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    Esercizio

    del Cristianesimo I

    Søren Kierkegaard

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    INVOCAZIONE

    Son passati ormai diciotto secoli da quando Gesù Cristo camminava sulla terra. Ma non si tratta di un fatto come gli altri i quali, una volta passati, si dileguano nella storia e a lungo andare cadono nell'oblio. Invece la sua presenza in terra non diventerà mai un evento del passato, tanto meno qualcosa di sempre più passato, qualora si trovi ancora la fede sulla terra (Lc 18,8); infatti, se questa manca, la vita terrena di Cristo diventa un fatto remotissimo. Ma fin quando esiste un credente, bisogna ch'egli per essere divenuto tale, sia stato e, come credente, sia contemporaneo della sua presenza come i primi contemporanei; questa contemporaneità è la condizione della fede o più esattamente essa è la definizione della fede. Signore Gesù Cristo, fa' che a questo modo possiamo diventare tuoi contemporanei così da vederti nella tua vera figura e nell'ambiente dove realmente camminavi sulla terra e non nella forma di un ricordo, vuoto e insignificante, frutto di una esaltazione spensierata o sommersa nelle chiacchiere della storia; poiché non è questo l'aspetto dell'abbassamento in cui ti vede il credente, né è impossibile che sia quello della gloria in cui nessuno ancora ti ha visto. Che possiamo vederti come sei e come fosti e come sarai fino al tuo ritorno nella gloria, il segno dello scandalo e l'oggetto della fede, l'uomo umile e tuttavia salvatore e redentore dell'umanità, venuto sulla terra per amore, per cercare quelli ch'eran perduti (Mt 18,11), per soffrire e morire, e insieme preoccupato – ahimè, a ogni passo che facevi e ogni volta che chiamavi l'errante, ogni volta che alzavi la mano a far segni e prodigi e ogni volta che senza alzarla soffrivi inerme l'opposizione degli uomini – sì, preoccupato di dover ripetere sempre: «Beato colui che non si scandalizza in me!» (Mt 11,16). Che noi possiamo vederti così, ma senza dover scandalizzarci in te.

     

    L'INVITO

    VENITE A ME, VOI TUTTI CHE SIETE AFFATICATI E OPPRESSI, E IO VI RISTORERÒ [1]

    O meraviglia! Quale meraviglia che colui che ha da porgere il soccorso sia lui che dice: «Venite a me!». Quale amore! Amorosamente colui che può aiutare, ecco che già dà prova d'amore aiutando chi invoca aiuto: ma che dire di colui che offre spontaneamente l'aiuto? Anzi egli l'offre a tutti; sì, proprio a tutti coloro che non possono ricambiarglielo! Soltanto offrirlo? Più ancora, gridarlo: come se il soccorritore stesso avesse bisogno di soccorso, come se proprio lui che può e vuole soccorrere tutti fosse in un certo senso il bisognoso, che è lui che sente il bisogno e al punto di sentire il bisogno di aiutare, il bisogno di volgersi ai sofferenti per aiutarli!

    I
    «Venite». Certo, non c'è nulla di strano che colui che si trova in pericolo e ha bisogno forse urgente di soccorso, ch'egli gridi: «Venite!». Come non c'è nulla di strano che un ciarlatano si metta a gridare: «Venite a me, io guarisco tutti i mali». Ahimè, come nel caso del ciarlatano è fin troppo vero il contrario ossia ch'è il medico ad aver bisogno degli ammalati! «Venite a me voi tutti che potete pagare la guarigione, o almeno le medicine: qui c'è il rimedio per chiunque... può pagare! Forza: venite qua, venite!».
    Ma di solito tocca andare a cercare colui che può aiutare. E quando lo si è trovato, è forse difficile potergli parlare; e se si è riusciti a parlargli, occorrerà forse pregarlo a lungo; e una volta pregato a lungo, non si lascerà smuovere se non dopo molte lungaggini per poter alzare il prezzo; e se qualche volta rifiuta l'onorario per la sua prestazione o vi rinuncia con un gesto di magnanimità, ciò non è se non un espediente per far risaltare il valore infinito dei suoi servizi. Invece colui che si è prestato, e si presta ancora qui, egli stesso va in cerca di coloro che hanno bisogno di lui; va di persona in giro alla ricerca e chiama quasi in tono supplichevole: «Venite a me!». Egli, l'unico che può soccorrere e soccorre con l'unica cosa necessaria, il salvare dall'unica malattia veramente mortale, [2] non attende che qualcuno vada a lui; egli viene da sé, senza essere chiamato, perché è lui anzi colui che chiama, e che porge l'aiuto: e quale aiuto! Certo, quel semplice saggio dell'antichità [3] aveva infinite ragioni, come hanno altrettanto torto quelli che fanno il contrario, nel non dare prezzo alla sua persona o al suo insegnamento; anche se, così facendo, egli in un altro senso mostrava con nobile orgoglio l'eterogeneità del prezzo. Ma l'amore non lo preoccupava al punto da invitare qualcuno a venire a lui; egli cioè, spinto non so se da una ragione soggettiva o oggettiva, non era del tutto sicuro che cosa il suo aiuto potesse significare; infatti, più uno è certo che il suo sia l'unico rimedio e più, umanamente parlando, ha motivo di alzare il prezzo e viceversa meno è certo e tanto più, per fare tuttavia qualcosa, ha motivo d'affrettarsi a offrire il suo possibile aiuto. Ecco invece colui che si proclama salvatore, e sa di esserlo, dire preoccupato: «Venite a me!».
    *
    «Venite a me, voi tutti!». O meraviglia! Infatti, che qualcuno, ch'è forse incapace in fin dei conti di aiutare anche un solo uomo, si perda in ciance per invitare tutti, non c'è proprio nulla da meravigliarsi: una volta che gli uomini sono quelli che sono. Ma quando si ha la certezza assoluta di poter soccorrere, quando inoltre si è disposti ad aiutare e si è pronti a consacrarvi tutto il proprio tempo e con ogni sacrificio, di solito si usa formulare una riserva, fare una scelta. Per quanto si sia ben disposti, non si intende tuttavia soccorrere tutti alla rinfusa, non ci si vuole mettere così alla mercé di tutti. Ma egli, l'unico che in verità può soccorrere e può soccorrere in verità tutti, l'unico dunque che può assolutamente invitare tutti: egli non pone nessuna condizione, ma pronuncia anzi quest'invito che sembra affidato a lui dal principio del mondo: «Venite a me, voi tutti!». Oh, sacrificio umano, anche quando sei bello e nobile al grado estremo e quando noi tutti ti ammiriamo, rimani tuttavia sempre al di sotto di quell'abnegazione che sacrifica ogni determinazione da parte propria senza la minima preferenza nella prontezza a soccorrere! Oh, quale amore al punto da negare ogni valore al proprio io, al punto da dimenticare interamente se stesso per essere completamente colui che aiuta, completamente cieco riguardo alla persona soccorsa, infinitamente conscio che c'è un sofferente da soccorrere, non importa poi chi egli sia; voler così assolutamente aiutare tutti e, ahimè, con quale differenza da tutti!
    *
    «Venite a me!». O meraviglia! Infatti la compassione umana fa anche volentieri qualcosa per coloro che sono affaticati e oppressi; dà da mangiare agli affamati, veste gli ignudi, fonda istituzioni di beneficenza e, se la compassione è ancora più profonda, va anche a fare visita agli affaticati e oppressi (Mt 25,35 ss.). Ma invitarli a sé, non è possibile: uno dovrebbe allora cambiare il regime di vita e tutte le sue abitudini. Quando si vive nell'abbondanza o almeno nella pace e nella gioia, non conviene far vita comune e frequentare ogni giorno i poveri e i miserabili, coabitare con coloro che sono affaticati e oppressi. Per poterli invitare, bisogna fare completamente la stessa vita come il più povero, come il più trascurato dell'infima plebe, esperto dei dolori e delle pene della vita (Is 53,1 ss.), e appartenere allo stesso rango di coloro che sono invitati, gli affaticati e oppressi. Quando si vuole invitare il sofferente, bisogna o cambiare stato facendosi uguali col sofferente oppure cambiare quello del sofferente facendolo uguale al proprio: altrimenti il contrasto metterebbe in maggior risalto la differenza. E se si vogliono invitare a sé tutti i sofferenti (poiché non è difficile fare un'eccezione, facendo cambiare stato a un individuo singolo), questo si può fare soltanto in un modo, ossia cambiando il proprio stato alla stregua del loro, a meno che la cosa non fosse già disposta a questo scopo, com'era il caso di colui che dice: «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi» (Mt 11,28). Questo egli disse. E coloro che hanno vissuto con lui videro e vedono che in verità non c'è assolutamente nulla nel suo modo di vivere che contraddica a questo. Ma la sua vita l'esprime con la muta e sobria eloquenza delle opere, anche se non avesse mai pronunciato queste parole: «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi». Egli mantiene la sua parola, egli stesso anzi è la Parola, egli è ciò che dice, e quindi in questo senso egli è la Parola.
    *
    «Tutti voi che siete affaticati e oppressi». O meraviglia! La sola cosa che lo preoccupa è che ci possa essere anche uno solo, fra coloro che sono affaticati e oppressi, che non sia riuscito a udire il suo invito; non si preoccupa se saranno troppi a venire. Oh, in un cuore magnanimo c'è sempre posto e quale cuore fu mai più largo del suo! Come il singolo voglia capire l'invito, egli lo lascia decidere a ognuno. La sua coscienza è libera: egli ha invitato tutti coloro che sono affaticati e oppressi.
    Ma che significa allora essere affaticato e oppresso? perché non lo spiega con maggior precisione, affinché si sappia con esattezza chi egli considera tale? perché è così laconico? O spirito gretto! egli è laconico per non essere gretto. È proprio dell'amore (poiché «l'amore» è per tutti) d'impedire che anche uno solo sia preso dall'angoscia del torturarsi per sapere se anch'egli sia fra gli invitati. Esigere ulteriori precisazioni non significa forse essere un egoista che calcola se questa o quella particolarità si adatti e convenga al caso suo,senza pensare che a forza di continue precisazioni diventa sempre più inevitabile di essere proprio quel singolo per il quale diventa sempre più incerto se egli sia fra gli invitati? O uomo, perché il tuo occhio guarda solo al tuo interesse particolare? perché il tuo occhio è cattivo, mentre il suo è buono (Mt 20,15)? Il suo invito rivolto a tutti gli fa aprire le braccia e così egli è come un'immagine eterna. [4] Appena viene una determinazione più precisa, che forse potrebbe dare al singolo un'altra forma di certezza, ecco che il volto dell'invitante cambia aspetto e un'ombra trascorre sul suo volto.
    *
    «Io vi ristorerò». O meraviglia! Infatti potrebbe anche darsi che queste parole: «Venite a me!» siano da intendere: «Fermatevi qui con me, son io che vi ristoro», o anche: «Il fermarsi qui con me è il ristoro». Ma qui non avviene come di solito quando l'uomo che aiuta dicendo: «Venite a me!», deve poi dire: «Ora andatevene!»; e deve spiegare a ognuno dove si trova il rimedio di cui ha bisogno, dove cresce la pianta capace di alleviare i suoi dolori e di guarirli, dove si trova il cantuccio quieto per ristorarsi dalla fatica oppure dove stia quella parte del mondo in cui non si è affaticati. No, egli apre le braccia e invita tutti; [5] oh, se tutti gli affaticati e oppressi venissero a lui! Egli li abbraccerebbe tutti dicendo: «Fermatevi ora con me, perché il restare con me è il riposo». L'aiutante è l'aiuto, o meraviglia! Egli invita tutti e vuol soccorrere tutti. Egli ha un modo di assistere i malati ch'è proprio per ciascuno, come se non avesse che quel singolo. Del resto ogni medico è costretto a dividersi fra i suoi molti pazienti i quali, per quanti siano, sono ben lungi dall'essere tutti. Egli ordina il rimedio, spiega quel che bisogna fare, come e quando usarlo..., e poi passa a un altro; oppure, quando il malato è andato a farsi visitare nel suo studio, il medico poi lo congeda. Il medico non può starsene tutto il giorno con un solo malato: tanto meno può tenersi tutti i suoi pazienti in casa e starsene tutto il giorno con uno solo, senza trascurare gli altri. Per questo anche l'aiutante e l'aiutato non coincidono. Il malato tiene tutto il giorno presso di sé il rimedio che il medico ha prescritto, mentre il medico lo va a visitare ogni qual tratto oppure è il malato che ogni tanto va da lui. Ma quando chi aiuta s'identifica con l'aiuto, egli deve stare tutto il giorno accanto al malato o il malato accanto a lui; o meraviglia, che proprio questo aiutante sia colui che invita tutti!

    II
    VENITE A ME, VOI TUTTI CHE SIETE AFFATICATI E OPPRESSI, E IO VI RISTORERÒ

    Che enorme varietà di tipi, quale diversità quasi infinita di invitati! Infatti un uomo, un pover'uomo qualsiasi, può ben provare a rappresentarne qualcuna in particolare; ma l'invitante deve invitare tutti, se non proprio ciascuno singolarmente, ossia come singolo.
    Così l'invito è diffuso ai quattro venti (Lc 14,21), corre per le strade maestre e per i sentieri solitari, perfino per i più solitari, perfino là dove il sentiero è così solitario che uno solo lo conosce e nessun altro; dove c'è soltanto una traccia, quella dell'infelice ch'è fuggito per quella via con la sua miseria, dove manca ogni traccia che indichi la possibilità di tornarsene indietro: anche lì penetra l'invito che trova facile e sicura la via del ritorno e tanto più facilmente, quando esso riconduce il fuggiasco all'invitante. Venite a me, venite voi tutti: anche tu, e tu ancora, e tu pure, che sei il più solitario di tutti i fuggitivi.
    Così l'invito si diffonde, e dappertutto dove c'è un crocevia egli si ferma e chiama. Come per suonare l'allarme di guerra, il trombettiere si volge ai quattro punti cardinali, così dappertutto, dovunque c'è un crocevia, suona l'invito e non con un suono indistinto – chi potrebbe allora venire? – ma con la promessa dell'eternità.
    Egli si ferma sul crocevia, dove la sofferenza di questa vita terrena ha piantato la sua croce, e chiama: «Venite a me», voi tutti, poveri e miserabili; venite voi che dovete pensare nella privazione per assicurarvi, non un futuro spensierato, ma un avvenire di miseria. O amara contraddizione: dover pensare per assicurarsi il peso sotto il quale si geme, il peso che si fugge! Voi, che siete umili e disprezzati, della cui sorte nessuno, assolutamente nessuno si interessa, meno di quella di un animale domestico ch'è tenuto in maggior conto di voi! Voi, che siete malati, storpi, sordi, ciechi, infermi, venite a me! Voi, che giacete in un letto di sofferenze, venite anche voi; sì, l'invito ha l'ordine di far venire anche... i paralitici! Voi, lebbrosi! L'invito spezza tutte le differenze per raccogliere tutti; esso vuol ricuperare il bene perduto per colpa della discriminazione che si fa quando si pone qualcuno a capo di milioni di sudditi dandogli il possesso di tutti i beni della fortuna e condannando un altro all'esilio nel deserto; per questo (o crudeltà!), perché (o crudele conclusione umana!) perché egli è misero, indescrivibilmente misero e quindi per questo, perché ha bisogno di aiuto o almeno di compassione; e infine, perché la compassione è una trovata meschina, una trovata crudele, dove avrebbe maggior bisogno di essere compassionevole e di avere compassione solo là dove in verità non c'è compassione! Voi, feriti nel cuore, che soltanto grazie al dolore siete riusciti a sapere che l'uomo ha un cuore diverso dall'animale, che sapete cosa significa soffrire e cosa significa che il medico può aver ragione quando dice che un uomo è sano e insieme è malato di cuore; voi, che foste traditi dall'infedeltà e ai quali la compassione umana (poiché la compassione umana raramente si fa aspettare) ha riservato lo scherno. Voi tutti, le vittime dell'ingiustizia, gli offesi e i maltrattati; voi tutti, nobili spiriti, i quali – ciò che ognuno di voi ben sa – avete mietuto la ricompensa dell'ingratitudine perché siete stati tanto stupidi da essere nobili, perché siete stati abbastanza scemi da essere amabili, disinteressati e fedeli. Voi tutti, vittime della perfidia e del tradimento, della chiacchiera e dell'invidia, che la spregevolezza ha gettato nel fango e la vigliaccheria ha preso di mira [6] o che vi siete tirati in disparte in cerca di un posto per morire oppure siete calpestati dalla folla dove nessuno riesce a far riconoscere il suo diritto, nessuno s'accorge dell'ingiustizia che patite, nessuno si preoccupa dove e perché soffrite, mentre la massa straripante di salute bestiale vi butta nella polvere. Venite a me!
    L'invito sta sul crocevia che divide la morte dalla vita. Venite a me, voi tutti che siete afflitti, voi che vi siete affaticati invano! Certamente nel sepolcro c'è pace. Ma sedere presso un sepolcro o starsene presso un sepolcro o andare a visitare un sepolcro non significa ancora giacere in un sepolcro; ripetere di continuo la lettura dei propri scritti, rileggere l'epigrafe che uno ha composto per il suo sepolcro e, ciò ch'egli comprende meglio di chiunque, cioè il «qui giace!», questo non significa giacere nel sepolcro. Nella tomba c'è riposo. Ma accanto alla tomba non c'è riposo, ossia: «Fin qui, ma non oltre, così puoi tornartene a casa». Ma per quanto spesso tu tornassi, anche ogni giorno, col pensiero o col tuo passo, a quella tomba, tu non vai oltre neanche di un passo. Tutto questo esige grande sforzo e non esprime riposo. Venite a me, dunque! Qui c'è la via per avanzare, qui c'è il riposo presso il sepolcro, il riposo nel dolore d'una perdita presso colui che in eterno riunisce coloro che sono separati con legami più saldi di quelli con cui la natura unisce i genitori ai figli e i figli ai genitori. Ahimè, essi rimangono però separati; con legami più saldi di quelli con cui il prete unisce l'uomo e la donna, ahimè, spezzati poi dal divorzio! con legami più indissolubili di quelli che legano l'amico, ahimè, si spezzano anch'essi! Dovunque interviene la separazione a portare dolore e inquietudine; ma qui c'è riposo! Venite a me anche voi! Voi, che avete la dimora assegnata fra le tombe; voi, che la società umana ha considerato per morti, senza pianti o rimpianti, non sepolti eppur morti, cioè senza appartenere né alla vita né alla morte. Ahimè, voi dinanzi ai quali la società umana si è crudelmente chiusa e davanti ai quali tuttavia nessuna tomba pietosa s'è aperta ancora! Venite a me anche voi: qui c'è il riposo, qui c'è la vita!
    L'invito sta sul crocevia, là dove la strada del peccato devia dal giardino dell'innocenza. Oh, venite a me, voi che gli siete così vicini! Ancora un piccolo passo sull'altra via e ne sarete infinitamente lontani. Forse non provate ancora il bisogno del riposo, forse non comprendete ciò che quella parola vuol dire; seguite tuttavia l'invito, affinché l'invitante vi salvi da ciò da cui è così arduo e pericoloso essere salvati per potere, una volta salvi, rimanere presso di lui che è il salvatore di tutti, anche dell'innocenza. Perché se mai ci fosse un posto in cui l'innocenza potesse trovarsi perfettamente pura, non dovrebbe forse aver bisogno d'un salvatore che la preservi dal male? L'invito sta sul crocevia, là dove la via del peccato s'interna sempre più nel peccato. Venite a me, voi tutti smarriti e sperduti! Qualunque sia stato il vostro smarrimento e il vostro peccato, quello più innocente agli occhi degli uomini e quello forse più spaventoso o più terribile a loro giudizio ma forse il più innocente; quello che rimase manifesto sulla terra o quello che restò nascosto ed è noto in cielo. E anche se avete ottenuto il perdono sulla terra, senza però trovare la pace interiore, oppure non avete ottenuto il perdono perché non l'avete cercato o perché l'avete cercato invano: oh, tornate, venite a me, qui c'è il riposo! L'invito sta sul crocevia dove la strada del peccato devia per l'ultima volta e scompare dagli occhi nella via della perdizione. Oh, tornate, tornate a me, venite a me! Non tremate pensando alla difficoltà del ritorno, per quanto essa sia dura; non temete il cammino difficile della conversione, per quanto aspro sia quello che conduce alla salvezza; mentre il peccato con impeto di volo, con velocità sempre crescente spinge, anzi trascina, nell'abisso con facilità incredibile: come il cavallo ch'è stato liberato completamente del suo carico non potrebbe, anche se mettesse tutte le sue forze, trattenere la carrozza che precipita ormai nell'abisso. Non disperate a ogni ricaduta che il Dio di pazienza non abbia la pazienza di perdonare, purché il peccatore si sappia umiliare. No, non temete nulla e non disperate. Colui che dice: «Venite a me!», egli vi accompagna nel cammino, da lui vengono soccorso e perdono sulla via della conversione che porta a lui, con lui c'è riposo.
    Venite a me voi tutti, venite tutti, tutti quanti; con lui c'è riposo! Egli non solleva difficoltà, non fa che una cosa: apre le sue braccia. Egli non comincerà, mentre stai soffrendo (o tu che soffri, ahimè, come fanno i giusti, anche se disposti a soccorrere!), col chiederti: non sei forse tu stesso la colpa della tua disgrazia? non hai proprio nulla da rimproverarti? È tanto facile, è umano giudicare secondo le apparenze e in base ai risultati; basta che qualcuno sia infermo o deforme, che sia fisicamente sgraziato, ecco subito pronti a giudicare: ergo, quel tipo è un poco di buono; basta che uno sia sfortunato al punto che tutto gli vada a rovescio, che non sia riuscito a combinare un bel nulla, ecco subito pronti a giudicare: ergo, quell'uomo è un cattivo soggetto. O quale raffinata forma di crudele soddisfazione non è questa voluttà di prendere coscienza della propria giustizia alle spese di un sofferente con l'attribuire la sua sofferenza a un castigo di Dio (Giov 9,2)! A questo modo quasi non si osa neppure dargli una mano, oppure prima di porgere aiuto si pone quella domanda di rimprovero per adulare la propria giustizia personale. Ma lui non t'interrogherà così, non vorrà essere il tuo benefattore in un modo così crudele! E se tu hai coscienza d'essere peccatore, egli non te lo chiederà; non finirà di spezzare la canna fessa (Mt 12,20), ma ti solleverà quando tu ti unirai a lui; non metterà in evidenza il contrasto per respingerti, così da rendere il tuo peccato ancora più terribile. Ti darà asilo presso di sé, ti terrà nascosto in sé e coprirà i tuoi peccati. Egli infatti è l'amico dei peccatori (Mt 11,19). Di fronte a un peccatore non soltanto si ferma, ma apre le braccia e dice: «Vieni a me!». Egli si ferma e aspetta, come il padre aspetta il figliol prodigo (Lc 15,11 ss.). Anzi egli non sta fermo ad aspettare ma va in cerca, come il pastore, della pecorella smarrita o la donna della dramma perduta (Lc 15,14). Egli va, anzi egli è già andato ed è andato infinitamente più lontano della donna e del pastore: egli ha seguito un cammino infinitamente più lungo: quello che, dall'essere egli Dio, l'ha portato a farsi uomo per mettersi in cerca dei peccatori!

    III
    VENITE A ME, VOI TUTTI CHE SIETE AFFATICATI E OPPRESSI, E IO VI RISTORERÒ

    «Venite!». Infatti egli suppone che gli affaticati e gli oppressi sentano il grave peso, la dura fatica e rimangano perplessi e sospirosi. Ecco uno che gira lo sguardo attorno, con la speranza di scoprire un aiuto; un altro volge lo sguardo a terra, sconsolato per non aver trovato conforto alcuno; un terzo guarda in alto come se dal cielo dovesse piovere un aiuto; ma tutti vanno in cerca. Perciò egli dice «Venite!». Egli non invita chi ha cessato di cercare e di rattristarsi: «Venite!». Infatti egli, l'invitante, sa che la vera sofferenza porta a ritirarsi nella solitudine e a sprofondarsi in un muto sconforto, le manca il coraggio di confidarsi con qualcuno e tanto meno di osar sperare un soccorso. Ahimè, non era solo l'indemoniato del Vangelo posseduto da uno spirito muto (Lc 11,14)! Ogni sofferenza che prima di tutto non cominci a rendere muto l'afflitto non è una gran cosa, come l'amore che non rende l'uomo silenzioso: gli infelici, che corrono subito a raccontare la storia dei loro mali, non sono né affaticati né oppressi. Ecco perché colui che invita, non osa attendere che gli affaticati e gli oppressi vengano a lui. Egli stesso li chiama amorosamente; tutta la sua prontezza ad aiutarli non sarebbe forse di nessun aiuto se non fosse lui a pronunciare quella parola e non facesse così il primo passo; perché in quell'appello («Venite a me!») egli viene a loro. O compassione umana, forse qualche volta dai prova d'un lodevole autodominio! Forse alle volte arrivi anche a mostrare vera e profonda compassione, quando rinunci a interrogare colui che, a tuo avviso, porta con sé una sofferenza segreta; ma quanto spesso però non fai la parte della prudenza che non desidera di saperne troppo! O compassione umana, quante volte non hai osato penetrare nel segreto di un sofferente, solo per curiosità e non per partecipazione; e come ti sembrò quasi un peso, quasi come un castigo per la tua curiosità, quando dietro il tuo invito l'infelice è venuto a te! Ma colui che pronuncia quella parola liberatrice: «Venite!» non inganna se stesso quando la dice e non ingannerà neppure te quando verrai a lui per trovare il riposo riversando su di lui il tuo peso. Nel dirla, egli segue il cenno del suo cuore e il suo cuore segue la parola; e se tu allora segui la parola, essa a sua volta ti riaccompagnerà al suo cuore: è un'autoconseguenza, l'una cosa segue l'altra. Oh, possa tu seguire l'invito: «Venite a me!». Infatti egli suppone che gli affaticati e gli oppressi siano talmente stanchi, estenuati e deboli che, presi da una specie dí sonnolenza, abbiano dimenticato perfino che esiste una consolazione. Oppure, ahimè, egli sa fin troppo bene che non c'è consolazione e soccorso se non lo si cerca in lui stesso; perciò egli rivolge loro l'invito: «Venite a me!».
    *
    «Venite!». Ogni società ha infatti un simbolo ossia qualcosa da cui si riconoscono i suoi membri: quando la giovane ragazza si agghinda in un determinato modo, si capisce che va a ballare. Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi! «Venite!». Tu non hai bisogno di portare un distintivo esteriore e visibile: vieni pure con la testa profumata e il viso lavato (Mt 6,17), purché nel tuo intimo tu sia affaticato e oppresso.
    *
    «Venite!». Oh, non fermarti a riflettere! No, rifletti e rifletti bene invece che per ogni istante che indugi dopo aver udito l'invito, lo sentirai sempre più debole e così te ne allontanerai anche se rimani nello stesso posto. «Venite!». Per quanto tu sia stanco per il lavoro o per la marcia così lunga e finora vana in cerca di soccorso e di salvezza, se ti sembra di non poter più fare neanche un passo né resistere ancora un solo istante senza soccombere, oh, fa ancora un passo, un passo solo: ed ecco il riposo! «Venite!». Ahimè, se però ci fosse qualcuno così misero che proprio non ce la facesse a venire, oh, allora basta un sospiro: sospira verso di lui! Anche questo è un venire a lui.

     

    NOTE 

    1 Mt 11,28. Il testo fornisce uno dei temi preferiti della dialettica religiosa di Kierkegaard e ritorna spesso nel Diario; è messo in rapporto, come in quest'opera, con l'«Ecce homo!» (Papirer 1848-1849, IX A 16; trad. it., n. 1421, t. p. 673) e diventa una prova della divinità di Cristo (1850-1851, X A 377; trad. it., n. 2342, t. II, pp. 142 ss.).

    2 Cioè il peccato, come si mostra nel Concetto dell'angoscia e soprattutto nella Malattia mortale.

    3 È Socrate, che Kierkegaard ha considerato come maestro e modello dell'etica naturale, il quale – a differenza dei sofisti che si facevano pagare – dava il suo insegnamento gratuitamente e in questo egli, in qualche modo, preannunciava Cristo. Come indagine complessiva può servire ancora: J. Himmelstrup, Søren Kierkegaards Sokratesauffassung, Neumünster i. Holst 1927, spec. pp. 32 ss.

    4 In questo stesso tempo Kierkegaard si chiedeva, nella sfera puramente estetica, quale era la struttura dell'immagine eterna: « Sarebbe interessante poter una volta sviluppare con esempi quel che s'intende, nell'estetica e nell'arte, per immagini eterne; quale dev'essere il rapporto perché le singole parti si fondano in un'immagine eterna. Una barca sul canale di Kallebro, una barca con un uomo solo, in piedi a poppa con la prora alzata, intento a pescare le anguille, un cielo lievemente sfumato di grigio: ecco un'immagine eterna. Una solita barca a vela sul canale di Kallebro non è un'immagine eterna. E perché? Perché una barca a vela non ha un rapporto essenziale alla caratteristica del canale. Per il lago Esrom-Søe ci vuole una barca a vela, con delle signore» (Papirer 1847-1848, VIII A 621; trad. it., n. 1384, t. I, pp. 652 ss.). E di lì a poco, nello stesso contesto: «Un'altra "immagine eterna". Una siepe d'arbusti che chiude il recinto di un parco. Lungo la siepe scorre un ruscello. È mattina, una giovane donna in vestaglia passeggia sola» (Papirer 1847-1848, VIII A 677; trad. it., n. 1411, t. i, p. 668). Nella sfera religiosa sono immagini eterne, p. es., il sommo sacerdote, il pubblicano e soprattutto la peccatrice alla quale Kierkegaard dedicò vari vivaci Discorsi edificanti (SV [Samlede Vaerker (Opere complete), edite da A.B. Drachmann, J.L. Heiberg e H.O. Lange, Gyldendal, Copenaghen, I ed. 1901-1906 in 14 voll.; II ed. 1920-1926 in 15 voll.], XII, pp. 295 ss.). Anche e soprattutto Abramo è l'immagine eterna dell'uomo religioso (Papirer 1850-1851, X A 114, trad. it., n. 2267, t. II, p. 103).

    5 L'immagine di Cristo salvatore con le braccia aperte, in atto di accogliere tutti, è suggerita certamente dalla statua del Redentore di Thorvaldsen che si ammira assieme ai dodici apostoli nella Frue Kirke di Copenaghen. L'immagine ricorre anche più avanti, come anche in uno dei suoi più ferventi Discorsi edificanti. Anche nel Diario, in un contesto.polemico: «Cristo apre le sue braccia e dice: "Venite a me tutti!". Il pastore si affretta a dire: Non hai che da buttarti nelle sue braccia, quella è la vita. Sì, certamente, però sta' attento, poiché quest'abbraccio è anzitutto la morte. Egli si chiama la vita; egli dice: "Venite a me tutti", e se tu ti abbandonerai completamente, sarai morto, mortificato. Egli infatti non è la vita così senz'altro, egli è la vita attraverso la morte» (Papirer 1850, X A 351, pp. 252 ss.).

    6 È certamente un'eco della gazzarra orchestrata contro Kierkegaard dal giornale umoristico «Il corsaro» nell'anno 1846, di cui il Diario dà un'abbondante e appassionata testimonianza (cfr. Papirer 1846, spec. VII A 99; trad. it., n. 953, t. I, pp. 462 ss.).

     

    (Fonte: Esercizio del Cristianesimo, a cura di Cornelio Fabro, SE 2012, pp.13-25)


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