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    La libertà in azione

    Fernando Savater


    L'uomo abita nel mondo. «Abitare» non significa essere inseriti nel repertorio degli esseri che ci sono nel mondo, non vuol dire semplicemente stare «dentro» il mondo come un paio di scarpe dentro una scatola, né avere un mondo biologico come quello del pipistrello o di qualunque altro animale. Per noi umani, il mondo non è semplicemente la struttura globale in cui s'incrociano tutti gli effetti e tutte le cause, bensì la palestra pregna di significato in cui agiamo. «Abitare» il mondo è «agire» nel mondo; e agire nel mondo non vuol dire soltanto essere al mondo, né muoversi in esso e neppure reagire ai suoi stimoli. Il pipistrello e tutti gli altri animali rispondono al loro mondo secondo il proprio programma genetico, tipico delle caratteristiche evolutive delle specie cui appartengono. Gli umani non solo rispondono al mondo in cui abitano, ma lo inventano e lo trasformano in un modo che non è previsto da alcun modello genetico (per questo le azioni degli aborigeni australiani non sono uguali a quelle degli aztechi o dei vichinghi). La nostra specie non è «chiusa» dal determinismo biologico, bensì resta «aperta» creando se stessa senza posa, come ebbe a dire Pico della Mirandola. Quando parlo di «creare», non intendo «tirar fuori qualcosa dal nulla», come un prestigiatore estrae un coniglio dal cappello apparentemente vuoto (dico «apparentemente» perché si tratta di un trucco, di un inganno: illusionismo), bensì voglio dire «agire» nel mondo e a partire dalle cose che in esso ci sono... ma, in certa misura, cambiando il mondo!
    La questione importante, adesso, è determinare che cosa sia l'azione e che cosa significhi agire. Intanto chiariamo che un movimento del corpo non è affatto un'azione: «camminare» non significa «uscire a fare una passeggiata». Dunque, le domande esistenziali cui, conseguentemente, dobbiamo cercare di dare una risposta sono: che cosa significa «agire»? Che cos'è un'azione umana e in che modo si distingue dagli altri movimenti compiuti sia dagli uomini sia dagli altri esseri? Non sarà un'illusione o un pregiudizio immaginare di essere capaci di vere azioni? Non si tratterà, invece, di semplici reazioni rispetto a ciò che ci circonda, influisce su di noi e ci costituisce?
    Supponiamo che io abbia preso un treno e pagato il biglietto. Durante il viaggio, sono distratto, penso agli affari miei, senza rendermi conto che sto giocando con quel cartoncino che accartoccio e torno a distendere finché alla fine lo getto distrattamente dal finestrino aperto. Ecco allora che arriva il controllore e mi chiede il biglietto: desolazione! E probabile multa. Per scusarmi, riesco solo a mormorare: «L'ho buttato... senza rendermene conto». Il controllore, anche lui un po' filosofo, commenta: «Beh, se non si è reso conto di quello che stava facendo, non si può dire che lo abbia buttato via. È come se le fosse caduto». Tuttavia, io non sono disposto ad accettare questo alibi: «Mi scusi, ma una cosa è che il biglietto mi sia caduto e un'altra è averlo buttato dal finestrino, anche se l'ho fatto senza volerlo». Il controllore sembra divertirsi di più con questa discussione che con la possibilità di appiopparmi la multa: «Senta, 'buttar via' il biglietto è un'azione, qualcosa di diverso dal fatto che possa caderci, che è soltanto una cosa che capita. Quando si compie un'azione è perché si vuole compierla, no? Invece, le cose capitano senza che Io si voglia. Dunque, visto che lei non intendeva tirare il biglietto dal finestrino, possiamo dire che in realtà le è caduto». A questa interpretazione meccanicistica, mi ribello: «No e poi no! Potremmo dire che il biglietto mi è caduto se mi fossi addormentato, per esempio. O magari se una raffica di vento me lo avesse strappato di mano. Ma io ero ben sveglio, non c'era vento e la verità è che ho buttato via il biglietto senza volerlo». «Appunto! – dice il controllore, battendo la penna sul suo blocchetto – E se non voleva, come fa a sapere che è stato proprio lei a gettarlo dal finestrino? Perché 'gettare via' una cosa significa fare qualcosa, e non si può fare qualcosa se non lo si vuole». «Allora, sa cosa le dico? Che ho buttato via quel maledetto biglietto perché mi andava di farlo, ecco!». Multa immediata.
    La verità è che c'è una differenza fra ciò che semplicemente mi accade (rovescio un bicchiere sul tavolo, mentre prendo il sale), quel che faccio senza rendermi conto e senza volerlo (il famoso biglietto buttato dal finestrino!), ciò che faccio senza accorgermene, ma seguendo una routine volontariamente acquisita (infilarmi le ciabatte quando mi alzo dal letto, mezzo addormentato) e ciò che faccio consapevolmente e volutamente (come buttare quel rompiscatole di controllore dal finestrino perché si vada a cercare il suo biglietto). La parola «azione» è un termine che sembra calzare solo all'ultima di queste possibilità. Naturalmente, esistono anche altri gesti di difficile classificazione, ma che però tutto sembrano meno che «azioni»: per esempio, chiudere gli occhi e alzare un braccio quando qualcuno mi tira qualcosa in faccia, o cercare un appiglio cui aggrapparmi quando sto per cadere. No, un'«azione» è decisamente ciò che non avrei fatto se non avessi voluto farlo; chiamo azione un atto volontario. Insomma, il «defunto» controllore aveva proprio ragione...
    Ma come si fa a sapere se un atto è volontario o no? Forse perché prima di compierlo, scelgo fra varie possibilità e infine mi decido per una di esse. Certamente, «decidersi a fare qualcosa» e «farla» non sono la stessa cosa: «decidersi» è concludere una deliberazione mentale su quanto voglio realmente fare. Ma una volta che ho deciso, mi resta da farlo. Quello che decido è l'obiettivo o il fine della mia azione, ma forse non l'azione stessa. Per esempio: decido di prendere il bicchiere e allungo il braccio per afferrarlo. Che cosa ho deciso di fare veramente: prendere il bicchiere o allungare il braccio? E la mia deliberazione riguardava il bicchiere o il mio braccio? E qual è la vera azione: prendere il bicchiere o allungare il braccio? Se allungo il braccio e rovescio il bicchiere, posso dire di aver agito o no? O forse ho agito «a metà»?
    Nemmeno la nozione di «volontario» è chiara come può sembrare. Nella sua Etica nicomachea, Aristotele immagina il caso del capitano di una nave che deve trasportare un certo carico da un porto a un altro. Durante la traversata si leva una grande tempesta. Il capitano giunge alla conclusione che non può salvare la nave e la vita dell'equipaggio se non gettando in mare il carico, così da equilibrare l'imbarcazione. Così, getta il carico nell'acqua. Ebbene, l'ha fatto perché ha voluto? Evidentemente sì, perché avrebbe potuto non liberarsi del carico e correre il rischio di morire. Ma, anche, evidentemente no, perché quel che voleva il capitano era portare a destinazione il carico: altrimenti, se ne sarebbe rimasto tranquillo a casa sua, senza prendersi la briga di levare l'ancora! Allora, ha gettato il carico perché voleva farlo... Si potrebbe dire che, talvolta, agiamo volontariamente... contro la nostra volontà.
    Torniamo per un istante al gesto semplicissimo di cui abbiamo parlato prima: muovere un braccio. Lo muovo volontariamente, cioè non lo agito nel sonno né lo sollevo per proteggermi il volto, in un gesto istintivo vedendo una pietra che vola verso di me. Al contrario, mi rivolgo a chi voglia ascoltarmi dicendo: «Alzerò il braccio fra cinque secondi». E cinque secondi dopo, in effetti, sollevo il mio braccio. Ma che cosa ho fatto per alzarlo? Mi sono limitato a volerlo sollevare e, vedi, l'ho sollevato. Immaginiamo che a questo punto mi si dica: «L'ho sentita dire che stava per alzare il braccio e poi l'ho visto effettivamente per aria, ma ciò dimostra soltanto che lei è capace di farlo quando lo desidera, non che lo ha sollevato volontariamente». Io insisterò sul fatto di sapere perfettamente che ho voluto alzare il braccio e che per questo il braccio si è sollevato. Ma in realtà, a pensarci meglio, non so che cosa abbia fatto per farlo muovere: l'ho mosso e basta. Dico che ho «voluto» muoverlo e che poi si è mosso, in tal modo che mi sembra di aver fatto due cose: una, voler muovere il braccio e, l'altra, muoverlo. Ma qual è la differenza fra «voler» muovere il braccio e «muoverlo»? Se non sono legato e nemmeno paralitico, si può immaginare che voglia muovere il braccio e che questo non si muova? Avrà senso dire «sto desiderando con tutte le mie forze di muovere il braccio, in modo tale che fra poco spero che il mio arto finisca per muoversi»? In una parola, visto che non esiste alcun impedimento esterno o fisiologico al movimento del mio braccio, voler muovere il braccio non è come muoverlo effettivamente? Sono due cose o si tratta di una sola? Wittgenstein si riferisce a qualcosa del genere nelle sue Ricerche filosofiche (§ 621), quando si domanda: «Sorge il problema: che cosa rimane, quando dal fatto che io alzo il mio braccio tolgo il fatto che il mio braccio si alza?». Dov'è il mio «voler-alzare-il braccio», se non in quel braccio sollevato? Che altro c'è?
    Torno a riflettere sulla questione, questa volta un po' più prudentemente, e concludo che sì, c'è qualcosa di più: quando dico che il mio braccio si muove volontariamente, perché voglio, intendo dire che avrei anche potuto non muoverlo. Non so come muovo il braccio quando lo voglio muovere, non so se ci sia una differenza fra voler muovere il braccio e muoverlo effettivamente, ma so che se non avessi voluto muoverlo, non si sarebbe mosso. Gli specialisti delle relazioni fra sistema nervoso e sistema muscolare possono spiegare come accade che io muova un braccio quando lo decido, ma quel che conta fondamentalmente per me – ciò che fa di questo gesto banale una vera «azione» – è che io sia capace di muoverlo come di non muoverlo. Dunque, «ho fatto volontariamente questa o quella cosa» significa che senza il mio permesso, questa o quella cosa non sarebbe accaduta. È una mia azione tutto ciò che non succederebbe se io non volessi che succedesse. Questa possibilità di fare o non fare, di dire «sì» o «no» a certi atti che dipendono da me, è ciò che possiamo chiamare libertà. E naturalmente, quando giungiamo a questa libertà, non abbiamo risolto tutti i nostri problemi, ma anzi, ci troviamo ad affrontare altri interrogativi ancor più difficili.
    Tanto per incominciare, possiamo sospettare che, forse, questo fatto della «libertà» sia semplicemente un'illusione che io nutro sulle mie reali possibilità. Dopo tutto, quel che succede ha una causa determinante che rientra nelle leggi di natura. Apro un po' il rubinetto dell'acqua e vedo uscire da esso alcune gocce: se avessi già saputo dove si trovavano quelle gocce nelle tubature, consapevole della legge di gravità, dei modelli puntualmente seguiti dal movimento dei liquidi, della posizione del buco nel rubinetto, eccetera, avrei forse potuto determinare quale goccia doveva uscire per prima e quale per ultima. La stessa cosa accade con tutti gli eventi che osservo intorno a me e perfino con la maggior parte di quelli che si verificano nel mio corpo (respirazione, circolazione sanguigna, l'inciampo nel sasso che non ho visto, eccetera). In ognuno di questi casi, posso risalire a una situazione precedente che rende inevitabile ciò che è accaduto dopo. Solo il fatto di ignorare come stiano le cose nel momento A giustifica la mia sorpresa di fronte a ciò che accade nel momento B. La dottrina deterministica (uno dei punti di vista filosofici più antichi e resistenti) stabilisce che se io sapessi ora come sono disposte tutte le parti che compongono il mondo e conoscessi esaurientemente tutte le leggi fisiche, potrei scoprire senza possibilità di errore ciò che accadrà nel mondo fra un minuto o fra cento anni. E poiché anch'io sono una parte dell'universo, devo sottomettermi alla stessa determinazione causale che regola tutto il resto. Che fine fanno, allora, il «sì» e il «no» della libertà? La libera azione non dovrebbe essere quella che non posso prevedere nemmeno se conosco ogni situazione precedente dell'universo, vale a dire, un'azione che inventerebbe la propria causa e non dipenderebbe da alcuna precedente?
    Adesso, lasciamo da parte la questione se una rigida dottrina «deterministica» sia realmente compatibile con le impostazioni della fisica quantistica contemporanea. Il principio di indeterminazione di Heisenberg sembra implicare una visione molto più aperta delle determinazioni causali nell'universo materiale... almeno nel modo in cui noi possiamo studiarlo. Il premio Nobel per la fisica Ilya Prigogine e il grande matematico René Thom si trovarono a polemizzare, alcuni anni fa, a questo riguardo, il primo sostenendo la causa di un certo indeterminismo e il secondo affermando l'esistenza di un certo determinismo più simile a quello tradizionale. Difetto della seppur minima competenza per intervenire nel dibattito, ma credo di poter dire almeno che né il determinismo «forte» di un Laplace, duecento anni fa, né l'indeterminismo relativo di Heisenberg o Prigogine, oggi, possono rispondere alla domanda sulla libertà umana. Perché il problema della libertà non si pone sul terreno della causalità fisica – nessuno pensa che le azioni umane manchino di cause che possono essere spiegate dalle leggi della scienza sperimentale, come per esempio la neurofisiologia – ma nell'azione umana in quanto tale, che non può essere considerata unicamente dall'esterno, come una sequenza di fatti, bensì va vista anche dall'interno, prendendo in considerazione l'intervento di varianti piuttosto difficili da gestire, quali la «volontà», l'«intenzione», i «motivi», la «previsione», eccetera.
    L'indeterminazione scientifica in se stessa non equivale alla «libertà»: gli elettroni possono essere imprevedibili, ma non «liberi» in nessun senso rilevante del termine. E viceversa: ciò che è determinato fisicamente o fisiologicamente non ha motivo di escludere l'insorgenza di una libera azione. Se non si discute il fatto che la vita provenga da ciò che non è vivo e la coscienza da ciò che non la possiede, perché
    la libertà non potrebbe derivare da quelle forme materiali rigidamente determinate?
    Cerchiamo di precisare un po' meglio questa nozione che ci si è trasformata in un problema (fatto, questo, che deve sempre costituire il primo approccio di qualunque analisi filosofica, il primo passo della filosofia onesta, quella che non vuole né illuminare né sorprendere, ma capire). Per incominciare, diciamo che la libertà non sembra supporre un'azione senza una causa previa, un miracolo che interrompe la catena degli effetti e delle loro cause (secondo l'espressione di Spinoza, un nuovo «impero dentro l'impero generale» del mondo), bensì un altro tipo di causa, anch'essa da prendere in considerazione insieme al resto. Parlare di libertà non implica rinunciare alla causalità, bensì ampliarla e approfondirla. L'«azione» è libera perché la sua causa è un soggetto capace di volere, di scegliere e di mettere in pratica progetti, vale a dire, di realizzare intenzioni. In questo senso, il semplice atto di sollevare il braccio, di cui si parlava prima, difficilmente può essere considerato un' «azione», a meno che non venga contestualizzato in un ambito intenzionale più ampio: sollevo il braccio per chiedere la parola in un'assemblea, per suonare il campanello, per chiamare un taxi... o perfino per dimostrare, in una discussione filosofica, che sono il padrone delle mie azioni! D'altro canto, i desideri o i progetti di questo soggetto capace di agire intenzionalmente hanno indubbiamente le loro cause precedenti, siano esse «appetiti», «motivi» o «ragioni». In seguito torneremo sull'argomento. Per ora è sufficiente aver chiarito che la libertà non è un'interruzione nella concatenazione delle cause e degli effetti, bensì una nuova considerazione pratica che l'arricchisce. Dire «ho compiuto liberamente quest'azione» non equivale a dire «quest'azione non è effetto di alcuna causa», ma piuttosto «la causa di quest'azione sono io in quanto soggetto».
    Il termine «libertà» viene normalmente usato in tre modi diversi che spesso, nei dibattiti sul tema, vengono confusi fra loro e che dunque converrebbe cercare di distinguere nettamente.

    a) La libertà come possibilità di agire secondo i propri desideri o progetti. È il senso più comune del termine, quello più spesso utilizzato quando, nelle nostre conversazioni, ci troviamo ad affrontare questo tema. Si riferisce alla situazione in cui non ci siano impedimenti fisici, psicologici o legali per agire secondo la propria volontà. In questa accezione, è libero (di muoversi, di andare e di venire) chi non sia legato o carcerato, né vittima di un alcun tipo di paralisi; è libero (di parlare o di tacere, di mentire o di dire la verità) colui che non sia minacciato, sottoposto a tortura o a somministrazione di droghe; ed è libero (di partecipare alla vita pubblica, di aspirare a cariche politiche) colui che non sia emarginato né escluso da leggi discriminatorie, chi non subisca gli eccessi atroci della miseria e dell'ignoranza, eccetera. Secondo me, questa visione della libertà implica non solo la possibilità di tentare ciò che si vuole, ma anche una certa probabilità di ottenerlo. Se non esiste alcuna prospettiva di successo, non si può dire che ci sia libertà: di fronte all'impossibile, nessuno è veramente libero.

    b) La libertà di volere ciò che si vuole e non solo di fare o cercare di fare ciò che si vuole. Si tratta di un livello più sottile e meno ovvio del concetto di «libertà». Per quanto mi leghino o mi imprigionino, nessuno potrà impedirmi di voler compiere un certo viaggio: ciò che possono vietarmi è la sua realizzazione effettiva. Se io non voglio, nessuno può costringermi a odiare il mio aguzzino né a credere ai dogmi che cerca di impormi con la forza. La spontaneità del mio volere è libera, sebbene le circostanze rendano nulla la possibilità di metterlo in pratica. Gli stoici insistettero orgogliosamente su questa libertà invulnerabile della volontà umana. Il corso degli eventi non è nelle mie mani (un semplice sasso in una scarpa può interrompere il mio percorso), ma la rettitudine della mia intenzione (o la sua perversità!) sfida le leggi della fisica e dello Stato. Un esempio fra i tanti possibili ce lo offre lo stoico Catone, nell'antica Roma, quando si schiera con i repubblicani in rivolta contro Cesare. Dopo che i ribelli furono stati sconfitti, egli pronunciò queste parole, riportate da Plutarco: «La causa dei vinti non piacque agli dèi, ma fu grata a Catone». Gli dèi (la necessità, la storia, ciò che non ha rimedio) possono vincere i propositi degli uomini, ma non possono impedir loro di avere quei propositi al posto di altri.

    c) La libertà di volere ciò che non vogliamo e di non volere ciò che, di fatto, vogliamo. Senza dubbio, si tratta della più strana e difficile sia da spiegare sia da comprendere. Per avvicinarci a essa, diciamo intanto che noi umani non sentiamo solo desideri, ma anche desideri relativi ai desideri che sentiamo; non abbiamo solo delle intenzioni, ma anche il desiderio di averne certe... che in realtà non abbiamo! Supponiamo che stia passando vicino a una casa in fiamme e senta un pianto infantile provenire dall'interno; non voglio entrare a salvare il bambino (ho paura, è molto pericoloso, per questo ci sono i pompieri...), ma allo stesso tempo vorrei volere entrare a salvarlo, perché mi piacerebbe non avere tanta paura del pericolo e vivere in un mondo in cui gli adulti aiutassero i bambini in caso di incendio. Sono ciò che voglio essere, ma contemporaneamente vorrei essere in un altro modo, volere altre cose, volere meglio. Chiunque può fuggire dal pericolo, ma nessuno vuole essere un vigliacco; a volte mi va di mentire o mi conviene, ma non vorrei considerarmi un bugiardo; mi piace bere, ma non voglio diventare un alcolizzato. Ciò che io «voglio fare ora» non è uguale a ciò che io «voglio essere». Quando mi domandano che cosa voglio fare, esprimo il mio volere immediato, ciò che credo mi convenga volere, ciò che non solo mi farebbe «volere» liberamente, ma anche «essere» liberamente. Il poeta latino Ovidio espresse questa contraddizione fra i modi della volontà in un verso: Video meliora proboque, deteriora sequor («vedo ciò che è meglio e lo approvo, ma continuo a fare ilpeggio»: vale a dire, continuo a volere quel che non vorrei volere). Questo tipo di libertà ci avvicina a un'infinita vertigine: perché io potrei voler volere ciò che non voglio, voler volere ciò che non voglio volere, voler voler volere ciò che voglio o non voglio effettivamente volere, eccetera. Dove stabilire l'ultima frontiera del volere, cioè della mia libera volontà di soggetto?

    Un grande pensatore moderno della volontà, Arthur Schopenhauer, all'inizio del secolo scorso negò l'esistenza della libertà nella terza accezione del termine. Secondo lui, gli umani – come tutti gli altri esseri, in gradi diversi – sono formati fondamentalmente di volontà, di «volere» (voler vivere, voler divorare o non possedere, eccetera). Il filosofo sosteneva che siamo letteralmente ciò che vogliamo, ma non nel senso che siamo configurati secondo i nostri desideri, bensì che siamo intimamente costituiti da essi. Possiamo allora affermare, senz'ombra di dubbio, che abbiamo «libertà» nel secondo dei significati precedentemente illustrati. Niente può impedirmi di «volere» ciò che voglio, come nulla può vietarmi di «essere ciò che sono», in quanto sono proprio ciò che voglio (non l'obiettivo dei miei desideri – infiniti, sempre impossibili da soddisfare, secondo Schopenhauer – ma proprio l'insieme di tali desideri, la loro attività incessante). Tuttavia, non posso veramente volere o smettere di volere quello che voglio. Cioè, anche se sono ciò che voglio, voglio inevitabilmente ciò che sono, voglio quelle volontà che mi permettono di essere. Posso scegliere ciò che voglio fare in base alla mia volontà (concepita come il mio «carattere», come il modello di individuo che sono, che tenderà sempre verso determinati motivi rifiutandone altri, eccetera), ma non posso scegliere la mia volontà, né modificarla a mio piacimento. Non posso scegliere o rifiutare ciò che mi permette di volere. Dunque, secondo Schopenhauer, la più radicale delle libertà («sono ciò che voglio essere») è compatibile con il determinismo più rigido («non posso far altro che essere ciò che sono»). Finché non troviamo una ragione in-
    controvertibile che ci dimostra ciò che siamo e vogliamo veramente, forse nutriamo delle illusioni su quel che ci piacerebbe essere. Per questo, dice Schopenhauer, nel padrenostro preghiamo dicendo: «non c'indurre in tentazione, non farci cadere in tentazione: Dio mio, fa che non debba conoscere il peggio di quel che vorrei liberamente fare, cioè, ti prego di non rivelarmi come sono!». C'è bisogno di dire che la dottrina dell'inconscio di Sigmund Freud, l'inventore della psicoanalisi, condivise gran parte della prospettiva di Schopenhauer?
    Invece, nel XX secolo, il francese Jean-Paul Sartre coniò tutta una metafisica radicale della libertà nella terza accezione del concetto. È stata chiamata «esistenzialismo», poiché secondo lui la cosa più importante nell'uomo è il fatto di esistere e di doversi inventare, senza essere predeterminato da nessun tipo di essenza o carattere immutabile. Il motto che meglio riassume il pensiero di Sartre è una frase presa da Hegel – un contemporaneo di Schopenhauer particolarmente odiato da quest'ultimo – secondo la quale «l'uomo non è ciò che è ed è ciò che non è». Questo apparente scioglilingua può essere ragionevolmente chiarito: noi esseri umani non siamo qualcosa di stabilito una volta per tutte, qualcosa di «programmato» a priori e neppure quel «qualcosa» che ciascuno di noi pretende di stabilire come la sua vera identità – la professione, la nazionalità, la religione; siamo piuttosto ciò che non siamo, ciò che non siamo ancora e che desideriamo essere, la nostra capacità di inventarci continuamente, di trasgredire i nostri limiti, la capacità di smentire quel che siamo stati precedentemente. Per Sartre, l'uomo non è nient'altro che la continua disposizione a scegliere ciò che vuole essere e a smentire la sua scelta. Niente ci costringe a essere questa o quella cosa, né esteriormente né interiormente. Anche se, a volte, tentiamo di rifugiarci in ciò che abbiamo scelto di essere come se costituisse un destino ineluttabile – «sono ingegnere, spagnolo, monogamo, cristiano» –, in realtà siamo sempre aperti alle trasformazioni o ai cambiamenti di percorso. Se non cambiamo non è perché «dobbiamo» scegliere come scegliamo ed essere ciò che siamo, ma perché «vogliamo» essere in un modo e non in altro.
    Ma, allora, i condizionamenti che derivano dalla nostra situazione storica, dalla nostra classe sociale, dalle nostre condizioni fisiche e psichiche? E gli ostacoli che la realtà oppone ai nostri progetti? Per Sartre, neppure nulla di tutto questo impedisce l'esercizio della libertà, perché si è sempre liberi «in uno stato di cose e rispetto a questo stato di cose». Sono io che scelgo di rassegnarmi alla mia condizione sociale o di ribellarmi ad essa e, dunque, di trasformarla, sono io che scopro le difficoltà del mio corpo o della realtà, quando mi prefiggo obiettivi che le sfidano. Perfino gli ostacoli che bloccano l'esercizio della mia libertà derivano dalla mia determinazione a essere libero e a esserlo in un modo particolare che niente e nessuno può impormi! La balbuzie fu un ostacolo solo per Demostene, visto che egli aveva deciso di diventare un oratore... La libertà umana, intesa nel senso radicale conferitole da Sartre, è la vocazione a negare tutta la realtà circostante e progettare un'altra realtà alternativa in base alle nostre passioni e ai nostri desideri liberamente accettati. Possiamo fallire nel tentativo (di fatto, falliamo sempre, sempre ci schiantiamo, in qualche modo, contro la realtà, «l'uomo è una passione inutile») , ma non possiamo smettere di tentare, né rinunciare a tale impegno con il pretesto della necessità insormontabile delle cose. L'unica cosa che noi umani non possiamo scegliere è se essere o non essere liberi: siamo condannati alla libertà, per paradossale che possa suonare questa formula sartriana, poiché è la libertà che ci definisce come umani.
    La nozione di «libertà» ha un'ampia gamma di applicazioni teoriche che possono essere accettate in un senso e rifiutate in un altro. In tutte le sue forme, riconoscersi «liberi» implica ammettere che noi uomini orientiamo la nostra attività in base alle «intenzioni» che raggruppano una serie di azioni concatenate. Per esempio, questa mattina ho intenzione di prendere il treno: a questo scopo, la sera prima metto la sveglia a una certa ora, mi alzo presto, mi lavo, mi vesto, scendo in ascensore ed esco per strada, cerco un taxi, chiedo all'autista di portarmi in stazione, eccetera. Dov'è il peso della mia libera azione, nell'intenzione di prendere il treno o in ognuno dei passi necessari per raggiungere lo scopo? Alcuni filosofi, come Donald Davidson, sostengono che le uniche azioni autentiche siano quelle più semplici e primitive, vale a dire i movimenti fisici volontari. Questi gesti possono essere «narrati» alla luce di storie diverse, alcune delle quali s'incentreranno sui miei progetti e le mie intenzioni, mentre altre verteranno su logiche narrative diverse (per esempio, quelle che comportano gli effetti indesiderati delle mie azioni intenzionalmente desiderate).
    D'altra parte, salvo qualche sartriano ultraradicale, non credo che si possa negare il fatto che gli esseri umani, in molti casi, agiscono mossi da appetiti istintivi. Tuttavia, è altrettanto evidente che non siamo trascinati unicamente dall'oggetto del nostro istinto, bensì che rimaniamo contemporaneamente in noi stessi, sapendoci agenti e stilizzando le soddisfazioni istintive secondo diversi progetti di vita. Anche se alcuni dei nostri scopi sono inevitabili e non scelti (la nutrizione, il sesso, l'autoconservazione, eccetera), cerchiamo di raggiungerli in un modo che non sia inevitabile, ma seguendo un percorso incentrato sulla scelta. Per questo, quando ci riferiamo alle cause delle nostre azioni, possiamo parlare, oltre che di appetiti, anche di «motivi» più a lungo termine, nonché di «ragioni», vale a dire considerazioni che vogliono essere condivise dai nostri simili. Bisogna ricordare quel che abbiamo detto nel secondo capitolo sulla «razionalità», la ricerca degli strumenti migliori per far fronte ai nostri obiettivi, e la «ragionevolezza», il processo con cui trattiamo i soggetti che riteniamo dotati di intenzioni rispettabili esattamente come noi. Senza prendere in considerazione entrambi i tipi di motivi razionali è difficile, per non dire impossibile, comprendere veramente l'azione umana. Gli istinti e il resto delle forze della natura sono sufficienti a spiegare i fatti di cui gli umani sono i protagonisti, come si può spiegare il comportamento degli animali, la crescita delle piante o la caduta dei solidi verso il pianeta che li attrae. Tuttavia, la comprensione totale dell'attività umana richiede un'ulteriore prospettiva interna al soggetto agente, che riconosca i collegamenti fra ciò che pensiamo e ciò che facciamo, fra il nostro universo simbolico e il nostro ruolo esistenziale nel mondo fisico.
    In ogni caso, perché è tanto importante per noi la questione della libertà, sia che si tratti di affermarla rapiti dall'entusiasmo e dall'orgoglio, che di negarla con non minore energia? Lo scettico David Hume, che era fondamentalmente determinista, sostenne che l'idea di libertà è compatibile con il determinismo perché non si riferisce alla causalità fisica, bensì alla causalità sociale. In certa misura, abbiamo bisogno di credere nella libertà per poter attribuire ogni fatto umano a un soggetto responsabile delle proprie azioni, il quale sarà elogiato, deprecato o, in caso, anche punito. La libertà è indispensabile per stabilire le responsabilità, perché senza responsabilità non è possibile articolare la convivenza in nessun tipo di società. Per questo, essere liberi non è motivo solo di orgoglio, ma anche di inquietudine e perfino di ansia. Assumere la libertà implica accettare la responsabilità di ciò che facciamo, di ciò che cerchiamo di fare, nonché di alcune conseguenze indesiderabili delle nostre azioni:
    Essere liberi non significa rispondere trionfalmente «io sono stato!» quando saranno distribuiti i premi, ma anche ammettere «sono stato io!» quando si ricerca il colpevole di un misfatto. Per il primo dei due casi, i volontari non mancano mai, ma per il secondo è normale che l'individuo cerchi rifugio nel peso schiacciante delle circostanze: il seduttore di vedove giustificherà i suoi misfatti accampando l'abbandono precoce dei suoi genitori, le tentazioni della società dei consumi o il cattivo esempio della televisione... mentre chi riceve il premio Nobel parlerà soltanto dei suoi meriti e degli sforzi compiuti per superare le avversità del destino. Nessuno vuole essere ridotto alla lista delle proprie cattive azioni: a chi ci rimproveri di aver investito una persona, rispondiamo «non potevo evitarlo, avrei voluto vederti al mio posto, io non sono così, eccetera», cercando di riversare la colpa sulla società in cui viviamo o sul sistema capitalistico, ma sempre mantenendo aperta la possibilità di essere puliti, disinteressati, coraggiosi, migliori. Per questo la libertà non è una specie di premio, ma un onere e molte persone di dubbia maturità – vale a dire, poco autonome, poco coscienti di se stesse – preferiscono rinunciarvi e trasferirla a un capo sociale che prenda le decisioni e dunque si faccia carico anche delle colpe. Lo psicoanalista Erich Fromm scrisse un libro intitolato Fuga dalla libertà in cui analizzò, da questo punto di vista, i fervori di massa che i totalitarismi nazista e bolscevico hanno risvegliato nel nostro secolo.
    Tuttavia, la questione della «responsabilità» risale a molto tempo prima. Nella tragedia greca, per esempio, la responsabilità diventa, talvolta, il destino ineluttabile del personaggio che – come succede a Edipo nelle tragedie di Sofocle Edipo Re e Edipo a Colono – deve compiere, benché non lo voglia e non lo sappia, quelle azioni cui è predestinato, senza però ignorare i dispositivi volontari che lo avviluppano negli ingranaggi del fato. Il nostro volere ci trascina verso l'irrimediabile, ma poi l'irrimediabile deve essere accettato come la parte cieca del nostro volere: accettare che dovevamo essere colpevoli ci apre gli occhi su ciò che siamo e, in questo modo, purifica ciò che possiamo diventare. I greci non conoscevano la nozione di «libertà» nella seconda e nella terza accezione precedentemente spiegate e dunque non possedevano neppure la nozione di «responsabilità» realmente «personalizzata», vale a dire legata all'intenzione soggettiva dell'agente e non all'oggettività del fatto compiuto. La maledizione del colpevole ricade su Edipo per crimini che egli nonsa di aver commesso (l'uccisione del padre, il rapporto sessuale con la madre), che poi deve accettare come parte del destino che gli appartiene... e cui egli appartiene. Secondo Sofocle, ciò che ci rende responsabili non è ciò che abbiamo intenzione di fare, e neppure quel che facciamo effettivamente, ma la riflessione su ciò che abbiamo fatto.
    All'inizio dell'età moderna, fu senza dubbio un altro grande tragico – Shakespeare – colui che meglio si è addentrato nei contraddittori meandri della libertà in azione. I suoi personaggi sono lucidamente e terribilmente consapevoli della vertigine che coglie colui che desidera ciò che l'azione promette, ma trema all'idea del senso di colpa che lo legherà, per sempre, come una catena. Per esempio, nella notte atroce che precede l'assassinio di re Duncan, in seguito al quale Macbeth entrerà in possesso dell'agognata corona, egli rabbrividisce di fronte all'ineludibile responsabilità che ricadrà su di lui: «Se tutto fosse fatto, una volta fatto, allora sarebbe bene che fosse fatto presto: se l'assassinio potesse arrestar nella rete le conseguenze, e con la cessazione di esse assicurare l'esito, sicché questo solo colpo fosse il principio e la fine del mio atto, qui, qui soltanto, su questo banco, su questa secca del tempo noi arrischieremmo, con un salto, la vita futura. Ma in casi come questo, noi abbiamo da subire un giudizio anche qui: giacché noi non facciamo che insegnare opere di sangue, le quali, appena insegnate, finiscono per punire il maestro» (atto I, scena VII, trad. it. di M. Praz). Macbeth vuole l'azione (l'assassinio di Duncan) e vuole ciò che conseguirà da questa azione (il trono), ma non vorrebbe restare vincolato per sempre all'azione, doverne assumere la responsabilità rispetto a coloro che gliene chiederanno conto o apprenderanno dall'atroce lezione del suo crimine. Se si trattasse solo di farlo e tutto finisse lì, lo farebbe senza esitazioni; ma la responsabilità è la necessaria contropartita della libertà, il suo rovescio; forse, come dice Hume, il fondamento stesso del bisogno di libertà: le azioni devono essere libere affinché un individuo risponda di ognuna di esse. Il soggetto è libero di compierle, ma non di disfarsi delle loro conseguenze...
    Sofocle e Shakespeare son soliti parlare di una responsabilità «colpevole» e, certo, non per puro sensazionalismo: il vincolo fra la libertà e la responsabilità si fa più evidente quando la prima ci attrae e la seconda ci spaventa, vale a dire quando ci troviamo di fronte a una tentazione. Nella nostra epoca abbondano le teorie che pretendono di alleggerirci dalla responsabilità onerosa della nostra libertà non appena questa diventa fastidiosa: il merito positivo delle mie azioni è sempre mio, ma posso condividere la mia colpevolezza con i miei genitori, con la genetica, con l'educazione ricevuta, con la situazione storica, con il sistema economico, con ogni circostanza che non è in mio potere controllare. Tutti siamo colpevoli di tutto, ma nessuno è il colpevole principale di niente. Nelle mie lezioni di etica, faccio sempre un esempio concreto, che ogni volta abbellisco secondo l'ispirazione del giorno. Immaginiamo una donna il cui marito parta per un lungo viaggio; la donna approfitta di quell'assenza per incontrare l'amante; da un giorno all'altro, il marito diffidente annuncia il ritorno ed esige che la moglie si rechi a prenderlo in aeroporto. Per arrivare all'aeroporto, la donna deve attraversare un bosco dove si nasconde un temibile assassino. Spaventata, chiede all'amante di accompagnarla, ma questi si rifiuta perché non desidera affrontare suo marito; sollecita allora la protezione dell'unico poliziotto del villaggio, il quale le risponde che non può andare con lei perché deve occuparsi con lo stesso zelo del resto dei cittadini; si rivolge a diversi vicini e vicine, ma non ottiene che rifiuti, dettati dalla paura e dalla pigrizia. Alla fine, va sola e viene assassinata dal criminale nascosto nel bosco. Domanda: chi è il responsabile della sua morte? Di solito ottengo risposte per tutti i gusti, secondo la personalità dell'interrogato o dell'interrogata. Ci sono quelli che accusano l'intransigenza del marito, la codardia dell'amante, la poca professionalità del poliziotto, il malfunzionamento delle istituzioni che cipromettono la sicurezza, la mancanza di solidarietà dei vicini, perfino la coda di paglia dell'assassinata... In pochi rispondono che il Colpevole con la maiuscola, vale a dire il responsabile principale del crimine, è l'assassino che uccide la donna. Senza dubbio, nella responsabilità di ogni azione intervengono numerose circostanze che possono fungere da attenuanti e, talvolta, diluire al massimo la colpa in quanto tale, ma mai fino al punto di «slegare» totalmente dall'azione l'agente che la compie intenzionalmente. Comprendere tutti gli aspetti di un'azione può portare a perdonarla, ma mai a cancellare completamente la responsabilità del soggetto libero: altrimenti, non si tratterebbe più di un'azione, ma di un fatto casuale. Ma non è proprio la libertà il fatto casuale che interviene nella società umana?
    Una delle riflessioni più enigmaticamente suggestive sul vincolo fra azione e responsabilità è quella proposta nel Bhagavadgītā o Canto del Beato, un lungo poema dialogato composto probabilmente nel III secolo prima di Cristo e incluso nel Mahābhādrata, la grande epopea indù. L'eroe Arjuna avanza sul suo carro da battaglia verso le truppe nemiche e prepara le frecce con cui deve sterminare quanti più nemici possibile. Ma fra gli avversari che deve tentare di distruggere riconosce diversi parenti e amici (si tratta di una guerra civile, fratricida) e ciò lo angoscia fino al punto di domandarsi seriamente se abbandonare il combattimento. Allora, l'auriga che conduce il suo carro e che altri non è che il dio Krsna, rivela la sua identità, istruendo l'eroe su quel che è suo dovere fare. Secondo Krsna, lo scrupolo di Arjuna rispetto all'omicidio è infondato perché «il saggio non si lamenta né per i vivi né per i morti». Nel mondo delle ingannevoli apparenze in cui ci muoviamo, ciò che è veramente sostanziale (Brahmà, l'Assoluto non creato e non perituro) non può essere distrutto dai dardi, né può essere realmente modificato da nessuna azione umana. Ognuno deve agire secondo ciò che è – nel caso di Arjuna, che è un guerriero, combattere sul campo di battaglia –, ma la saggezza consiste nel non sperimentare nessun interesse ai frutti e alle conseguenze dell'azione: «Nell'azione è il tuo impegno, mai nei suoi frutti; non essere interessato alle conseguenze dei tuoi atti e non rifuggire dall'azione». Tutti siamo obbligati ad agire secondo le circostanze naturali in cui trascorre la nostra vita: «Nessuno, nemmeno per un momento, resta inoperoso: è condotto all'Azione suo malgrado, dai fili nati dalla Natura». Il segreto è agire come se non si agisse, nel realizzare le azioni che ci spettano senza lasciare che il nostro animo sia assalito dal desiderio, dall'ira, dal timore o dalla speranza. «Per questo, agisci sempre senza curarti dei frutti dei tuoi atti; l'uomo che agisce in questo modo, raggiunge il livello più alto».
    Per le nostre mentalità cristiane (per quanto laici o atei ci consideriamo), questo dio che raccomanda tranquillamente all'uomo di compiere l'omicidio come se non facesse niente – o come se facesse qualunque altra cosa! – è piuttosto difficile da capire. Anche l'idea di doversi rassegnare all'azione come parte dell'ordine della natura e di abbandonarsi a essa con pieno «disinteresse» per quanto ci promette, contraddice il significato di «progetto», «intenzione», «successo» o «fallimento» di quanto è stato intrapreso. Tuttavia, il peso della responsabilità dell'azione – che non è un semplice pregiudizio occidentale, visto che Arjuna lo sperimenta quando si trova a dover massacrare i suoi parenti, esattamente come Macbeth prima di decidersi a uccidere Duncan – viene alleggerito dallo scioccante ragionamento secondo il quale bisogna fare ciò che si potrebbe evitare come se fosse inevitabile. In fondo, fare «consapevolmente» non è altro che comprendere il modo in cui le apparenze fanno noi e riconoscere la nostra identità in ciò che sempre è, ma non mai fa. Possiamo trovare parallelismi fra questa prospettiva orientale e il modo di pensare degli stoici e di Spinoza, sebbene premesse simili sfocino in regole pratiche molto diverse: nel pensiero occidentale, la considerazione oggettiva della struttura causale in cui ci troviamo ad agire ci permette di «capire» meglio l'azione, ma mai di «far fintadi niente», ignorandone obiettivi e conseguenze. Così è possibile capire meglio i rimproveri rispettosi che un grande ammiratore della saggezza indù come Octavio Paz (nel suo libro Vislumbres de Indias) muove alla dottrina del Bhagavadgītā: «Il distacco di Arjuna è un atto intimo, una rinuncia a se stesso e ai suoi appetiti, un atto di eroismo spirituale che, tuttavia, non rivela amore per il prossimo. Arjuna non salva nessuno eccetto se stesso... come minimo si può dire che Krsna predichi un disinteresse privo di filantropia».
    Essere liberi significa rispondere delle nostre azioni e questo avviene sempre di fronte agli altri, siano essi vittime, testimoni o giudici. Tuttavia, tutti sembrano cercare «qualcosa» che li alleggerisca del peso gravoso della libertà. Non possiamo supporre che, pur essendo libera la nostra natura di umani, agiamo nell'ambito di questa libertà «necessaria» con la stessa innocenza con cui crescono le piante o vivono gli animali? Se siamo liberi per natura, non sarà la natura stessa a definire l'ambito in cui interviene la nostra libertà? In che cosa si distingue ciò che, nella nostra condizione naturale, è irrimediabilmente libero da ciò che è irrimediabile solo per altri esseri naturali? Forse un indizio di risposta ci è offerto da questa bella poesia della polacca Wislawa Szymborska:

    La poiana non ha nulla da rimproverarsi.
    Gli scrupoli sono estranei alla pantera nera.
    I piranha non dubitano della bontà delle proprie azioni.
    Il serpente a sonagli si accetta senza riserve.

    Uno sciacallo autocritico non esiste.
    La locusta, l'alligatore, la trichina e il tafano
    vivono come vivono e ne sono contenti.
    [...] Non c'è nulla di più animale
    della coscienza pulita, sul terzo pianeta del Sole.

    L'uomo sembra essere l'unico animale in grado di essere scontento di se stesso: il pentimento è una delle possibilità sempre aperte all'autocoscienza del libero agente. Ma se siamo naturalmente liberi, come possiamo pentirci di ciò che facciamo della nostra libertà naturale? Com'è possibile che il dispiegarsi di ciò che siamo per natura possa comportare dei conflitti interiori? È il momento di chiarire quale sia la nostra natura e che senso abbia la nozione di «natura» per noi, gli unici animali capaci di avere la coscienza sporca.

    Spunti di riflessione...

    Che cosa significa «abitare» il mondo? Si tratta di essere semplicemente contenuti da esso o di farne parte? Che cosa significa «agire»? «Fare qualcosa» è uguale a «compiere un'azione»? Possono esserci azioni «involontarie»? Come facciamo a sapere quando facciamo qualcosa volontariamente? Ci sono cose che facciamo volontariamente, ma anche «senza volerlo»? «Decidere di fare qualcosa» è come «fare qualcosa»? «Voler muovere il mio braccio» e «muoverlo» sono due azioni o si tratta di una sola? Quando posso dire che agisco liberamente? Se non faccio qualcosa liberamente, si può dire che compia un'azione? Che cosa dice la teoria deterministica? Può essere compatibile certo determinismo con certo tipo di libertà? La fisica contemporanea è deterministica come lo fu quella classica? Ha qualcosa a che fare, molto o poco che sia, il determinismo della fisica con il problema della libertà umana? Quali sono i diversi usi che si fanno della nozione di «libertà»? Possiamo accettare di essere liberi secondo uno di essi, ma non secondo un altro o altri? Come si relaziona la libertà alle esigenze della vita sociale? Che cosa significa «essere responsabili» o «rendersi responsabili» di un'azione? Possono esistere azioni libere di cui tutti e nessuno siamo responsabili? Come intendono la responsabilità di azione la tragedia greca, Shakespeare e il Bhagavadgītā? Potremmo pentirci di quel che facciamo se non fossimo liberi di farlo o di non farlo? Se siamo liberi per natura, è innaturale avere la coscienza sporca per qualcosa che abbiamo fatto liberamente?

    (Le domande della vita, Laterza 1999, pp. 114-136)


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