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    Il male nel pensiero

    filosofico contemporaneo

    Leonardo Messinese


    L
    a filosofia, talvolta considerata come separata dalla vita, è l’espressione pensante dello sguardo umano che si affaccia sulla storia del mondo. Un tale sguardo, soprattutto in occasione di alcuni eventi eccezionali, si posa sul male dell’esistenza e s’interroga alla ricerca di un sapere che possa, almeno in parte, appagare l’intelligenza e il cuore dell’uomo. L’espressione «male dell’esistenza» intende significare il male che appartiene all’esistenza umana, innanzitutto in quanto è il male del quale a vario titolo essa «fa esperienza». Ed è il male che riguarda pure chi mi è lontano nello spazio e nel tempo, ma non così tanto da non far parte con me di un’unica storia del mondo.

    Ma cos’è questo male che ha acquisito una dimensione universale? A cosa mi riferisco, propriamente, quando penso al male e chiedo «perché» ci sia e «da dove» provenga? Non c’è dubbio che è soprattutto alla sofferenza e, in particolare, alla sofferenza degli innocenti, che l’uomo contemporaneo guarda e su cui s’interroga. L’«esperienza del male» oggi è intesa, innanzitutto, come esperienza del dolore e, in particolare, del dolore sofferto ingiustamente. Il pensiero filosofico contemporaneo ha dato voce a questa «esperienza del male». Ed esso, prestandole la massima attenzione e aprendosi alla più grande compassione, ha dichiarato la fine di ogni rassicurante «teodicea», giudicandola buona forse a dare una risposta di carattere generale al problema suscitato dal male e, tuttavia, incapace di offrire un senso alla concreta sofferenza di ogni singola persona. In verità si tratta di un giudizio troppo severo, ma del quale, comunque si deve tenere conto.
    L’esperienza del male nel corso della storia ha assunto volti diversi. Nel secolo scorso un evento terribile e spaventoso ha segnato un punto di non ritorno nella riflessione filosofica, ma anche teologica, sul male. Questo evento ha il nome di un campo di concentramento e il volto di milioni di vittime innocenti: Auschwitz. In questi ultimi tempi, poi, a motivo della pandemia, abbiamo dovuto assistere, con una grande pena nel cuore, a una serie che sembrava infinita di processioni di mezzi militari che contenevano bare accatastate una sull’altra. E abbiamo pure assistito al pianto di figli, di genitori, di fratelli e sorelle, di amici, i quali avevano potuto vedere tutto questo soltanto in televisione, senza che potesse esserci per quelle bare il calore di un fiore gentile, solo adornate da un’indicibile tristezza e accompagnate da una silenziosa preghiera.

    Hans Jonas e Theodor Wiesengrund Adorno sul problema del male

    È nota la tesi di Hans Jonas secondo la quale dopo Auschwitz non è più consentito attribuire a Dio l’attributo dell’onnipotenza. Se si vuole continuare a credere nell’esistenza di un Dio buono, è necessario giungere a un nuovo concetto di Dio che la escluda. Jonas rileva che Kant, pur criticando il valore delle prove dell’esistenza di Dio, aveva sostenuto che la relativa questione restava irrinunciabile per la ragione umana (H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, Il melangolo, Genova 1989, cfr. p. 20). In altri termini, Kant non avrebbe accettato la tesi neopositivista secondo la quale le questioni metafisiche sono alla lettera un «non senso». Essendo d’accordo con lui, Jonas ritiene che sia perciò possibile «lavorare sul concetto di Dio, anche se non vi è nessuna prova dell’esistenza di Dio» (ibidem). E siccome lo stesso Kant, secondo l’interpretazione che Jonas offre del di lui pensiero, per tale opera si era affidato alla «ragione pratica» e non più alla ragione teoretica, Jonas, da parte sua, analogamente ritiene che un tale lavoro debba muovere da «una esperienza unica e spaventosa» quale è quella di Auschwitz (cfr. ibidem).
    L’esperienza della malvagità umana è stata così spaventosa che Jonas si chiede: «quale Dio poteva permetterlo? (ivi, p. 21). Forse che un Dio onnipotente potrà ancora essere ritenuto sommamente buono dopo Auschwitz? Se si ritiene che non ci si debba arrestare a un’«incomprensibilità» di Dio – e un Dio che sia totalmente incomprensibile non è quello della tradizione ebraica alla quale Jonas appartiene – allora si dovrà convenire che l’attributo della bontà divina non può coesistere con quello dell’onnipotenza. «Solo a questa condizione possiamo affermare che Dio è comprensibile e buono e che nonostante ciò nel mondo c’è il male» (ivi, p. 34).
    Nei confronti di Jonas si potrebbe osservare che le sue conclusioni circa la necessità di affermare un’«impotenza» di Dio sembrano essere affrettate. Una cosa, infatti, è sostenere che per quanto noi possiamo comprendere, stante la realtà del male, se si tengono uniti in Dio l’attributo della bontà e quello dell’onnipotenza, saremmo in presenza di un Dio incomprensibile. Tuttavia la situazione cambia allorquando si tenga presente che i concetti che possediamo degli attributi divini sono «analogici» ed è innanzitutto per questo motivo che a noi risulta incomprensibile, di fronte all’esperienza del male, l’unità in Dio di bontà e onnipotenza. Secondo quanto spiega bene Jacques Maritain, «quando sono applicati a Dio i nostri concetti analogici non portano soltanto all’infinito la perfezione che essi designano nella creatura: la bontà di Dio, la sua sapienza, non sono soltanto la bontà e la sapienza quali noi le conosciamo in questa terra e portate all’infinito. Esse sono infinite, sì, ma perché sono essenzialmente diverse […] dalle perfezioni di questa terra designate dallo stesso concetto che le designa in Dio (J. Maritain, Riflessioni sul sapere teologico, in Id., «Approches sans entraves». Scritti di filosofia cristiana, vol. II, Città Nuova, Roma, p. 71).
    Se volgiamo ora la nostra attenzione verso la riflessione svolta da Adorno, possiamo notare che essa possiede un respiro più ampio e, anche per questo, la sua critica nei confronti della metafisica e della «teologia» assume un volto di maggiore radicalità, mentre in Jonas non si ha un aut-aut necessario tra l’affermazione della realtà del male e l’affermazione dell’esistenza di Dio, sebbene quest’ultima non possa avvalersi dell’ausilio della pura ragione.
    Adorno si confronta con il concetto tradizionale di metafisica, in virtù del quale si ha un trascendimento dell’esperienza e delle deficienze in essa contenute. In tal modo, la metafisica si costituisce come un sapere che, distaccandosi dalla realtà sensibile e trasferendo quest’ultima in un mondo intelligibile di puri concetti, finisce inevitabilmente per dare una risposta soltanto apparente alle difettosità che rendono problematica la realtà dell’esperienza. E, ovviamente, la realtà del male detiene un posto tutto speciale tra queste difettosità del mondo. E’ in tale contesto che egli mette dinanzi ai nostri occhi l’«esperienza Auschwitz» quale espressione di un salto di qualità ch’è intervenuto nella realtà e tale da togliere ogni residuo dubbio riguardo all’effettiva consistenza della metafisica nel dare risposta al problema del male.
    E’ opportuno ascoltare, su questo snodo essenziale, la stessa voce del filosofo. «Con Auschwitz, e con questo non intendo solo Auschwitz ma il mondo della tortura che continua dopo Auschwitz e sulla cui continuazione riceviamo i più terrificanti resoconti dal Vietnam1 – con Auschwitz il concetto di metafisica è effettivamente cambiato nel più profondo […]. E’ divenuto impossibile quel carattere affermativo della metafisica che essa ha avuto per la prima volta nella dottrina aristotelica e già in quella platonica. L’affermazione di un’esistenza o di un essere concepito come in sé dotato di senso e ordinato al principio divino, sarebbe, come tutti i principi del vero, del bello e del buono che i filosofi hanno concepito, soltanto un puro scherno rispetto alle vittime e all’immensità del loro supplizio» (T.W. Adorno, Metafisica. Concetto e problemi, Einaudi, Torino 2000, p. 123).
    Anche per Adorno, e con un‘insistenza maggiore di quanto sia dato vedere in Jonas, allorquando si consideri il pensiero metafisico da Platone a Hegel, si deve registrare un’opposizione radicale – sebbene esso non la riconosca come tale – tra «esperienza» e concetto». Viceversa, è guardando in faccia il contenuto dell’esperienza, che dovranno essere revisionati i concetti che sono stati ereditati dalla tradizione filosofica. L’«esperienza Auschwitz» ha fatto crollare definitivamente l’impianto concettuale della metafisica che si era mantenuto costante lungo il corso della sua storia. La critica rivolta da Adorno alla teodicea, non solo a quella svolta organicamente da Leibniz nei suoi Saggi di teodicea, si basa su tale assunto di fondo. E’, quindi, quest’ultimo che dovrebbe essere analizzato preliminarmente, incominciando a discutere il modo in cui Adorno concepisce la relazione tra “concetto” e “realtà”, dal momento che egli ritiene che soltanto l’esperienza abbia titolo per esprimere ciò che è reale.

    Il primato del positivo sul negativo e del bene sul male

    Guardando al pensiero contemporaneo, il male ci si è presentato nel volto dell’«esperienza» del male e tale esperienza, pure immediatamente, è apparsa nella forma di un «problema». Se l’esperienza del male, o del negativo, si costituisce fin da subito come problema, è segno che essa nella considerazione che la tematizza è, altrettanto immediatamente, in relazione con ciò rispetto a cui, nella sua negatività, «fa problema». Questo, però, vuol dire che, come il negativo implica la relazione con il positivo, così il male implica la relazione con il bene. E in quanto lo implica, il negativo costituito dal male è, di per se stesso, già affermazione del positivo.
    Questa prima considerazione può fungere da guida iniziale per una rivisitazione filosofica del tema del male. Essa suggerisce la necessità dell’affermazione del positivo – il bene – in assenza del quale ciò che è chiamato «il male» farebbe parte dell’esperienza senza costituirsi come un problema e, quindi, anche senza che sia giudicato come il «negativo» da eliminare sul piano teoretico e da vincere sul piano pratico. Una seconda considerazione, sempre restando nell’ordine metafisico, conduce a chiedere quale sia la «natura» del positivo, cioè del bene ch’è implicato nell’affermazione di un certo contenuto dell’esperienza come «male». A tale questione è possibile rispondere in modo adeguato solo offrendo una «dottrina dell’essere» e cioè una metafisica la quale, parlando ora ipoteticamente, potrebbe anche non esser costituita dalla metafisica greca perfezionata da Agostino e da Tommaso. Essa potrebbe configurarsi, ad esempio, come necessità di identificare la positività del bene assoluto con l’integrità dell’«essere umano» e, di conseguenza, essere caratterizzata dall’assumere tale integrità come criterio assoluto per qualificare un certo contenuto dell’esperienza come «male» e un altro come bene. Anche una posizione come questa sarebbe espressione di una dottrina dell’essere. Una terza considerazione porta ad affermare che è ancora nel contesto di un quadro metafisico che sono poste in modo appropriato le classiche questioni circa il «perché» del male e il «da dove» del male, a partire dalle quali si aprono l’orizzonte «speculativo» della comprensione del male nel mondo e quello «pratico» in vista di una vittoria nei confronti del male.

    Il pensiero metafisico e il problema del male

    Se valgono queste sintetiche considerazioni, la metafisica così aspramente criticata e la teodicea che da essa trae origine possono di nuovo tornare legittimamente sulla scena del pensiero filosofico. Non intendo sostenere che la metafisica classica e la teodicea moderna restino in assoluto non toccate dalla riflessione contemporanea sul male, che non abbiano bisogno di essere integrate, quanto piuttosto che nel suo procedere critico la contemporaneità poggia su alcuni assunti di base che appaiono essi stessi meritevoli di esser messi in questione.
    Mi riferisco, in primo luogo, a un tema ch’è stato affrontato in precedenza, cioè al modo in cui generalmente nella filosofia del Novecento è stato inteso il rapporto tra «esperienza» e «logos». In secondo luogo, al modo in cui l’assunzione del problema del male nel contesto di una riflessione di ordine metafisico è stata recepita. L’ottimismo metafisico non consiste affatto in una negazione, più o meno camuffata, della realtà del male, quanto invece nell’affermazione che l’essere può esser ferito, ma non annullato e che il male non è in grado di togliere il bene. La metafisica, inoltre, consente di chiarire la ragione per la quale Dio, pur essendo il Signore di tutte le cose, non è causa del male: non è causa del male morale, in quanto quest’ultimo consiste in una «deficienza dell’agente» (cfr. S. Th., I, q. 49, a. 2, resp.); e non è causa del male fisico, se non nel senso che, «mentre causa nelle cose il bene dell’ordine dell’universo, causa come conseguenza e quasi accidentalmente la corruzione delle cose» (ibidem). Queste considerazioni non consentono, da se stesse, di dare risposta al «perché» e al «da dove» del male, ma ne costituiscono soltanto come dei «prolegomeni».

    Il contributo del pensiero post-metafisico

    Per esemplificare ulteriormente quale sia il sentire comune della riflessione contemporanea, si può ricordare quale fosse la posizione di Paul Ricoeur. Egli riteneva che non si debba rinunciare a pensare il male, ma che lo si debba fare rompendo «con la mescolanza di discorso religioso e di discorso filosofico nella onto-teologia» e, cioè, rinunciando «al progetto stesso della teodicea» (Il male, cit., p. 40).
    Il contributo maggiore del pensiero post-metafisico al problema del male è di far riflettere meglio sui «limiti» delle soluzioni che possono essere offerte dalla «filosofia pura» anche quando si faccia esplicito riferimento alla metafisica. Il male, inclusa la morte, soprattutto se considerato in relazione al bene di ogni singola «persona umana», ultimamente sfugge a una piena comprensione razionale e resta circondato da un alone di «mistero» (cfr. J. Maritain, Da Bergson a Tommaso d’Aquino, cit., pp. 195-202). Sotto questo aspetto, la critica di Kant alla teodicea può essere condivisa per quel tanto che mette in guardia la ragione dal volere in modo sistematico «giustificare la saggezza morale nel governo del mondo dinanzi ai dubbi sollevati contro di essa, dubbi ispirati da ciò che ci dà a conoscere in questo mondo l’esperienza» (I. Kant, Sul fallimento di tutti i tentativi filosofici in teodicea, in Id., Scritti sul criticismo, Laterza, Bari 1991, p 139). D’altra parte, come scrive sempre Ricoeur, «il problema del male non è solo un problema speculativo: esso esige la convergenza tra pensiero, azione (in senso morale e politico) e una trasformazione spirituale dei sentimenti» (Il male, cit., p. 47).

    Responsabilità dell’uomo e fede escatologica

    Insieme con la speculazione filosofica e teologica e con la prassi etica e politica, è l’apertura dell’orizzonte escatologico, per chi ha fede, ad offrire una nuova luce per accogliere il male e portarlo su di sé anche nel suo essere «mistero». Nel momento in cui la voce dell’uomo viene a tacere e si fa spazio all’ascolto del mistero, possono essere proferite le parole del Libro di Giobbe: «Mi metto la mano sulla bocca. Ho parlato una volta, ma non replicherò, ho parlato due volte, ma non continuerò» (Gb., 40, 4-5). In attesa del giorno in cui anche «questa cosa», come diceva il rabbino Hillel, «infine sarà capita».
    Ci si potrà chiedere: «… E nel frattempo»? Nel frattempo, cioè durante la vita nel tempo, è bene coltivare con mitezza il senso del limite e questo significa coniugare sapientemente senso di responsabilità e senso del mistero. Quando manca il primo, non si è protagonisti della propria vita e, come spesso accade, si va alla ricerca del colpevole per i mali che ci affliggono o, peggio ancora, ci si libera dal male facendo del male agli altri; e quando manca il secondo, all’iniziale delirio di onnipotenza succederà la rassegnazione e, forse, la disperazione. Ma quando l’uomo esercita la sua responsabilità nell’orizzonte del mistero e corroborato dalla verità metafisica circa la bontà dell’essere di ogni cosa, allora egli è come una «teodicea vivente».

    (Prolusione per l’Inaugurazione dell’Anno Accademico 2020-2021 della Pontificia Università Lateranense)


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