Emozioni e ragione:
due mondi antitetici?
Giovanni Cucci
Ragione ed emozioni sono tra loro antitetiche? A prima vista sembrerebbe di sì, non solo considerando il modo con cui vengono affrontati molti dei dibattiti su tematiche «serie» e delicate, come ad esempio quelle legate alla bioetica o alla politica internazionale [1].
Tale incompatibilità è anche stata giustificata a livello di riflessione teorica.
La difficoltà di una trattazione unitaria
Quando si parla di questo mondo complesso - anche dal punto di vista terminologico -, fatto di «emozioni», «passioni», «sentimenti», «affetti», cosa si intende? Per quanto questi termini non siano facilmente separabili gli uni dagli altri, e talvolta vengano usati indifferentemente come sinonimi, si può cercare di fornirne una possibile definizione.
Con la parola «emozione» (dal latino ex-moveo) si intende la reazione interiore a uno stimolo esterno: essa è una tendenza sentita, avvertita, verso l’azione [2]. Allo stesso modo, la «passione» dice di qualcosa di subìto e insieme il coinvolgimento che un tale stimolo riveste da parte del soggetto (espresso appunto dal termine «appassionarsi»), dunque una compresenza inseparabile di passività/attività, di volontario/involontario, come direbbe Paul Ricoeur. Il «sentimento» e l’«affetto» nascono da un «sentire» interiore e costituiscono un momento successivo, più riflessivo e consapevole dell’emozione, meno intenso, ma anche più stabile e durevole nel tempo «Affetto» ha la sua radice dal latino afficio (provvedere, colpire), e ad esso possono corrispondere risposte differenti da parte del soggetto.
Risulta comunque piuttosto arduo e artificioso separare con precisione questi termini tra loro: ciò che li accomuna è la relazione con qualcosa di subìto, ma che non per questo comporta una reazione univoca e necessitante, come si vedrà. Il dizionario di filosofia di Nicola Abbagnano, alla voce «emozione», mette in parentesi le parole latine affectus e passio, e «sentimento» viene considerato sinonimo di emozione [3].
Tale plasticità è anche la caratteristica di questa dimensione essenziale dell’essere umano che incontra sempre una certa fatica per poter essere esplorata a dovere. Anche in sede psicologica - a prima vista, la sua sede più idonea - la dimensione affettiva ha incontrato non poche difficoltà prima di diventare degna di interesse, perché veniva ritenuta incompatibile con il rigore scientifico della disciplina: «Cinquant’anni fa la maggior parte degli psicologi trovava ridicola l’idea che lo studio delle emozioni fosse una parte importante del loro lavoro. Ansiosi di liberarsi del mondo interiore dell’esperienza, gli psicologi profetizzarono che l’emozione sarebbe presto scomparsa dalla scena scientifica, come fenomeno “vago” e “inosservabile”» [4].
E questo soprattutto nel periodo del neopositivismo e del riduzionismo, quando in psicologia dettava legge il comportamentismo.
Scriveva ad esempio Max Meyer nel 1933: «Perché introdurre nella scienza un termine non necessario, come “emozione”, quando abbiamo già dei termini scientifici per tutto ciò che dobbiamo descrivere? […] Io prevedo: la “volontà” è oggi virtualmente scomparsa dalla scienza psicologica; l’“emozione” ha lo stesso destino.
Nel 1950 gli psicologi americani sorrideranno di entrambi questi termini, come di stramberie del passato» [5].
Ma come per ogni profezia, la storia si fa beffe di chi si mostra troppo sicuro delle proprie teorie. Al contrario, lo studio delle emozioni è cresciuto sempre più, coinvolgendo altri campi di ricerca, e l’approccio empirico (esperimenti di laboratorio e test) si è avvicinato alla riflessione filosofica classica. Come osserva Richard Lazarus: «Paradossalmente, questi mutamenti di prospettiva ci riportano anche a quella forma di “psicologia popolare” che troviamo nella Retorica aristotelica» [6].
Con il procedere degli studi, la ricerca psicologica ha anche mostrato il legame profondo che esiste tra cognizione ed emozione: «In una serie ora famosa di esperimenti, S. Schachter e J. E. Singer decisero di dimostrare che le cognizioni delle persone sulla situazione in cui si trovano sono elementi essenziali nella loro autodescrizione degli stati emotivi […]. A partire dalla medesima condizione fisiologicamente indotta, i soggetti identificheranno l’emozione come rabbia, se posti in una situazione in cui sono date loro delle ragioni di sentirsi arrabbiati (per esempio, contro gli sperimentatori a causa di domande offensive e indiscrete); identificheranno la loro emozione come felicità, se posti in una situazione in cui sono date loro ragioni di pensare che il mondo è bello» [7].
Questo è vero soprattutto nel caso di emozioni «tristi», come la depressione: essa, pur presentando carenze di carattere biochimico (come la mancanza di serotonina, un neurotrasmettitore regolatore dell’umore), manifesta un aspetto essenzialmente valutativo, che spesso è il cuore del problema. Martin Seligman parla a questo pro-posito di «impotenza appresa»: «Se uno pensa di essere una vittima e di non poter fare niente e di essere impotente, è sulla buona strada per la depressione» [8].
In altre parole, è il commento interiore - in termini di «non potercela fare» - che porta allo sconforto e alla resa circa le opportunità a disposizione, «con complesse e allarmanti conseguenze comportamentali, che vanno dall’incapacità di apprendimento alla morte improvvisa» [9].
D’altra parte, la cognizione e l’informazione non bastano per padroneggiare l’emozione: questa è l’obiezione più forte rivolta nei confronti di un mero approccio cognitivo alle emozioni. Si pensi, ad esempio, alla paura di volare: per quanto si sappia che l’aereo costituisca uno dei mezzi di trasporto più sicuri, ciò non basta a scacciare in alcune persone la forte emozione della paura, che può tradursi nell’impossibilità stessa di salire a bordo di un aereo. «Si ripresenta, cioè, nel campo delle emozioni ciò che si verifica in quello delle illusioni ottiche, in cui il sapere come stanno le cose in realtà non modifica il fatto che le si veda distorte» [10].
Tutto ciò risulta ancora più importante qualora si considerino le possibili conseguenze a livello delle scelte di vita. Il grado di istruzione non è certamente il parametro più importante: esso non coincide con l’educazione, né tantomeno con la capacità di condurre una vita buona. Si possono trovare esempi (tanto emblematici quanto tristi) in situazioni familiari segnate da emarginazione e violenza da parte di persone con alle spalle un raffinato background culturale e accademico, unito tuttavia a un desolante analfabetismo affettivo, come mostrano, sempre più numerosi, i casi riportati dai centri di ricerca di terapia familiare [11].
Pensando a queste situazioni, non si possono non sottoscrivere le seguenti considerazioni compiute sul rapporto tra valori, formazione e capacità di attuare cambiamenti nella vita: «Nessun grado di istruzione, esperienza di vita o perfino proclamazione di valori servirà a costruire il senso di identità della persona, se non c’è lotta quotidiana per vivere secondo il proprio sistema di valori e se non si fanno scelte che concordino con la propria opzione fondamentale di vita. Nel mondo d’oggi la credibilità viene dalla realtà vissuta di una data persona» [12].
E la realtà vissuta presenta delle sorprese alla mentalità chiara e distinta dell’uomo occidentale, che vorrebbe programmare con precisione e sicurezza la propria vita. A un certo punto, stranamente, ci si sente smarriti, preda del caos.
Emozioni e conoscenza di sé
Le emozioni possono infatti rivelare, talvolta in maniera improvvisa e del tutto inattesa, aspetti di sé sconcertanti. È quanto, ad esempio, emerge dal diario di questa ragazza inglese di 20 anni, stupita delle conseguenze di un diverbio avuto con il proprio ragazzo, in apparenza banale, circa le preferenze musicali: «Si sentiva in colpa, e si chiedeva se non stesse tormentando il suo ragazzo. Non solo in generale non si dovrebbero provare sensazioni simili, disse, ma in particolare lei era “una persona che non si sarebbe mai arrabbiata perché qualcuno aveva opinioni diverse dalle sue”. La sua rabbia faceva scaturire “qualcosa che sminuiva la sua autostima”. L’emozione sembrava possedere una propria storia: la discussione “le ricordava un ex-ragazzo” e la induceva a domandarsi se il rapporto ne valeva la pena. Cominciò a chiedersi se apprezzava il suo attuale ragazzo e a pensare che aveva dei difetti […]. Alla fine si convinse che anche lei in parte era da biasimare. La rabbia di questa ragazza fu un segnale per riflettere sulla sua identità. Le fece capire un aspetto del suo carattere che non le piaceva, che forse le aveva causato problemi in precedenza, che le aveva reso difficile l’intimità con un precedente ragazzo e che ora stava provocando di nuovo un problema simile.
Questi sentimenti sono peculiari di questa ragazza, ma non si tratta forse di sequenze riconoscibili in generale? […] Nelle questioni più importanti della vita lo sconvolgimento provocato da un’emozione può avere lo stesso effetto di un terremoto» [13].
Può capitare di trovarsi sorpresi e perplessi non solo di quello che si prova, ma anche dei messaggi destabilizzanti che le emozioni comunicano. Kaith Oatley riporta il caso di una donna che, una volta appresa la notizia della morte improvvisa del marito in un incidente, all’inizio scoppia a piangere, ma poi avverte un sentimento di liberazione. Nonostante l’affetto provato, ella era stata anche soffocata dalla personalità dominante del marito, una cosa che non aveva potuto riconoscere se non dopo la sua morte [14].
Si tratta di risonanze affettive che non si vorrebbero vedere, perché ci si vergogna, e mettono a disagio. Per questo si cerca, anche giustamente, di censurarle; ma, così facendo, esse agiscono in noi in maniera ancora più potente. «Le emozioni suggeriscono questioni d’importanza vitale, stimolandoci ad approfondirle, su ciò che è più importante nella vita umana. Esse comprendono amore, rabbia, affetto, vergogna, paura, disprezzo. Organizzano le nostre priorità, rendono significative le nostre vite e c’impegnano nei confronti degli amici o contro i nemici. Ma quando un’emozione reattiva o uno stato d’animo indicano interessi o aspirazioni che difficilmente riconosciamo in noi, possono nascere problemi. Un’emozione è come uno strattone: qualcuno ti sollecita, ti tira per la manica. A volte è una scossa violenta, un colpo doloroso. Richiede di essere riconosciuta, esige di essere compresa. Le emozioni rappresentano indicatori preziosi dell’importanza di un dato elemento e costituiscono l’occasione per porsi un determinato problema. Come tali sono fra gli aspetti più affascinanti della vita mentale, sia per noi stessi che per coloro che ci stanno a cuore» [15].
L’influsso potente delle emozioni emerge anche in scelte e preferenze illogiche, come i comportamenti autodistruttivi, ma che tuttavia esercitano una strana e morbosa attrazione. È stato studiato che chi ha subìto esperienze di violenza innesca quella che viene chiamata «coazione a ripetere», scegliendo di frequentare persone simili a quelle da cui aveva subìto abusi, o addirittura sposando la medesima persona da cui aveva ricevuto violenza [16].
La coazione a ripetere per Freud è tipica di un conflitto inconscio, che non si vuole ammettere, e che viene piuttosto agito, ripetuto, in un vano tentativo di tornare a una situazione precedente al trauma subìto [17]. Questa caratteristica è uno dei segni che portano il fondatore della psicanalisi a riconoscere che il piacere non è lo scopo delle azioni e delle scelte della psiche umana, ma vi è sempre una compresenza di distruttività e di punizione per quanto compiuto.
In tutti questi casi le persone non sono evidentemente consapevoli di tutto questo, e tuttavia tali fattori influenzano pesantemente le scelte e le relazioni: infatti, finché le dinamiche in gioco non vengono rese consapevoli, queste situazioni dolorose tendono a ripetersi anche in eventuali nuovi legami, quasi che la persona non sia in grado di imparare nulla dalle esperienze precedenti. Il potere delle emozioni inquieta la ragione, che cerca di difendersi mettendole a tacere o considerandole come qualcosa di totalmente negativo.
La separazione tra ragione e affetti in filosofia
La riflessione filosofica, soprattutto a partire dalla modernità, ha guardato con sospetto alle emozioni, considerandole un mondo capriccioso e caotico, incapace di orientare l’uomo sul sentiero della verità. Uno dei motivi di questa svolta risiede indubbiamente nella rivoluzione scientifica, che vede il sorgere di un sapere capace di dare risposte certe, chiare e distinte a un problema, senza più lasciare spazio al dubbio. Dietro questa decisione si annidano comunque, ancora una volta, le emozioni, in particolare il fascino che il nuovo sapere esercita sui filosofi del XVI e XVII secolo, i quali prediligono l’approccio matematico come modello per le loro speculazioni. Da qui il tentativo di elaborare un’etica geometrica, come in Spinoza, o una «geometria delle passioni». Ma le emozioni fanno comunque capolino in questi progetti, inquietando i loro autori.
La filosofia di Cartesio è continuamente attraversata dal problema di raggiungere una certezza assoluta; essa tuttavia sfugge puntualmente alla presa della ragione, a causa del «diavoletto scettico» [18], da cui egli non riuscirà mai veramente a sbarazzarsi e che tormenterà i pensatori successivi, i quali per lo più accoglieranno acriticamente questo presupposto. Enrico Castelli riassume questa epoca storica con una frase folgorante, una sorta di diagnosi psicologica: «La storia della filosofia moderna, per buona parte è la storia di una ossessione: l’obiettività» [19].
E a farne le spese sono state proprio le passioni: «La scoperta della positività delle passioni è abbastanza recente, ha luogo soprattutto nell’età contemporanea» [20]. Il sospetto, la paura, l’ossessione (tutti termini che hanno curiosamente a che fare con le emozioni!) nei confronti delle emozioni e degli affetti attraversano costantemente il pensiero filosofico moderno.
Emblematica su questo è la posizione di Kant: ragione ed emozioni sono nemici dichiarati; per questo la scelta del bene deve prescindere da ogni aspetto passionale ed essere compiuta sulla base della pura ragione. Questa separazione porta a conclusioni paradossali, come l’esclusione delle inclinazioni naturali dal campo dell’etica: «Conservare la propria vita è un dovere, e in più ognuno ha anche un’immediata inclinazione a farlo. Ma proprio perciò la preoccupazione, spesso angosciosa, che la massima parte degli uomini ha per essa non ha alcun valore intrinseco, e la sua massima non ha alcun contenuto morale» [21]. Ciò significa che un’azione può essere considerata moralmente approvabile solo se è in contrasto con la sensibilità e viene compiuta per mero senso del dovere.
Questa posizione è, d’altra parte, una logica conseguenza della sua concezione dell’uomo: la bontà di una azione esclude ogni tipo di impulso, che va contrastato con decisione, escludendo ogni possibile piacere; anzi la sofferenza è un segno della bontà dell’azione intrapresa [22]. Tale valutazione ritorna in maniera inequivocabile anche in altri scritti di Kant: «L’emozione agisce come un fiotto che rompe la diga; la passione come una corrente che si scava sempre più profondo il suo letto. L’emozione agisce sulla salute come un’apoplessia, la passione come la tisi o la consunzione» [23].
E il motivo di questo contrasto è enunciato con chiarezza: «Essere soggetti a emozioni e passioni è ben sempre una malattia dell’animo, perché ambedue escludono il dominio della ragione» [24]. Se è ammirevole e geniale il tentativo di Kant di garantire rigore e universalità all’agire morale, non si possono non notare le conseguenze paradossali di una tale impostazione. Friedrich Schiller commentava questo modo di pensare con un aforisma sarcastico, ma folgorante: «Scrupolo di coscienza: volentieri mi presto per gli amici, ma purtroppo lo faccio con passione e così spesso mi tormento per non essere virtuoso. Soluzione: non c’è altra via d’uscita, devi cercare di odiarli e fare poi con ribrezzo ciò che il dovere ti comanda» [25].
Ogni proposta di pensiero, anche quella apparentemente più astratta, nasce pur sempre da una storia e da una persona concreta; per questo la satira di Schiller coglie ancor più nel segno qualora si considerino alcuni aspetti della personalità di Kant, uomo geniale, ma così ossessivo e amante dell’ordine e della regolarità da rasentare il comico. Alcuni episodi dei suoi biografi confermano la classica visione del «filosofo» speculativo in perenne guerra con le emozioni che caratterizzano la giornata ordinaria: «Kant si alzava ogni giorno, d’estate come d’inverno, alle cinque della mattina. Il suo servitore si collocava puntualmente alle quattro e tre quarti davanti al letto, lo svegliava e non usciva prima che il signore si fosse alzato.
Talvolta, Kant era ancora così addormentato da pregare il servitore di lasciarlo riposare ancora un po’, ma questi aveva ricevuto da Kant stesso il preciso ordine di non lasciarsi convincere da alcuna richiesta» [26].
La sua giornata è scandita dalla medesima meticolosità: studio, lezione all’università, ora dei pasti, la regolare passeggiata, la visita a tre amici (sempre a casa di uno di essi, Green), per poi ritornare alla medesima ora, così puntuale da essere assunto a orologio vivente dai concittadini. A Könisberg vigeva il detto che «scoccavano le sette di sera solo quando il professor Kant era rientrato dalla sua passeggiata». Anche il modo di coricarsi segue una meticolosa quanto comica procedura «scientifica»: «Una lunga consuetudine gli aveva insegnato una maniera molto abile di arrotolarsi nelle coperte. Prima di tutto, si sedeva sul bordo del letto, poi con un movimento agile si slanciava di sbieco nella sua tana, poi tirava un angolo della coperta sotto la spalla sinistra e, facendola passare sotto la schiena, la portava sotto la spalla destra; infine operava sull’altro angolo allo stesso modo e riusciva finalmente ad avvolgere la coperta intorno a sé. Così, bendato come una mummia e avvolto come il baco da seta nel bozzolo, aspettava il sonno» [27].
Si può vivere di sola ragione?
La vita stessa di questo filosofo, oltre a simpatiche bizzarrie, mostra anche il costo di una simile impostazione, che trova proprio nelle passioni e nella volubilità del temperamento umano il suo nemico mortale. E non solo degli uomini, purtroppo. I biografi di Kant riferiscono che a un certo punto egli non può più scrivere, infastidito dal canto del gallo del vicino, al punto di offrirsi di acquistare quell’animale (per poi farne cosa?). Al rifiuto del proprietario, Kant è costretto a cambiare casa, anche se, purtroppo, capita di male in peggio: la nuova dimora si trova vicino alla prigione della città, e in essa vige la strana abitudine di far cantare i detenuti, provocando un rumore non meno fastidioso di quello del gallo. A questo punto Kant è sull’orlo della disperazione, e si appella al sindaco perché metta fine a quello strazio, ma inutilmente.
Questi contrattempi devono averlo infastidito così tanto, che se ne trova traccia perfino in una nota della Critica del giudizio: «Quelli che hanno raccomandato, negli esercizi religiosi domestici anche il canto di inni religiosi, non hanno riflettuto sul fatto che una devozione così rumorosa (e già per questo farisaica) comporta un gran disturbo pubblico, imponendo anche al vicinato o a prender parte al canto o a rinunciare ad ogni occupazione mentale» [28].
Freud avrebbe avuto molto da dire su questi aneddoti. Forse pensava a lui, quando osservava che l’Io non è padrone a casa propria [29].
E, non a caso, quando identifica la morale con la negazione del desiderio e con la nevrosi, pensa proprio a Kant, considerato come colui che ha cercato di scacciare il piacere e la soddisfazione dalla vita umana [30]. Il risvolto negativo che il moralismo ha assunto nel nostro immaginario collettivo, espresso così efficacemente da Freud negli studi compiuti sulle nevrosi e sulle ossessioni legate ai sensi di colpa, pur nelle sue esasperazioni, coglie nel segno quando indica i rischi di una patologia del dovere che imprigiona e mortifica il desiderio di vivere dell’uomo.
Questa proposta filosofica sembra dare un’apparenza di rigore speculativo al sapere morale, ma di fatto esclude gli affetti e i desideri, considerandoli estranei a una vita umana degna di questo nome: «Il formalismo in etica nasconde la dialettica dell’azione umana o, per usare un termine più forte, la dialettica dell’atto umano di esistere. Tale dialettica è ricoperta da una problematica che non è originaria, ma derivata, la problematica del principio a priori della ragion pratica [...]. L’esclusione del desiderio dalla sfera etica ha conseguenze rovinose: l’obiettivo della felicità è escluso dal campo della considerazione del moralista» [31].
E, difatti, senza le emozioni e gli affetti a che cosa si ridurrebbe l’esistenza? Anche se esse possono disturbare la quiete filosofica, la loro assenza non può certamente essere considerata un guadagno: «Malgrado tutto, le passioni non si riducono soltanto a conflitto e a mera passività. Esse tingono il mondo di vivaci colori soggettivi, accompagnano il dipanarsi degli eventi, scuotono l’esperienza dell’inerzia e della monotonia, rendono sapida l’esistenza nonostante disagi e dolori. Varrebbe la pena vivere, se non provassimo alcuna passione, se tenaci, invisibili fili non ci avvincessero a quanto - a diverso titolo - ci sta “a cuore”, e di cui temiamo la perdita? La totale apatia, la mancanza di sentimenti e di ri-sentimenti, l’incapacità di gioire e di rattristarsi, di essere “pieni” di amore, di collera o di desiderio, la stessa scomparsa della passività, intesa quale spazio virtuale e accogliente per il presentarsi dell’altro, non equivarrebbero forse alla morte?» [32].
Ma è proprio così evidente che la dimensione affettiva risulta incompatibile con la valutazione razionale?
NOTE
1. Cfr G. Cucci, «Persuasione occulta e ricerca di senso», in Civ. Catt. 2013 II 118-128.
2. Più precisamente, una psicologa statunitense, Magda Arnold, definisce una emozione come «la tendenza avvertita verso qualcosa che si sente come “buono” o una separazione da qualsiasi oggetto valutato come “cattivo”» (cfr M. Arnold, Emotion and Personality, I, New York, Columbia University Press, 1960, 188). Vengono qui colti i due elementi fondamentali che caratterizzano l’emozione: la valutazione (consapevole o inconscia) e la risposta in termini di inclinazione e, se approvata, di azione (attrazione o repulsione).
3. N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, Milano, Tea, 1993, 284-784. Anche sul versante psicologico si riscontra la medesima posizione: cfr, ad esempio, le osservazioni di K. Oatley, autore di un testo fondamentale sul tema (Breve storia delle emozioni, Bologna, il Mulino, 2007, 19). Nel contesto del presente articolo, focalizzato sul mondo degli affetti intesi nella loro globalità come «facoltà umana», ci si riferirà a questi termini considerandoli come sinonimi.
4. M. C. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, ivi, 2004, 122.
5. M. F. Meyer, «That Whale Among the Fishes: The Theory of Emotions», in Psychological Review 40 (1933) 292-300, citato in R. S. Lazarus, Emotion and Adaptation, New York, Oxford University Press, 1994, 8.
6. R. S. Lazarus, Emotion and Adaptation, cit., 14.
7. M. C. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, cit., 126-128; cfr S. Schachter – J. E. Singer, «Cognitive, Social and Physiological Determinants of Emotional States», in Psychological Review 69 (1962) 379-399.
8. M. Seligman, «Depression and Violence», comunicato stampa dell’American Psychological Association, 3 settembre 1998, in F. Furedi, Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana, Milano, Feltrinelli, 2005, 142.
9. M. C. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, cit., 132; cfr L. Y. Abramson - M. Seligman - J. Teasdale, «Learned Helplessness in Humans: Critique and Reformulations», in Journal of Abnormal Psychology 87 (1978) 49-74; M. Seligman, Helplessness: On Depression, Development, and Death, New York, Freeman, 1975.
10. M. Costa, «Emozioni. Filosofia delle», in Enciclopedia filosofica, vol. 4, Milano, Bompiani, 2006, 3336.
11. Cfr i casi discussi in F. M. Dattilio, Case Studies in Couple and Family Therapy, New York - London, Guilford, 1998; A. S. Gurman (ed.), Clinical handbook of couple therapy, New York, Guilford, 2008; S. Minuchin - P. M. Nichols - W. Lee, Famiglia: un’avventura da condividere. Valutazione familiare e terapia sistemica, Torino, Boringhieri, 2009.
12. B. Dolphin - M. P. Garvin - C. O’Dwyer, «La leadership nella vita religiosa oggi», in A. Manenti - S. Guarinelli - H. Zollner (eds), Persona e formazione. Riflessioni per la pratica educativa e psicoterapeutica, Bologna, Edb, 2007, 392.
13. K. Oatley, Breve storia delle emozioni, cit., 28 s.
14. Cfr ivi, 30.
15. Ivi.
16. Cfr i casi discussi in R. Norwood, Donne che amano troppo, Milano, Feltrinelli, 1998.
17. Cfr S. Freud, «Nuovi consigli sulla tecnica della psicanalisi», in Id., Opere, vol. VII, Torino, Boringhieri, 1975, 357; Id., «Al di là del principio del piacere», in Id., Opere, vol. IX, ivi, 1977, 222.
18. «Io supporrò, dunque, che vi sia, non già un vero Dio, che è fonte sovrana di verità, ma un certo cattivo genio [genium aliquem malignum], non meno astuto e ingannatore che possente, che abbia impegnato tutta la sua industria ad ingannarmi. Io penserò che il cielo, l’aria, la terra, i colori, le figure, i suoni e tutte le cose esterne che vediamo non siano che illusioni e inganni, di cui egli si serve per sorprendere la mia credulità» (R. Cartesio, Meditazioni metafisiche, I, Milano, Mondadori, 2008, 99 s).
19. E. Castelli, I presupposti di una teologia della storia, Milano, Bocca, 1952, 7; corsivo nel testo.
20. R. Bodei, Geometria delle passioni. Paura, speranza, felicità: filosofia e uso politico, Milano, Feltrinelli, 2003, 10.
21. I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, Bari, Laterza, 1997, 25.
22. «La legge morale, come motivo determinante della volontà, perché reca danno a tutte le nostre inclinazioni, deve produrre un sentimento che può essere chiamato dolore» (Id., Critica della ragion pratica, ivi, 1986, 90).
23. Id., Antropologia pragmatica, ivi, 1993, § 74, 142.
24. Ivi, § 73, 141.
25. F. Schiller, Sämtliche Werke, vol. I, München, Winkler, 1965, 299 s. Cfr U. Galeazzi (ed.), Tommaso. Le passioni e l’amore, Milano, Bompiani, 2012, 9.
26. W. Weischedel, La filosofia dalla scala di servizio, Milano, Cortina, 1996, 198.
27. Ivi.
28. I. Kant, Critica del giudizio, Bari, Laterza, 1979, 192; cfr W. Weischedel, La filosofia dalla scala di servizio, cit., 199.
29. Cfr S. Freud, «Una difficoltà della psicoanalisi», in Id., Opere 1905-1921, Roma, Newton & Compton, 2003³, 932.
30. Id., Totem e tabù, ivi, 552.
31. P. Ricoeur, «Religione, ateismo, fede», in Id., Il conflitto delle interpretazioni, Milano, Jaca Book, 1977, 467.
32. R. Bodei, Geometria delle passioni…, cit., 9.
© La Civiltà Cattolica 2015 III 139-150 | 3962 (25 luglio 2015)