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    John Rawls

    e l'etica pubblica

    come etica applicata

    Sergio Cremaschi

    John Rawls (1921-2002), statunitense, nel corso degli anni cinquanta cercava una via d'uscita da una situazione in cui prevaleva una ricerca metaetica che gli sembrava inevitabilmente inconcludente, a causa dei limiti a ciò che può fare l'analisi concettuale e linguistica, e in etica normativa restava in campo un sistema semplicistico quale l'utilitarismo. La via d'uscita gli sembrò essere quella di ribaltare i termini tradizionali del rapporto fra metaetica ed etica, proponendosi come primo passo la formulazione coerente di un'etica normativa e poi, grazie a questo chiarimento, una migliore comprensione dei problemi della metaetica.
    Si dedicò a un campo particolare dell'etica normativa: la teoria della giustizia. Questa non è un'analisi concettuale e linguistica, ma è una vera teoria, sottoposta alle regole metodologiche di ogni teoria, e «le definizioni e le analisi del significato non hanno un ruolo speciale: la definizione non è altro che uno dei mezzi per costruire la struttura generale della teoria » (Rawls, 1971, p. 58), ed è perciò «impossibile fondare una teoria sostantiva della giustizia sulla sola base di definizioni e verità logiche» ma bisogna ricorrere a «ipotesi contingenti e fatti generali» (ibid.).
    La materia prima della teoria morale è il nostro senso della giustizia, ossia la nostra capacità di giudicare il giusto e l'ingiusto e di motivare i nostri giudizi, e la filosofia morale è un tentativo di descrivere la nostra capacità morale, non un elenco di giudizi, ma piuttosto la costruzione di un insieme di principi che, di fronte a circostanze analoghe, ci porterebbero a formulare questi giudizi. Fa qualcosa di simile a ciò che fa la grammatica, che consiste nella caratterizzazione della capacità di riconoscere frasi ben formate per mezzo di principi espliciti che siano in grado di operare le stesse distinzioni del parlante nativo. È tanto diversa da un sapere oggettivo da risolversi in un discorso con una funzione socratica, in cui «le uniche opinioni rilevanti sono quelle dell'autore e del lettore » (ivi, p. 57). Il criterio della verità da adottare, come in linguistica e diversamente che in fisica, è coerentista, ma ciò non toglie che «esista una classe definita e limitata di fatti in relazione ai quali possiamo controllare i nostri giudizi ponderati» (Rawls, 1971, p. 67).
    Il "nostro» senso di giustizia da prendere come punto di partenza è rappresentato non dalle «normali massime di senso comune», ma dai giudizi ponderati, cioè «quei giudizi in cui è più facile che le nostre capacità morali appaiano senza distorsioni» (ivi, p. 65) perché formulati in circostanze meno esposte a condizionamenti e perché i criteri fatti valere sono gli stessi che portano a giudizi ponderati in altre situazioni. Dopo che una persona ha valutato concezioni differenti e rivisto i propri giudizi in armonia con una di queste, individuando così «convinzioni consapevoli sulla giustizia », può ritenere che i principi adottati corrispondano alle proprie intuizioni morali o le amplino in modo accettabile se conducono agli stessi giudizi che formulava intuitivamente nei casi non dubbi e nei casi dubbi offrono una soluzione che «dopo attenta riflessione» ritiene di poter fare sua (ivi, p. 40). Ad esempio, è un giudizio ben radicato che l'intolleranza religiosa e la discriminazione razziale siano ingiuste mentre è molto più dubbio quale sia la distribuzione auspicabile della ricchezza; per eliminare i dubbi possiamo ragionevolmente aderire a quell'insieme di principi che dimostra di avere la capacità «di fare spazio alle nostre convinzioni più salde e di fornirci un orientamento là dove un orientamento è richiesto» (ibid.). Questa procedura vorrebbe far sì che la validità universale dei giudizi morali sia assicurata senza ricorrere a « fatti di natura morale » indipendenti dalle nostre credenze, in quanto non risulterebbe da una "descrizione" ma piuttosto da una "costruzione"; questa soggiacerebbe però a vincoli di coerenza interna, non solo strettamente logica, ma anche coerenza con le assunzioni che di fatto dimostriamo di accettare nella prassi e con un numero limitato di asserti comunemente accettati sul mondo e sulla natura umana.
    La teoria della giustizia utilitarista è inaccettabile per i seguenti motivi: a) un criterio di massimizzazione dell'utilità collettiva che non consente di escludere l'oppressione delle minoranze in nome del benessere delle maggioranze; b) la riduzione dei diritti a puri strumenti per ottenere più benessere o felicità (ivi, p. 186-91). L'alternativa all'utilitarismo consiste in un insieme di principi di giustizia, i quali sono il risultato di una procedura contrattuale messa in atto da parti contraenti che si accordano sulle regole del giusto che devono governare lo schema di cooperazione della società in cui si troveranno a vivere. La procedura contrattuale incorpora il requisito dell'imparzialità assicurato dalla finzione del velo d'ignoranza che impedisce alle parti contraenti (individui razionali autointeressati, non invidiosi) di sapere quale posizione sociale occuperanno e quale sarà la loro particolare concezione del bene.
    Le parti contraenti si accorderanno su regole del giusto, sapendo che ognuno avrà poi una sua concezione del bene. I principi di giustizia servono proprio a rendere possibile il tentativo di ognuno di realizzare il proprio progetto di vita o di perseguire la propria concezione del bene. La priorità del giusto sul bene è imposta dal fatto del pluralismo, che rende inevitabile la conseguenza che, posta la libertà di pensiero e i limiti di durata della vita umana, gli individui giungeranno a concezioni del bene diverse.
    Giustizia o equità significa precisamente tenere conto della diversità dei bisogni che discende sia dal fatto che gli esseri umani hanno differenti capacità o svantaggi innati assegnati dalla «lotteria naturale», sia dal fatto che non sono identiche le concezioni del bene e quindi i progetti di vita.
    Le parti contraenti, essendo razionali, sceglieranno la giustizia come equità, i cui due principi fondamentali giustizia sono: a) il «principio di libertà» che verte sulle libertà politiche e civili affermando che «ogni persona deve avere eguale diritto alle più ampie libertà di base compatibilmente con una libertà simile per altri» (ivi, p. 76); b) il «principio di differenza » che, fatte salve le libertà fondamentali, stabilisce che «le disuguaglianze sociali ed economiche devono venire regolate in modo tale che si possa ragionevolmente presumere che siano nell'interesse di ognuno e che siano connesse a mansioni e cariche accessibili a tutti» (ibid.).
    Il secondo principio vuole individuare criteri di distribuzione dei benefici risultanti dalla cooperazione sociale tali da permettere la massima soddisfazione dei bisogni incentivando la produzione di beni che soddisfino i bisogni di tutti premiando le capacità usate a beneficio della società; quindi stabilisce che la distribuzione di beni primari quali prerogative legate a posizioni di responsabilità, reddito e ricchezza può essere diseguale, ma a condizione che gli incentivi siano collegati a mansioni a cui ognuno possa candidarsi e promuovano non un maggiore benessere medio ma un miglioramento della condizione del più svantaggiato. Questo principio sarebbe giustificato dalla regola del maximin (il "massimo dei minimi"), secondo la quale il decisore razionale in condizioni d'incertezza compie la scelta che minimizza la perdita possibile.
    L'ordinamento lessicografico dei principi e la priorità dei diritti degli individui rispetto alle considerazioni di efficienza o di benessere aggregato rappresentano i punti che differenziano la teoria della giustizia rawlsiana da quella utilitarista. Rawls già nel 1971 presentava la sua teoria come kantiana, proponendo un'interpretazione kantiana della persona come psicologia morale delle parti contraenti e aggiungendo che la procedura contrattuale può essere letta come una riproposizione dell'idea kantiana dell'imperativo categorico. In seguito ha precisato che le parti contraenti non sono da intendere come egoiste, ma come persone razionali che, nella scelta dei principi, vogliono esprimere questa loro essenza, avendo come interesse primario l'interesse al rispetto di sé come soggetti autonomi che cercano di realizzare una propria concezione del bene.
    Inoltre ha precisato che la morale kantiana è diversa dall'intuizionismo in quanto non ha fatti morali da scoprire ma segue invece una procedura costruttiva che non scopre ma crea fatti morali in un modo che esprime l'essenza di persone razionali dei soggetti. La precisazione risponde a obiezioni sulle assunzioni psicologiche della teoria della giustizia: l'adozione della regola del maximin non sembra giustificabile in base alla teoria della scelta razionale, e pare dipendere piuttosto da un'avversione al rischio esagerata. La risposta di Rawls è che l'idea di dignità della persona è una nozione kantiana che si basa non su assunzioni di psicologia empirica ma soltanto su una psicologia morale che specifica la concezione più ragionevole della persona compatibile con i fatti noti sulla natura umana.
    Sono state sollevate obiezioni anche sulla giustificazione della priorità della libertà. La risposta di Rawls è che le libertà fondamentali sono condizioni fondamentali necessarie per sviluppare ed esercitare la capacità di perseguire la propria concezione del bene da parte del singolo, nonché l'esercizio e lo sviluppo del senso della giustizia. A proposito di un'ulteriore obiezione sull'universalismo e sull'individualismo dei principi di giustizia vi è stata una lunga discussione, cui hanno partecipato i comunitaristi Michael Sandel (n. 1953), Alasdair Maclntyre, Charles Taylor (n. 1931), Michael Walzer (n. 1935) in opposizione ai liberali Rawls e Ronald Dworkin (n. 1931). I comunitaristi hanno ripreso motivi hegeliani e aristotelici per difendere una concezione del soggetto concreta, una concezione della comunità che ne riconosca il ruolo nel costituire l'identità delle persone, una concezione della giustizia che riconosca alla base del giusto una concezione condivisa del bene.
    In Liberalismo politico del 1993 Rawls ha riformulato la sua teoria immunizzandola dalle obiezioni attraverso l'introduzione della distinzione fra metafisico e politico, e presentando la giustizia come equità come concezione solamente politica, distinta da concezioni morali metafisiche o complessive (ivi, pp. 65-71). La teoria rinuncia alle sue pretese di universalità ed è presentata come esplicitazione delle assunzioni più profonde incorporate nelle istituzioni delle società liberaldemocratiche occidentali; rinuncia a una giustificazione da un punto di vista astratto, e la posizione originaria diviene soltanto un modo di presentazione, mentre la giustificazione starebbe tutta nel procedimento ripreso da Ross di chiarificazione delle nostre intuizioni morali. Queste sono giudizi ponderati sui quali abbiamo convinzioni ferme. La difficoltà principale è che, siccome le intuizioni sono non proposizioni innegabili ma credenze che fanno parte di una tradizione cui aderiamo a ragion veduta, la teoria in realtà consiste in una sistematizzazione di una particolare tradizione morale.
    L'innovazione principale è l'idea di consenso per intersezione. Questo è il consenso che si può creare intorno a una concezione debole del bene fra diverse concezioni complessive. Queste forniscono risposte generali sul bene, capaci di orientare un'esistenza umana nel suo complesso, ma riconoscono di avere in comune una concezione minimale del bene (tolleranza, pluralismo, eguale rispetto per le persone) da cui il giusto è inseparabile e che dà luogo alla concezione politica della giustizia condivisa. I motivi con i quali ognuna di queste concezioni complessive giustifica i contenuti della concezione minimale sono diversi; e tuttavia è possibile di fatto trovare intorno a questi contenuti un consenso di una maggioranza schiacciante di tradizioni morali ragionevoli, maggioranza che lascia esclusi solo esigui gruppi minoritari di fanatici (ivi, pp. 58-9). Il procedimento vuole realizzare il progetto originale di partire da alcune intuizioni per elaborare principi più generali che ci permettano di affrontare in modo ragionevole i casi sui quali i nostri giudizi sono meno sicuri. Nella prima versione, collegando la scelta dei principi a un procedimento descritto in termini di scelta razionale, Rawls sembrava avanzare la pretesa di un loro carattere universale e assoluto; in seguito rinuncerà al criterio del maximin, che derivava dalla scelta razionale ma era stato criticato in base a considerazioni fondate sulla scelta razionale stessa, per sostituirvi l'idea di un accordo fra le parti contraenti su un livello minimo storicamente dato di beni primari da riconoscere come indispensabile per perseguire una propria concezione del bene nelle condizioni sociali date, e riconoscerà che intendere la giustizia come equità come risultato della scelta razionale era un errore e che la prova della sua teoria si basa sull'idea di consenso per intersezione. Il motivo d'interesse maggiore della nuova versione della teoria è questo procedimento di giustificazione che ha aspetti simili al metodo dei principi di Beauchamp e Childress.
    L'opera di Rawls ha cambiato la natura della filosofia politica riportandola a essere, come ai tempi di Aristotele, parte dell'etica. Nei decenni successivi si è sviluppato un filone di letteratura chiamato per lo più "etica pubblica" che comprende autori come Robert Nozick (1938- 2002), Ronald Dworkin e Michael Walzer e che discute teorie normative a proposito di giustizia distributiva, eguaglianza, diritti umani. Un filone parallelo è rappresentato dalla rinascita dell'etica economica che ha visto lo sviluppo di un filone di letteratura al quale hanno contribuito Amartya Sen (n. 1933), Albert Hirschman (n. 1915) e Amitai Etzioni (n. 1929), che ha discusso questioni come il ruolo dei codici morali come precondizioni del funzionamento dei mercati, i limiti del modello di agente razionale della teoria economica neoclassica, i paradossi della scelta collettiva.

    NB Cf Teoria della giustizia (1971, Feltrinelli 2010.

    (Fonte: Breve storia dell'etica, Carocci 2012, pp. 219-224)


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