardiaco, e ci sentiamo soddisfatti. Io non so, ma qualcun altro sa, lo specialista competente, e siamo soddisfatti perché qualcuno penserà al posto mio, qualcuno farà al posto mio. Visibilmente non è questo però il caso, e anzi la risposta non ci soddisfa: in qualche modo (ma quale modo poi?) speravamo che qualcuno ci potesse dire qualcosa di meglio. Speravamo, insomma, che qualcuno ci indicasse una serie di procedure, o almeno una via in cui cercare, un indizio! E invece nulla. Ci pare di aver perso tempo, di dover ricominciare da capo. Mormoriamo: "Speriamo di non aver perso troppo tempo..." e subito, di nuovo, domandiamo: "Cosa si fa quando si fa filosofia?". Giornata strana, oggi, in cui una domanda che viene così di rado sollevata viene posta per ben due volte. Ecco, un indizio: è una domanda fuori dal normale e per questo, dunque, crediamo di dover più volte sbagliare sentiero, e poi ricominciare, da capo. Lo abbiamo già fatto, non è una tragedia. Dunque, di nuovo: "Cosa si fa quando si fa filosofia?". Abbiamo detto che è una domanda strana, ma perché? Perché viene posta poco. Ma un sacco di altre domande son poste di rado e nessuno si stupisce, o le considera domande strane.
(M.F., studente di filosofia, 20 anni)
1. La filosofia nasce come luce che si accende dallo scoccare di una scintilla, scrive Platone nella Settima Lettera. Ma ognuno di noi sa che la riflessione filosofica è pure assolutamente priva di scintille, fatta com'è di successive stratificazioni di altre filosofie e altri pensieri, sedimentatisi nel tempo e nei manuali scolastici, che abbiamo incorporato e che forniscono il materiale da accatastare e far bruciare per scaldarsi alla fiamma dell'amore per il sapere". La filosofia, oltre a essere scintilla, è cenere spenta di altri fuochi, che pur continuano sotterraneamente ad ardere e alimentano nuove lingue scintillanti.
Il filosofo è l'artificiere (Foucault) che permette alla scintilla di scoccare.
2. La filosofia nasce dagli incontri – incontri con maestri appassionati che conducono a "far vedere le idee" (Goethe), incontri che producono relazioni che si intrecciano nel dialogo vivente e nel contatto tra i corpi concettuali. Oggi essa è accesa dall'interruttore situato nell'aula accademica e nei suoi corridoi (nei cortili, nelle piazze, nei sottoscala?) dove si discute il "perché" degli eventi. Quasi mai dalla solitudine della lettura, dal rivolgersi a se stessi con mute interrogazioni.
3. La filosofia non si apprende (sempre Platone: "Essa non è comunicabile come le altre conoscenze"). Non si trasmette la filosofia se non come un virus, un contagio. Ci si fa "impregnare" di filosofia: si accoglie un seme e lo si fa crescere, dando vita a una creatura che assomiglia al padre e alla madre, al proprio "direttore spirituale" (autore o professore che sia) e a se stessi. Solo dopo "lunghe discussioni e comunanza di vita" si può dire avviata la pratica filosofica. Essa consiste nel mettere in comune una domanda, un pensiero. La filosofia è "luogo comune", o non è.
4. La filosofia è se-duzione e sug-gestione. "Porta con sé", attrae e sottomette, "porta sotto", nel profondo di una caverna che apre su un'altra caverna e su un'altra caverna... Il filosofo è un "tentatore" (Nietzsche), che procede miseramente per tentativi, senza mai arrivare a casa. Cosa ci tenta e ci avvince nel pensiero teoretico? Ognuno di noi sente una vera e propria attrazione verso una serie di problemi: non siamo noi a sceglierli, sono loro a suscitare il nostro desiderio di conoscerli. È il domandare ("Il domandare è la pietà del pensiero", Heidegger) che ci seduce. Alcune domande sono esche, a cui rimaniamo impigliati.
5. La filosofia è una lunga serie di domande: è come un bambino piccolo che pone ogni genere di interrogativo, senza risultare mai convinto da alcuna risposta, e che torna ancora e sempre a rivolgere le stesse domande. Ricorda di non credere, scriveva Nietzsche. Interrogati sulle domande che poni, esercitati a prendere distanza dalle ovvietà. La filosofia è un esercizio (una askesis, direbbe Foucault) che ha la capacità di allontanarsi dalla vita quel poco che basta per chiedersi il suo "perché".
Essa è dunque inesausta domanda sulla domanda, domanda che crea altre domande. Il filosofo in questo senso è anzitutto un uomo "sospettoso", che esercita opposizione ai saperi costituiti e si difende dalla superstizione. Come? Anzitutto compiendo una ricerca genealogica delle pratiche che ci avviluppano, assoggettandoci e soggettivandoci così come siamo (Foucault, Sini). La filosofia educa a un'ortopedia posturale, ma anche a sopportare un certo contorsionismo, linguistico e intellettuale. Abitua a esercitare uno sguardo strabico sul mondo, a contraddirsi e a non dolersene (con buona pace di Aristotele...).
6. La filosofia è critica. Pratica critica applicabile a tutti i campi del sapere. E dunque anche a se stessa. "Autocoscienza della volontà di verità", scrive Nietzsche. "Lavoro critico del pensiero su se stesso", dice Foucault. "Sapere aude" , proclama Kant – e l'accento cade più sull'osare che sul sapere. E azzardandosi sempre più in là, oltre i limiti, la filosofia è giunta alla propria auto-dissoluzione. Essa è oggi l'unica "arte" che insegna a morire (o a vivere preparandosi a morire – a far morire le proprie idee e convinzioni). Per questo, forse, più che parlare di "morte della filosofia", si dovrebbe riattivare il suo più antico insegnamento: "Melete thanatou" ("Curati del trapasso").
7. La filosofia è un grande tentativo di iscrizione di senso. Che nasca dalla meraviglia aristotelica o dall'orrore nietzschiano, essa cerca un senso allo scorrere dell'esistenza, cerca di dare forma all'informe, di esprimere in figura l'evento dell'accadere (Sini). Ma come riesce a farlo, quando lo fa? Quando transita dai discorsi sul vero ai gesti operanti nel vero (ai gesti parresiastici, Foucault). Quando i pensieri divengono azioni e trasformazioni, anche politiche (Marx). La filosofia non è solo interpretazione del mondo, ma modificazione: di sé e del mondo. Anzi, la trasformazione è l'unico luogo in cui si attui l'interpretazione. In questo senso, come volevano i maestri greci, la filosofia è inscindibile dalla politica, che resta il suo luogo elettivo. Possiamo allora scrivere che il filosofo è un partigiano, cioè qualcuno che cerca la sua parte, la sua posizione (ferma! È vero che la ricerca non si esaurisce mai, ma noi filosofiamo anche per arrivare a una roccia solida dopo un lungo nuotare). Il filosofo "prende posizione" e in questo collocarsi politico – nella polis, nella comunità – svolge la propria azione. Azione che lo pone sempre in pericolo: dire la verità irrita ed espone a rischi (Foucault). Il filosofo è inevitabilmente condotto a scontrarsi con il potere, a ripetere il gesto platonico del recarsi a Siracusa, per fuggirne disgustato. Egli è condannato all'esilio, la sua "parte" è quasi inevitabilmente lo stare in "disparte". Perché il filosofo rischia sempre l'accusa di empietà? Qual è il rapporto tra filosofia e politica? Che fare, "in pratica", facendo filosofia?
8. La filosofia, quando è veramente efficace, non è un sapere, ma una forma di vita. Si esibisce, non si dice. Nel far filosofia cí si "mette in opera", si dà forma alla propria vita (Foucault), si adotta una postura etopoietica volta a figurare in modi via via diversi il proprio ethos (comportamento, ma anche temperamento). Nulla di più lontano da un atteggiamento riflessivo-contemplativo. La filosofia cura le idee, ma le idee divengono potenti forze trasformatrici dell'esistente, quando risultano "vere" (cioè quando hanno effetti pratici osservabili). Per questo ha sempre impaurito i potenti: perché le pratiche che sono seguite ad alcune "visioni del mondo" (innestate anch'esse da pratiche peculiari, vedi Socrate o Galileo) hanno effettivamente cambiato il modo di vivere di migliaia di uomini, sovvertendo quello precedente. La filosofia è l'unica disciplina in cui chiedersi cosa si sta facendo mentre si fa filosofia significa, ancora, fare filosofia. Un falegname che spiega come fa le sedie non fa il falegname, ma insegna una pratica. La pratica della filosofia risiede invece primariamente nella serie di domande che ne interrogano il senso: essa attira lo sguardo su di sé, non sugli oggetti che tratta. Qualsiasi "introduzione alla filosofia" è già filosofia in atto. Di essa non si può dire cosa sia (provate a spiegare a un pizzaiolo egiziano cos'è la filosofia) ma solo esibire come essa proceda. Date esempi di lavoro filosofico, direbbe Wittgenstein. Mostratela nelle sue operazioni fungenti, esorterebbe Husserl: l'interpellanza socratica, il questionare medievale, la lettura dei classici in età rinascimentale, la trattatistica e l'epistolario moderno... Si tratta di pratiche, intrecciate ad altre pratiche.
9. La filosofia è inesausta azione di ri-creazione, ri-scrittura, di ((esercizio alla sbarra" (Sini), allenamento e ginnastica mentale. È volontà di andare al fondo dei problemi – il che è di grande difficoltà, perché, come scrive Wittgenstein, pensare è come nuotare, e se cerchiamo di penetrare il filo dell'acqua, la forza delle correnti ci risospinge alla superficie. Come un bravo nuotatore, il filosofo compie un movimento di andata e ritorno, in su e in giù: ritorna su quanto è stato detto prima di lui, ritessendo la tela. E con i problemi più profondi si comporta come con l'immersione nell'acqua gelida: subito dentro, subito fuori (Nietzsche).
10. La filosofia inaugura una prassi molto affine a quella teatrale (d'altronde vi erano strette relazioni nell'antica Grecia fra tragedia e nascita della filosofia). In entrambe si lavora a modellare il sé, ci si guarda mentre si guarda e si agisce, mentre si lavora in comune con altri. L'esercizio teatrale e quello filosofico producono dei "soggetti" fluidi, connettivi, doppi, interpretanti, che non hanno altro luogo di esibizione che quello della scena collettiva. Rispecchiamento nell'altro e rimbalzo su di sé: creta che si modella di prova in prova. Come insegna poi il teatro dell'assurdo, la rappresentazione mira a disorientare, a mettere a disagio lo spettatore, ponendolo di fronte alle sue placide ovvietà e capovolgendone il senso. In tal modo, si può dire che ogni vera filosofia è teatrale. Ci sono filosofi attori e filosofi spettatori (Bergson). La "vera" filosofia è mettere in atto, è dramma (da drao, "fare"), è azione scenica. È esibire "in pratica" un pensiero. La filosofia dovrebbe perciò imparare dal teatro contemporaneo a ridivenire azione corporea e posturale, arte "dinamica". E ritrovare la propria originaria funzione "e-vocativa": teatro e filosofia condividono una fortissima inclinazione alla vocalità. E dovrebbe imparare dall'arte a non essere assertiva: a farsi guidare leggiadramente nella scelta dei colori e delle forme in cui figurare i pensieri.
11. La filosofia è anche, in altro senso rispetto a quello socratico, un non sapere, un sapere inutile, in un mondo orientato a conferire valore soltanto a ciò che ha utilità effettiva, calcolabile e spendibile. Esercitandola, evitiamo di ridurre il pensiero a mezzo, finalizzato al conseguimento di un qualsivoglia risultato – pensiero cosalizzato, reificato, dunque snaturato. Se si riduce la filosofia a "scienza" essa non reggerà mai il confronto con le altre discipline scientifiche, perché, appunto, non è un sapere specialistico e mirante al risultato, non è "strumentale", né comunicabile tramite una propedeutica universalmente accettata. La filosofia non può consegnare "prodotti" di ricerca come se si trattasse di merci, né ha alcun preciso valore d'uso. Il suo "buon uso" però produce effetti, effetti di verità. Essa non progredisce, come le altre scienze, torna sempre sulla "cosa stessa" (Heidegger). È pratica senza meta e senza pragmata apparenti. Ma si può dare il concetto di una prassi "inutile"? Di una prassi ben poco "pratica"? Esercitandola, che esercizio esattamente compiamo? Ed è possibile affrancarsi, facendo filosofia, dall'idea di fare, di produrre qualcosa di utilizzabile (un testo, un lavoro, un discorso)? Se è vero, come dicevamo prima, che la trasformazione (prassica) è la vera forma di interpretazione, il nostro esercizio, facendo filosofia, è quello di mutare forma ai pensieri e dunque al senso di ciò che compiamo.
12. La filosofia va dunque interpretata come etica, nel senso etimologico della parola: essa impone un ethos cui rimanere fedeli, nel logos e nel bios. In filosofia ricerchiamo infatti non il vero assoluto, ma il vero cui possiamo dare la nostra fiducia, un vero in cui credere perché ci appare coerente, perché comporta conseguenze feconde all'interno del nostro sistema di credenze e comportamenti (un vero che sia tale in relazione ai nostri abiti di risposta, e non in modo assoluto). Già lo scriveva Kant, delineando i confini della sua antropologia pragmatica: dobbiamo riuscire a transitare dalla domanda teoretica "Cosa posso sapere?", a quella etica "Cosa devo fare?", e, infine, a quella più propriamente antropologico-esistenziale "Cosa mi è lecito sperare?". La filosofia resta ancor oggi a guardia della speranza.
E IO, COSA FACCIO QUANDO FACCIO FILOSOFIA?
1. Mi trasformo, via via che i pensieri dei filosofi trasformano la mia concezione del sapere. Mi piace, maneggiando le idee dei grandi filosofi, diventare un supporto per il transito della "vita eterna" (Sini) della conoscenza, che non risulta mai uguale a se stessa, ma è fluida come il materiale che circola nella sua linfa.
2. Riorganizzo e posiziono i volumi al centro di un'ipotetica biblioteca del pensiero: i volumi sono concetti depositati, non sempre ordinatamente, sul tavolo della memoria, e il tentativo è quello di attribuire loro un ordine o una possibilità di reperimento. La filosofia è però, a volte, un deposito pericolosamente entropico... Fare filosofia è come "mettere ordine in una stanza" (Wittgenstein).
3. Svolgo un lavoro di orientamento, come fossi un topografo o un costruttore di mappe. Delineo uno spazio d'azione, il quale viene sondato e fatto oggetto di una rappresentazione. Traccio delle odoi, o methodoi, e, come una guida, insegno a chi mi ascolta come orientarsi all'interno di edifici dalle architetture bizzarre. Nel contempo, la filosofia mi disorienta, mi conduce sull'orlo di autentiche voragini, mi fa precipitare nel vuoto.
4. Quando faccio filosofia converto il mio sguardo, muto l'atteggiamento, la postura con cui osservo i problemi. Dico "può essere così, ma anche così" (Wittgenstein). Esercito l'arte del possibile. E del passo di lato. Come Socrate, interrogo le banalità del senso comune, fungo da tafano che pungola il cavallo della polis, costringendolo a un'inquietudine permanente.
5. Quando faccio filosofia non so cosa sto facendo. Ho molte domande, ma quasi nessuna risposta. So di non sapere – e mi rispecchio in Socrate. Ma la filosofia mi educa a indagare, e a scovare quello che non sapevo di sapere. In questo senso, come per Epitteto, essa è terapia. Lo studio del filosofo (l'aula dove ci incontriamo?) è un ambulatorio dove trovo "calore". Ma un ambulatorio che non sempre guarisce. Spesso procura angoscia e spaesamento.
6. Fare filosofia mi costringe a ragionare sugli eventi, approfondendone le cause, mi autorizza a ritornare sui miei passi per mutare il percorso, mi illude che, viste in altro modo, le cose possano essere accettate per come sono, perché il significato che ne emana è cambiato di pari passo con la mia comprensione. Facendo filosofia cresco procedendo per sottrazioni, non per accumulazioni; per eliminazioni, non per aggiunte. Non mi completo, ma mi incompleto. Non scelgo, ma sono scelta.
Così, la filosofia è prassi creatrice (di valori e di concetti nuovi; ogni vero filosofo è legislatore, dicevano Platone e Nietzsche) e de-costruttrice (di valori e di concetti atavici, intesi come idoli).
7. Quando faccio filosofia, studiando i passati autori, divento il filosofo che amo. Io sono Nietzsche, Heidegger o Foucault; mi immedesimo in loro, parlo come loro, esattamente come facevano i Greci ripetendo i versi immortali di Omero. In questo senso la filosofia non è creazione, né decostruzione, ma mera mimesis, ripetizione variata di quel che, dall'inizio, troviamo nelle scritture dei molti pensatori che ci hanno preceduto. E nelle parole dei maestri. Ognuno di noi, facendo filosofia, più che inventare pensieri nuovi, ripete, fa vibrare secondo tonalità inedite ciò che legge o ascolta. Il che produce nuove vibrazioni e intensità. Immedesimazione nella diversità, invarianza nella variazione continua.
8. Quando faccio filosofia cerco di pormi nelle condizioni di un'azione autentica, che non si limiti a essere il riflesso cieco delle pratiche che mi costituiscono; cerco di imparare a governare i dispositivi che mi assoggettano e mi limitano. Cerco di vivere secondo il logos che ritengo più vero. Come? Esercitando quella che appare una sospensione dell'azione: la critica del mio stesso agire. La sospensione dell'agire quando esso è inevitabilmente conformista. Qui si tratta di una prassi più radicale di qualsiasi azione banalmente "efficace", o utile. Vita contemplativa vs vita activa. O vita contemplativa come forma massima di vita activa.
9. Quando cerco di esprimere un mio abito filosofico, invece di ripetere semplici contenuti dottrinali, esercito una pratica che contagia immediatamente tutte le altre. La filosofia riguarda dunque la mia auto-bio-grafia: facendo filosofia scelgo me stesso, ritraccio la storia della mia vita e, con essa, la storia delle altre vite, degli uomini e delle cose che mi circondano. Ogni filosofia parla di me e delle mie esperienze (di nuovo: io sono i filosofi che leggo; le loro parole formano l'arazzo che compone le figure della mia vita).
ABBIAMO TROVATO UNA RISPOSTA?
Una volta un pizzaiolo egiziano mi chiese cosa studiassi: studio filosofia, gli risposi. Ma quando poi mi chiese che cosa fosse la filosofia, ecco che non fui più capace di rispondergli.
Cercai invano di superare l'immediato imbarazzo, ma non mi uscì nulla di sensato. Men che meno mi riuscì qualcosa di comprensibile da un pizzaiolo egiziano, e pure musulmano. Qualsiasi termine o concetto usassi mi sembrava fatalmente ricadere in una circolarità con ciò che volevo definire: comprensibile solo se si comprendeva già l'orizzonte filosofico, salvo che ciò era proprio quello che tentavo di spiegare.
Un po' scoraggiato, ma rincuorato dal fatto che soluzioni definitive non ne erano state trovate neppure da altri ben più bravi di me, improvvisamente mi accorsi che della filosofia non potevo dire cosa fosse, ma solo mostrarla nel suo operare. Mi parve allora che solo indicandola nella sua pratica si potesse capire cosa sia davvero la filosofia, senza darne un'immagine idealizzata e fittizia; mostrandola nelle sue operazioni, senza trascurare neppure gli aspetti più materiali.
Mi sembrò che lo spiegare che cosa sia la filosofia dovesse equivalere al mostrare come si faccia filosofia: dunque un esercizio sempre e ancora da svolgere, che comprende nel suo compito anche la stessa figura del filosofo con le sue verità.
Ecco che mi ritrovai con una risposta che potevo ritenere soddisfacente: una risposta che però non si può certo dare a un pizzaiolo egiziano che ti chiede qualcosa così per chiedere. Era come se per poter parlare di filosofia bisognasse comunque esser già stati catturati al suo interno, come se già l'iniziare presupponesse l'avere un certo atteggiamento e in qualche modo l'aver già iniziato. Avevo dunque trovato una soluzione, che però non risolveva molto, benché ne fossi contento: una soluzione che mi costringeva a ricominciare tutto da capo.
(S.M., studente di filosofia, 22 anni)
Fino a qui, a ben vedere, abbiamo tentato di dare una risposta alla domanda: "Cos'è la filosofia?" (cioè, come scriveva Heidegger, abbiamo domandato e risposto in modo ancora metafisico). Abbiamo compreso che la filosofia non ha contenuti propri, individuabili con precisione, ma che ogni filosofo o studente di filosofia la declina secondo il proprio particolare vocabolario, ricominciando sempre di nuovo un'avventura dí pensiero. Ancora però non individuiamo bene cosa facciamo quando facciamo filosofia. Si può procedere innanzi?
"Via sulle navi, filosofi! ", scriveva Nietzsche.
Cerchiamo allora di riformulare la domanda in altro modo, secondo un'espressione che già ci orienta in una direzione precisa: "Cosa fa la filosofia, quando è pensiero in azione? Che tipo di esercizio pratichiamo facendo filosofia?".
Ecco alcune risposte possibili che abbiamo individuato.
Si mette alla prova il proprio pensiero: si apprende da altri un modello di esercizio, ma lo si riconfigura in proprio, ripetendolo fino a perfezionarlo, cioè a compierlo e superarlo.
• Si sta all'erta, si prende posizione, si sta in bilico sul ciglio di un crinale, si cerca di osservare quello che sta accadendo e, insieme, di trasmettere ad altri notizia di quel che si vede, sull'una e l'altra sponda.
• Si alimenta la luce del sapere. Esercitando la filosofia, si accetta la sua realtà di fiamma (Eraclito, Platone), che devasta forme ataviche, edifici costruiti nei secoli, e, infine, giunge all'autocombustione. La fiamma purifica, incarna un ciclo: produce una fine e un nuovo inizio. Di ciò che è arso a noi rimangono le ceneri, i resti, le scorie, che non sono rifiuti sterili, ma segni di un processo che, esaurendosi, permette ad altro fuoco di bruciare. L'esercizio filosofico ritorna sempre su di sé, si distrugge e si rinnova, in un eterno ricominciamento.
• Si fa esercizio di testimonianza. Ma non come spettatori passivi; piuttosto come coloro che descrivono e riscrivono l'accadere, palesando con la propria vita e il proprio fare il sapere che incarnano. Si è pronti all'appello della responsabilità (cioè, semplicemente, si prova a rispondere all'appello del presente, assumendosene il carico).
• Si fa esercizio di militanza, ma non come soldati armati, piuttosto come "uno dei mille che si radunano" (così dice l'etimologia della parola): i filosofi sono una nuvola di parassiti che trae nutrimento assaltando un animale ospite. I filosofi sono dei simbionti: solo così sopravvivono – sono sempre sopravvissuti – sulla pelle delle varie culture.
• Si compie un esercizio musicale: una ripetizione modulata e accordata con altri strumenti, una variazione sulla melodia principale.
• Si fa un esercizio di respirazione, molto simile a quello che si svolge facendo certa ginnastica, o certo teatro. Si massaggiano i tessuti, si armonizza il tono corporeo, si sciolgono i "crampi mentali" e ci si regola su un ritmo che mira alla perfetta adeguazione tra interno ed esterno. Ci si allena alla sbarra, come un bravo ballerino, imparando a staccarsene e a volteggiare sul proprio centro. Bisogna irrobustirsi per esercitare "la crudeltà della conoscenza" (Nietzsche).
Se la filosofia può essere vista come una forma di respiro, possiamo concludere dicendo che quando si fa filosofia si ossigenano i muscoli della mente, e si dà fiato al mondo.
Abbiamo detto molto. E spesso in modo contraddittorio. E abbiamo detto poco. Alla fine del seminario ci resta tra le mani non una risposta che metta d'accordo tutti, o che ci comprenda tutti, ma il desiderio di continuare a lavorare: intagliare, formare, modellare, plasmare nuovamente il materiale che si è accumulato a poco a poco nel nostro laboratorio artigianale. Ci lasciamo convinti forse solo di una cosa: la filosofia è lavoro comune su una sostanza pragmatica – synousia peri to pragma – e non questa o quella definizione concettuale.
NOTA
In una forma leggermente diversa, le pagine che seguono sono state pubblicate sulla rivista on-line Mema (www.noema.filosofia.it, 4-2, 2013), con il titolo "Cosa si fa quando si fa filosofia", a cura del Laboratorio di Ermeneutica Filosofica. Ringrazio gli amici di Nóerna per la gentile concessione a utilizzare in questa sede lo scritto.
Ringrazio anche i coautori di questo particolarissimo esperimento teoretico: Giulia Alessandro, Chiara Barbieri, Valentina Bertuccio, Tommaso Bichi, Alessandra Bonacina, Federica Bruschetta, Domenico Carlucci, Alice Carminati, Claudia Casiraghi, Giovanna Maria Dri, Marco Facchin, Giada Fratantonio, Martina Guglielmi, Arianna Jacubowski, Aria Kuqí, Luca Landonio, Delia Lanzone, Miriam Marenghi, Lidia Mazzoli, Stefano Medaglia, Federica Nattino, Giulia Odelli, Ambra Pedrazzini, Gabriele Ravasi, Roberta Roccatagliata, Agnese Tremolada, Federico Vercellini, Giulia Zaina, Eva Zuanazzi. Grazie a Luca Brovelli, che è intervenuto e ha offerto numerosi spunti al dibattito. E un grazie particolare a Eleonora Buono e Michele Mosca: sono le loro riflessioni di studenti "sconcertati" ad aver permesso di iniziare questo cammino.
(Cosa si fa quando si fa filosofia, Raffaello Cortina 2017, pp. 95-107)
INDICE
Premessa
1. Dominare l'orrore
2. Invertire la direzione del pensiero
3. Resistere al presente
4. Esercitare la critica, incarnarla in un'etica
5. Agire la filosofia
6. Praticare il reale
7. Interpellare
8. Incorporare la verità
9. Sperimentare
10. Trasformare
11. Amare la duplicità
12. Smembrare e rimembrare
13. Imparare a gustare
14. Educare all'amore per il sapere
15. Educare all'amore per la vita
Appendice
L'esercizio della prassi teorica