Testamento biologico
Oltre gli steccati ideologici
Giannino Piana
L'avvio della discussione alla Camera del disegno di legge su «Consenso informato e dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari» (Dat) non ha mancato di suscitare nell'opinione pubblica vivaci reazioni di segno opposto, dettate talora da scarsa conoscenza di causa - i media non hanno fatto molto per informare correttamente - o, più spesso, da veri e propri pregiudizi di carattere ideologico. Vi è infatti chi, da una parte, non ha mancato di sollevare, in termini allarmanti, lo spettro dell'introduzione dell'eutanasia; e chi, dall'altra, insiste per andare oltre i dispositivi previsti dalla proposta considerati troppo restrittivi.
La questione è senz'altro delicata e complessa, poiché accanto ai non facili dilemmi di carattere giuridico e agli inevitabili riflessi di ordine sociale, coinvolge soprattutto rilevanti problematiche eticamente sensibili, che chiamano in causa le diverse visioni della vita e, più radicalmente, le diverse concezioni antropologiche presenti nel dibattito socioculturale contemporaneo. Del significato sociale e politico del disegno di legge, nonché soprattutto della rilevanza che esso riveste per l'affermazione della libertà di scelta personale, ha già offerto su queste pagine una esemplare riflessione Fiorella Farinelli (Testamento biologico in Parlamento. La legge alla prova della libertà di scelta, (Rocca n. 4); riflessione che personalmente condivido e su cui non intendo ritornare. Mi limito perciò, in aggiunta, ad affrontare alcuni nodi critici di carattere strettamente etico, che sono alla radice del conflitto ricordato e che meritano pertanto di essere sciolti.
Il valore del testamento e la libertà di azione del medico
Va detto anzitutto che il disegno attualmente all'attenzione della Camera dei deputati è la sintesi di 16 proposte pervenute alla Commissione Affari sociali e che la sua stesura è stata guidata dalla preoccupazione di fornire una ipotesi di mediazione, che tenesse conto, nei limiti del possibile, del contributo delle diverse componenti politiche e culturali, ispirandosi pertanto - come giustamente ha sottolineato la relatrice Donata Lenzi del Partito democratico - a un «diritto mite».
Nonostante il lodevole sforzo fatto nei lavori di commissione di trovare un punto soddisfacente di convergenza tra posizioni diverse - un minimo comune denominatore che consentisse di pervenire all'approvazione della legge - sussistono ancora in alcune aree, specialmente del mondo cattolico (ma non solo), forti obiezioni e gravi perplessità in particolare attorno a due questioni di considerevole rilevanza. La prima di esse riguarda il valore delle «dichiarazioni anticipate di trattamento» (Dat) - vi è chi ha fatto notare, a tale proposito, che l'art. 3 parla di «disposizioni», e non di «dichiarazioni», come recita il titolo della legge, rilevando come la differenza terminologica non sia di poco conto - e dunque l'obbligo del loro adempimento da parte del medico, nonché il rapporto di quest'ultimo con il fiduciario che ha il compito di garantirne la corretta applicazione.
Partendo dal presupposto della assoluta necessità di rispettare il «consenso libero e informato della persona interessata» (art. 1, primo comma) - in piena conformità peraltro con gli articoli 12 e 13 della Costituzione che sanciscono la libertà di cura e il diritto a disporre del proprio corpo, e con l'art. 32 in cui si dice che nessuno può essere sottoposto a una terapia contro la propria volontà - il disegno di legge proposto afferma che «il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente e in conseguenza di ciò è esente da responsabilità civile o penale» (art. 1, comma 7). Questa posizione è poi confermata dall'art. 3 terzo comma, dove si aggiunge che si possono disattendere le dichiarazioni anticipate solo «qualora sussistano motivate e documentabili possibilità non prevedibili all'atto della sottoscrizione» e in grado di garantire «concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita».
Ora, a parte il contrasto tra queste affermazioni e l'art. 4, nel quale si raccomanda la «pianificazione condivisa delle cure tra il paziente e il medico», l'assenza quasi totale di discrezionalità del medico finirebbe per fare di lui un semplice esecutore di ordini, costretto per di più, nel caso in cui non condivida il contenuto della dichiarazione, a dare comunque esecuzione alla richiesta del paziente anche a costo di andare contro la propria coscienza, non essendo previsto il ricorso all'istituto dell'obiezione. Il che, oltre a comportare la dequalificazione professionale del medico, finirebbe per creare gravi difficoltà nel rapporto tra il medico e il fiduciario, il quale non potrebbe fare altro che esigere l'esecuzione della volontà del paziente.
Questo aspetto, particolarmente delicato, merita di essere fatto oggetto di una ulteriore riflessione con l'introduzione di qualche correttivo - accanto al principio di autonomia (o di autodeterminazione) esiste infatti il principio di beneficità (e prima ancora di non maleficità) che riguarda l'intervento medico - che consenta di mediare il rispetto della scelta fatta dal paziente con il rispetto della professionalità del medico, favorendo lo sviluppo di un rapporto dialogico costruttivo ispirato al modello dell'alleanza terapeutica.
Nutrizione e idratazione: quale giudizio?
Ma a suscitare le più forti riserve - è questa la seconda questione - sono le pratiche della nutrizione e dell'idratazione artificiali che, nel disegno di legge in esame, sono incluse all'art. 3 primo comma, tra gli oggetti del «consenso o rifiuto rispetto a scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari». Questa inclusione, che si basa sul riconoscimento che tali pratiche costituiscono un vero e proprio «atto medico» viene contestata da chi, invece, sostiene che esse rappresentano un «sostegno vitale» ordinario, che va come tale sempre garantito.
La contrapposizione tra queste due concezioni appare tuttavia a molti - e non senza ragione - pretestuosa e del tutto improduttiva. Ambedue hanno infatti motivazioni plausibili, ma la loro radicalizzazione impedisce di affrontare con la necessaria duttilità situazioni diverse, che vanno trattate in modo diverso. La soluzione va ricercata nel rimando al principio di proporzionalità, il quale implica attenzione alla condizione del singolo paziente con riferimento specifico alla qualità della vita. Questo comporta che, in alcuni casi -quando si è di fronte a una persona che ha ancora la possibilità di fruire di una vita umanamente dignitosa - la non somministrazione di nutrizione e idratazione o la loro sospensione possa diventare omissione di mezzi proporzionati (si può forse parlare di «eutanasia passiva»); mentre in altri casi - quando si tratta di persone la cui vita è ormai gravemente compromessa nella sua qualità - intervenire con la somministrazione di nutrizione e di alimentazione o non sospenderle può divenire fornitura di mezzi sproporzionati e tradursi, di conseguenza, in accanimento terapeutico.
La oggettiva difficoltà a stabilire i confini tra i due comportamenti - confini non facilmente definibili a priori - implica, se non si vuole entrare in una dettagliata casistica, pericolosa perché destinata a provocare continui interventi giurisprudenziali, a limitarsi nel testamento biologico ad alcuni orientamenti generali, che segnalino con chiarezza la volontà del paziente di volere o di rifiutare nutrizione e idratazione: volontà o rifiuto che vanno tenuti prioritariamente in considerazione nel confronto tra fiduciario e medico. La proposta di legge in esame si muove in questa direzione, non indulgendo in eccessivi dettagli che provocherebbero - come si è detto - inutili complicazioni. Ma la concreta attivazione di questo modello esige - come già si è ricordato - una migliore precisazione dello spazio di azione del medico nel rapporto con il fiduciario.
La posizione del magistero della chiesa
L'obiezione maggiore a questo modo di affrontare la questione in gioco viene dai settori più tradizionalisti del mondo cattolico, che invocano a loro sostegno i documenti ufficiali del magistero, i quali non sono tuttavia così univoci come talvolta da alcuni si lascia intendere. La netta presa di posizione della chiesa contro l'accanimento terapeutico - si veda il documento della Congregazione per la dottrina della fede Dichiarazione sull'eutanasia del 1980 - non può infatti che riflettersi anche sulla questione del rifiuto o della sospensione della nutrizione e della idratazione.
A tale proposito meritano di essere ricordati due interventi, che aprono qualche spiraglio nella direzione segnalata. Il primo si riferisce a un discorso di Giovanni Paolo II del 20 marzo 2004 in occasione di un Congresso internazionale di medici, nel quale, pur asserendo che «la somministrazione di acqua e cibo, anche quando avvenisse per vie artificiali, rappresenti sempre un mezzo naturale di conservazione della vita, non un atto medico», aggiunge che «il suo uso sarà da considerarsi, in linea di principio, ordinario e proporzionato, e come tale moralmente obbligatorio, nella misura in cui e fino a quando esso dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che nella fattispecie consiste nel procurare nutrimento al paziente e lenimento delle sofferenze» (il corsivo è nostro).
Espressioni come «in linea di principio» e «nella misura in cui e fino a quando» lasciano chiaramente intendere, nel primo caso, la possibilità di eccezione alla regola generale e, nel secondo, l'esigenza di tenere in considerazione la situazione reale del paziente, cioè le sue condizioni, sia in ordine alla scelta di sottoporlo ai trattamenti sia in ordine alla loro sospensione. Un'analoga presa di posizione si trova in un intervento della Congregazione per la dottrina della fede del 1 agosto 2007, nel quale rispondendo a due domande poste dalla Conferenza episcopale americana, vengono riproposte le espressioni citate e viene inoltre precisato che l'interruzione delle pratiche in esame è giustificata solo laddove «cibo e acqua non vengono più assimilati dal corpo del paziente oppure non gli possano essere somministrati senza causare un rilevante disagio fisico».
Sono dunque presenti, anche a proposito delle posizioni del magistero, alcune, sia pure timide, aperture - dovute alla necessità di fare concretamente i conti con la complessità delle situazioni esistenziali -che rendono meno drastica - come alcuni vorrebbero - la posizione ufficiale della chiesa. D'altra parte, non si deve dimenticare che, trattandosi di legislazione civile, il riferimento etico al quale occorre fare appello non può certo essere una proposta confessionale, ma deve essere l'ethos che scaturisce dal confronto tra i vari sistemi valoriali presenti nella società e dallo sforzo di pervenire a un denominatore comune espressione della convergenza tra di essi. Tutto questo evitando tanto le rigide preclusioni ideologiche, che paralizzano ogni tentativo di riforma, quanto le facili (e superficiali) indulgenze alle mode, che finiscono per non cogliere lo spessore reale dei problemi e per fornire ad essi soluzioni affrettate che rischiano di causare effetti controproducenti.
A questa visione equilibrata e realistica sembra corrispondere, in linea generale, il progetto di legge attualmente in discussione in un ramo del Parlamento. Un progetto, dunque, che, pur con i dovuti aggiustamenti nei punti accennati, merita di essere approvato per fornire ai cittadini italiani uno strumento fondamentale per l'esercizio della propria libertà di scelta in un momento importante e drammatico della loro esistenza.
(Rocca 6/2017, pp. 27-29)