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    Sulla virtù

    Gianfranco Ravasi

    LA VIRTÙ PERDUTA

    «Ormai la parola 'virtù' non si incontra più se non al catechismo, nelle barzellette, all'Accademia e nelle operette». Così annotava ironicamente il poeta e saggista francese Paul Valéry nel quarto dei cinque volumi di saggi raccolti tra il 1924 e il 1944 sotto il titolo Variétés. Sì, le virtù sembrano essersi dissolte come nebbia di un passato moralistico per lasciare spazio al successo sfolgorante raggiunto senza tante remore, alle apparenze provocatorie e non di rado al vizio sfacciato, presentato come libertà, assenza di complessi e di coercizioni. Siamo certo ben lontani dalla convinzione del filosofo e poeta statunitense Ralph Waldo Emerson che in uno dei suoi Saggi (1841) non esitava a scrivere che «l'unico premio della virtù è la virtù».
    Come si è persa per strada la coerenza morale, così si è persa anche la pacata onestà che è appunto premio a se stessa. Era ancora lo stesso Valéry che sconsolatamente ribadiva già nel 1934 che «la parola 'virtù' è morta o, almeno, muore. 'Virtù' la si dice a fatica e io la sento dire solo raramente e, nell'intenzione del mondo, sempre in tono ironico». Andiamo, dunque, controcorrente proponendo — a partire da questo articolo — una serie di riflessioni sulle virtù, consapevoli però che è necessario riportarle non solo nel discorso ma anche nel cuore delle persone perché tutti sono capaci di praticarle, come osservava Leon Battista Alberti, celebre architetto e letterato del Quattrocento, che nel suo trattato Della famiglia, composto in 4 libri tra il 1433 e il 1441, osservava lapidariamente: «Solo è senza virtù chi non la vuole».
    La trama del nostro discorso è per certi versi obbligata: dovremo scandire, prima di tutto, le famose quattro "virtù cardinali" che già Platone elencava e commentava nel suo dialogo La Repubblica (IV, 427e-433e) e che affioravano nella stessa Bibbia, in un'opera composta in greco, forse ad Alessandria d'Egitto, da un ebreo della Diaspora alle soglie del cristianesimo, il libro della Sapienza: «Se uno ama la giustizia, le virtù sono il frutto delle sue fatiche. Essa insegna infatti la temperanza e la prudenza, la giustizia e la fortezza, delle quali nulla è più utile agli uomini nella vita» (8,7). Certo, nell'atmosfera umanistica della cultura ellenistica e nella spiritualità biblica era d'obbligo accendere queste quattro lampade che illuminassero la strada della vita ed esprimere con ottimismo la convinzione che null'altro fosse più utile.
    In questa prospettiva sarà proprio S. Ambrogio, nel suo commento al Vangelo di Luca (V, 62), a definire la temperanza nei confronti dei desideri, la fortezza o coraggio, la prudenza o saggezza e la giustizia (nel senso più vasto di norma centrale per le corrette relazioni con tutti) come le virtù "cardinali", cioè "cardine" e fondamento di ogni altro atteggiamento etico. Esse sono quasi i quattro punti cardinali della mappa dell'esistenza, sono il ritratto essenziale dell'uomo morale e la spia decisiva della sua salute interiore. Per secoli queste quattro stelle si sono accese nel cielo della morale e sono state punti di riferimento spesso violati e ignorati ma mai oscurati e cancellati dal fondo della coscienza, come purtroppo sembra accadere ormai da un po' di tempo a questa parte.
    A queste quattro virtù "cardinali", dette anche "naturali" o semplicemente "morali", la tradizione cristiana ne ha associate altre tre di taglio squisitamente religioso e teologico. È per questo che sono state chiamate "teologali" o anche "soprannaturali" e, per il coinvolgimento della grazia divina nel loro esercizio, sono state talora denominate anche "virtù infuse". Esse sono elencate per la prima volta da S. Paolo nella sua Prima Lettera ai Tessalonicesi allorché loda di quei cristiani greci «l'impegno nella fede, l'operosità nella carità e la costante speranza» (1,3). Ma la formulazione più celebre è in un altro testo paolino quando l'Apostolo, dopo aver esaltato l'agàpe, l'amore o carità, come apice di ogni virtù, conclude: «Queste sono le tre cose che permangono: la fede, la speranza e la carità; ma di queste più grande è la carità!» (1 Corinzi 13, 13). Che il cristiano debba, comunque, declinare nella sua esistenza sia le virtù cardinali sia quelle teologali appare chiaramente da un passo della Seconda Lettera di Pietro che costruisce quasi una catena d'oro i cui anelli sono le varie virtù: «Mettete ogni impegno per aggiungere alla vostra fede la virtù, alla virtù la conoscenza, alla conoscenza la temperanza, alla temperanza la pazienza, alla pazienza la pietà, alla pietà l'amore fraterno, all'amore fraterno la carità» (1,5-7).
    Noi, dunque, seguiremo in futuro questa traiettoria settenaria che parte dalla morale naturale e ascende verso le vette dell'adesione di fede sino al picco supremo dell'amore. Prima, però, dovremo dedicare qualche spazio a una riflessione più generale sullo stesso concetto di virtù, tenendo conto dell'incessante cura che a questo concetto filosofi e teologi hanno riservato nei secoli, prima dell'attuale appannamento. In un certo senso dovremmo dire che fare la storia della virtù è quasi come delineare la storia della filosofia, non soltanto occidentale (si pensi solo all'etica buddhista o confuciana...). Noi ovviamente in questa prima tappa del nostro itinerario e in quelle immediatamente successive ci accontenteremo solo di far salire sulla ribalta qualche figura rilevante o evocare qualche aspetto significativo, senza voler esaurire un'insonne ricerca dai contorni non di rado fluidi e iridescenti.
    Spesso, infatti, studiando questo tema, sembra di essere davanti a un caleidoscopio i cui profili colorati sono mutevoli a ogni tocco che vi si imprime. Tanto per fare qualche esempio, la classicità intreccia virtù a vigoria, esaltando simultaneamente la limpidità interiore e la forza fisica; per Machiavelli la virtù si oppone alla fortuna ed è solo la capacità di dominare gli eventi, le situazioni e le circostanze in funzione dei propri progetti e scopi, prescindendo da qualsiasi giudizio morale o religioso su di essi e sui mezzi adottati per attuarli; per Nietzsche, il celebre filosofo tedesco ottocentesco, la virtù è la "volontà di potenza" dell'uomo autentico che si è sbarazzato delle remore delle ipocrite virtù cristiane. In questa molteplicità così variegata, come è facile intuire, si può passare insensibilmente dalla virtù al suo antipodo; dallo zenit celeste della perfezione, della purezza e dell'onestà, si può persino precipitare nel nadir infernale del vizio e della prevaricazione, continuando però a parlare di virtù. È così che il famoso scrittore moralista francese Francois de la Rochefoucauld nelle sue Massime morali (1664) non temeva di osservare che «il più delle volte le nostre virtù sono soltanto vizi travestiti».
    Curiosa, al riguardo, è la stessa etimologia della parola "virtù". Come già ricordava Cicerone nelle sue Tusculanae disputationes (II, 18), che sono un trattato filosofico, il vocabolo rimanda al latino vir, l'uomo maschio, il guerriero, e a vis, "forza": non per nulla il latino virtus significa prima di tutto "valore". C'è, dunque, un elemento non immune da ambiguità alla base di questa parola che può attestarsi anche solo sulla potenza virile e sull'aspetto marziale. Lo stesso vocabolo greco aretè non è del tutto estraneo a questa concezione: il termine, infatti, deriva dalla radice di aréion/aristos che significa "migliore, ottimo", e che dà origine al nostro vocabolo "aristocrazia". Si incrociano, dunque, l'eccellenza morale con la prestanza fisica, l'esercizio personale col successo esteriore, secondo un connubio che è tutt'altro che omogeneo e pacifico, come insegna la storia. Parlare, perciò, di virtù è sempre delicato ed esige una continua sorveglianza. Forse aveva ragione lo scrittore francese Antoine de Rivarol (1753-1801) quando, nel suo Dell'uomo intellettuale e morale, come cartina di tornasole della vera virtù contrapposta a quella sua scimmiottatura che è il successo proponeva questa regola: «Una delle proprietà della virtù è di non suscitare invidia».
    Nell'orizzonte culturale occidentale una delle prime testimonianze puntuali e profonde della riflessione sulla virtù, nella linea della tradizione socratica che con Platone aveva avuto il suo apice e che aveva collocato la virtù proprio nel cuore della morale e del retto pensare, è il trattato dell'Etica nicomachea di Aristotele, il "Maestro di color che sanno", come lo definirà Dante (Inferno IV, 131). Quest'opera, la più popolare del filosofo greco, fu pubblicata dal figlio Nicomaco a cui era dedicata ed ebbe ampi commenti, soprattutto nel Medio Evo. Anche Tommaso d'Aquino ne elaborò uno e Giovanni Boccaccio, l'autore del Decamerone, lo trascrisse integralmente a mano con diligenza calligrafica in un codice pergamenaceo (A 204 inf.) conservato nella Biblioteca Ambrosiana di Milano, attestando così il rilievo di questo trattato nella cultura medievale. Ora, il secondo dei dieci libri in cui è articolata l'Etica è riservato esclusivamente alle virtù che fanno parte della dotazione costitutiva dell'essere umano.
    Centrale è indubbiamente l'idea di saggezza, una virtù intellettiva e razionale che fissa i criteri per le virtù "etiche", quelle che reggono l'agire dell'uomo. La persona umana, perciò, ha le capacità della ricerca teorica (intelletto, scienza, sapienza, arte) ma ha anche capacità di operazione, di attività, di scelte esistenziali. Ci sono, dunque, in noi il pensiero e l'azione, e l'intelligenza ci conduce sì a riflettere ma ci guida anche ad agire. Per Aristotele, le virtù sono delle disposizioni (si è soliti dire habitus, cioè "abitudini, predisposizioni") che devono essere, però, coltivate, educate così da trasformarsi in guida per l'attività libera e responsabile del soggetto morale. La virtù, allora, è intrecciata intimamente con la libertà e ha come luce che la rischiara la saggezza razionale. Per questo è necessario l'esercizio come lo è l'educazione (la paideia greca). Per Aristotele – che, tra l'altro, offre una serie di raffinate annotazioni "psicologiche" che avranno un forte influsso nell'analisi successiva riguardo all'anima – la virtù è l'eccellenza (si ricordi l'etimologia del termine greco aretè sopra indicato), la perfezione dell'essere urna no, autore e responsabile dei suoi atti. «È la disposizione permanente dello scegliere tenendosi nel giusto equilibrio determinato dalla ragione», scrive nell'Etica nicomachea (II, 6, 1106b - 1107a).
    Noi per ora ci fermiamo qui accontentandoci della figura e del messaggio del filosofo greco di Stagira. Certo, altre scuole dell'antichità classica riservarono ampia attenzione a questo tema. Pensiamo solo allo stoicismo che contrappose la virtù alla "passione" secondo una prospettiva che potremmo definire ascetica. L'ideale del sapiente è, infatti, l'"apatia", cioè la liberazione assoluta dalle passioni per lasciare campo libero alle virtù che sono premio a sé stesse e generatrici di felicità e serenità, anche quando l'esteriorità è ardua da vivere e le apparenze sembrano toglierci ogni possibilità di quiete e pace. E qui ci ritroviamo nuovamente alla citazione di Emerson presentata in apertura al nostro discorso: «L'unico premio alla virtù è la virtù». Essa è eco della convinzione stoica che anche íl filosofo Baruch Spinoza aveva proclamato con una variante: non è che la beatitudine sia il premio della virtù, ma è la virtù stessa ad essere beatitudine. È per questo che nel mondo greco-romano la Virtù divenne una dea e, così, fece il suo ingresso nel pantheon delle divinità, rivelandosi come una realtà trascendente e sacra.

    BREVE STORIA DELLA VIRTÙ

    «Chi semina virtù fama ricoglie», annotava Leonardo da Vinci nei suoi Scritti letterari forse con qualche ottimismo. Non sempre, infatti, la virtù è celebrata e lascia dietro di sé una scia luminosa nella memoria. Soprattutto ai nostri giorni le virtù vere sono state relegate nei manuali o nel recinto sorvegliato a vista del cosiddetto "moralismo", quasi fosse una cosa indecorosa praticare con rigore la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza. Come è noto, sono queste le celebri quattro "virtù cardinali" verso le quali noi stiamo puntando per riproporle come altrettante stelle che s'accendano nel cielo della morale anche contemporanea. Prima, però, di parlare di ciascuna di esse, abbiamo deciso di abbozzare una sorta di breve storia della virtù.
    -Nell'articolo precedente abbiamo delineato un profilo della cultura classica che, coi nomi di Platone e Aristotele, si è dedicata alla ricerca dell'essenza della virtù. Il mondo greco-romano ha poi lasciato una traccia viva anche nella stessa spiritualità cristiana che ha assunto senza esitazioni temi e spunti tradizionali inserendoli nel nuovo progetto teologico che stava elaborando. È curioso il fatto che S. Ambrogio – l'inventore del termine "cardinali" per definire quella specie di quadriga di virtù che Platone aveva identificato per la morale – abbia intitolato una sua opera di taglio morale ed esistenziale De officiis ("I doveri"), alla stessa maniera di Cicerone. È indubbio, però, che questa "cristianizzazione" delle virtù avveniva all'interno di un quadro nuovo e di equilibri differenti. Così, S. Agostino. pur accogliendo il quartetto delle virtù cardinali, le sottoponeva a un'altra costellazione, quella delle tre "virtù teologali", fede, speranza e carità, alle quali attribuiva il primato.
    Si configurava così un settenario non omogeneo ma coordinato che si ramificava su due piani differenti, quello naturale e quello soprannaturale. A disegnare in modo acuto e puntuale la mappa in rilievo di queste virtù-fu una figura fondamentale nel pensiero cristiano occidentale, S. Tommaso d'Aquino (1224/25-1274) con quel suo straordinario monumento che è la Summa Theologiae: per il nostro tema è capitale l'analisi della Prima Secundae, ossia la prima sezione della seconda parte in cui è articolato quel capolavoro. Egli, infatti, aveva situato la questione delle virtù nel contesto più generale e ben più arduo del rapporto tra natura e grazia, tra libertà umana e azione salvifica divina. Detto in altri termini, per comprendere in pienezza la funzione delle virtù bisogna inquadrarle nella più ampia visione dell'uomo secondo la prospettiva cristiana. Per esprimersi più tecnicamente, le virtù sono una questione di antropologia teologica.
    Ora, l'uomo è un essere in divenire, in crescita dinamica sulla spinta della sua libertà: la via che deve percorrere, però, ha uno sbocco nell'eterno e nell'infinito per cui la tensione della creatura non può mai placarsi. Non per nulla Cristo ammonisce: “Siate perfetti come perfetto è il Padre vostro celeste” (Matteo 5, 48). Ora, l'uomo in questo cammino s'imbatte in tanti sentieri che si diramano lateralmente rispetto alla via principale. Forte è, perciò, la tentazione di inoltrarsi su qualcuno di essi per scoprire panorami inediti, col rischio invece di piombare in un baratro o di disperdersi in un deserto. È questa la lacerazione profonda che S. Paolo ha stupendamente descritto nel c. 7 della Lettera ai Romani, quando si sente teso tra il fascino del bene (la via maestra) e l'attrattiva del male che pulsa nella nostra carne e nella stessa anima. Chi non ricorda la celebre parabola della biga dai due cavalli bianco e nero (virtù e vizi), parabola tratteggiata da Platone nel suo Fedro?
    Ecco, in questa lotta interiore, che è la sintesi della vicenda morale personale, la virtù è la guida sulla via retta e sicura, come già diceva il sapiente biblico: «l tuoi occhi guardino diritto e le tue pupille mirino diritto davanti a te. Bada alla strada dove metti piede, e tutte le tue vie siano ben rassodate. Non deviare né a destra né a sinistra, tieni lontano il piede dal male» (Proverbi 4, 25-27). Ora, perché le virtù possano tenere salde le redini della libertà umana, è necessario che il loro influsso sia costante, il loro esercizio crei quasi un addestramento dell'anima a scegliere il bene. È quello che S. Tommaso, sulla scorta dell'insegnamento di Aristotele, chiama l'habitus.
    Intendiamoci bene: la traduzione di questa parola dovrebbe essere "abitudine", ma non si deve equivocare. Non si tratta, infatti, di una specie di ripetizione passiva e inconsapevole di gesti, bensì di una vera e propria costanza nell'esercizio severo della propria libertà che si orienta con impegno e decisione verso i veri valori. Le virtù sono quindi conquista di sé stessi, dominio sulle tempeste delle passioni, adesione coerente e permanente al bene, alla verità, alla bellezza, alla giustizia. Esse devono attuare nella persona qualcosa di simile a quello che accade all'atleta o all'artista da circo o alla ballerina che volteggiano nell'aria, sfidando le leggi stesse di gravità, ma lo fanno con lievità, con armonia, apparentemente senza fatica. In realtà alle spalle c'è un'aspra e severa "ascesi" (in greco askesis significa "esercizio"), c'è appunto quell'habitus che sopra abbiamo evocato per le virtù.
    L'uomo non è una realtà angelica, è intimamente strutturato in modo compatto tra anima e corpo. Le virtù, allora, devono regolare l'intero essere della persona, trasformando non solo l'intelligenza e la volontà ma anche permeando l'orizzonte sensibile, passionale, affettivo. Le virtù non possono perciò esaurirsi nell'ambito spirituale ma devono irrompere in tutto l'essere. Esse devono perfezionare radicalmente la creatura umana, in una globalità che è postulata proprio dall'intima unità che intercorre tra anima e corpo, unità che la tradizione cristiana ha esaltato non solo basandosi sulla visione biblica ma anche sulla riflessione aristotelica (il cosiddetto "ilemorfismo", unione di "materia" e "forma") che avrà proprio in S. Tommaso d'Aquino un alfiere. Naturalmente, proprio per il rischio insito alla libertà, in noi può configurarsi un altro habitus deleterio, quello che ci spinge progressivamente e sistematicamente a scartare la via diritta per puntare sui sentieri laterali spesso illusori. «C'è una via – ammonisce ancora il sapiente biblico – che pare diritta a qualcuno, ma sbocca in sentieri di morte» (Proverbi 16, 25). Questa "abitudine" è ovviamente il vizio che si oppone alla virtù. Si ha così la definizione che S. Tommaso conia: «La virtù è la buona qualità della mente per cui si vive rettamente e di cui nessuno può servirsi per il male» (Summa Theologiae I, Il, q. 65, a. 4).
    Delineato il profilo generale delle virtù, l'Aquinate, sulla scia della tradizione, isola quei due livelli a cui sopra accennavamo. C'è, infatti, un piano "naturale": con la ragione e la volontà l'uomo, che ha scelto la via diritta della virtù e si è in essa allenato (habitus), si esprime nella vita secondo quattro dimensioni morali fondamentali. Sono appunto le virtù cardinali, i quattro punti capitali della geografia dell'anima virtuosa e giusta. In questo quartetto si può individuare anche una gerarchia. La prima ad avanzare, guidando il corteo delle altre virtù è la prudenza (Platone parlava di "sapienza"). Si tratta di una virtù regolatrice generale perché ci aiuta a sceverare e a vagliare ciò che è opportuno per raggiungere la meta ultima della strada dell'esistenza, una meta alta e trascendente che talora può appannarsi e ai nostri occhi, attratti dal brillio di realtà marginali e caduche, può anche svanire come un miraggio.
    Alle spalle della prudenza procede la giustizia, circondata da varie ancelle, ossia da diverse figure di virtù minori ad essa collegate (gratitudine, veracità, affabilità, liberalità, equità, punizione e così via). Il suo motto è lapidario: «Dare agli altri ciò che è dovuto», che potrebbe essere ulteriormente sintetizzato nel celebre Unicuique suum, "a ciascuno il suo". È evidente la dimensione sociale di questa virtù che pone l'uomo in relazione corretta col prossimo, con la famiglia, con la nazione, con l'intera umanità e con Dio. Naturalmente su questa virtù – come sulle altre – dovremo a suo tempo condurre un'analisi molto accurata, considerato il rilievo che essa esercita per un'autentica vita di relazione con l'altro.
    Più personali, anche se con aspetti che sempre coinvolgono l'orizzonte esterno, sono le altre due virtù che si allineano nel nostro ideale corteo morale e che sono entrambe destinate a regolare l'affettività, ossia le passioni della creatura umana. La fortezza si oppone a quelle passioni che inibiscono l'energia vitale della persona quando essa si trova a fronteggiare gli ostacoli dell’esistenza, pericoli, mali, dolori. contraddizioni e la stessa morte. Essa può avere profili differenti che corrispondono ad altrettante virtù minori come la perseveranza, la costanza, la pazienza, la magnanimità, il dominio di sé.
    Infine, ecco avanzare la temperanza che è chiamata a dominare quello che nel linguaggio medievale era chiamato "l'appetito concupiscibile", così come la fortezza teneva a freno "l'appetito irascibile". Essa frena gli istinti e le pulsioni che esplodono dai sensi e li regola in modo che essi compiano la loro preziosa funzione senza prevaricare. I desideri sessuali, tattili, uditivi, culinari e così via vengono ricondotti nel loro alveo vitale corretto e ad attuare questo compito la temperanza è coadiuvata da una serie di virtù minori sue ancelle, come l'astinenza, la sobrietà, la castità, l'umiltà, la rinuncia, la mitezza.
    Parlavamo prima, a proposito del settenario delle virtù, di due livelli. È proprio su un piano superiore che S. Tommaso d'Aquino colloca le altre tre virtù che egli chiama "infuse" e che sono state poi comunemente definite come "teologali" avendo Dio come oggetto e meta. Esse sono specificamente connesse all'esperienza religiosa e in particolare sono declinate dal grande teologo sulla base della Rivelazione cristiana. Sono perciò "soprannaturali" perché ci conducono a un orizzonte trascendente: l'uomo, infatti, nella visione cristiana è chiamato a diventare figlio adottivo di Dio, a partecipare quindi alla sua stessa vita, a entrare nel suo Regno per essere con lui nella gloria. Un destino che travalica le esigenze della natura fragile e limitata della creatura. È per raggiungere questa meta gloriosa che Dio "infonde" (donde la definizione di "virtù infuse") nell'uomo un principio d'azione che va oltre la sua dotazione naturale espressa dalle quattro virtù cardinali e che lo tende verso la pienezza di vita sopra descritta. Entra qui in giuoco quel delicato ma fondamentale equilibrio tra grazia divina e libertà umana. Le virtù teologali sono un dono che viene offerto dall'alto alla persona, la quale però può non stendere la sua mano e rimanere chiusa in sé stessa e nella sua autosufficienza più o meno orgogliosa.
    Come sappiamo, è lo stesso S. Paolo a elencare questa trilogia luminosa – sulla quale a suo tempo dovremo a lungo intrattenerci – quando scrive ai Corinzi nella sua Prima Lettera: «Queste sono le tre cose che permangono: la fede, la speranza e la carità» (13, 13). La fede è l'adesione alla verità rivelata e alla persona del rivelatore che è Cristo. La speranza è l'attesa operosa e vigile della meta ultima della storia quando «Dio sarà tutto in tutti» (1 Corinzi 15, 28). La carità è la donazione d'amore verso Dio e verso i fratelli. Anche in questo caso il corteo delle virtù ha un suo ordine: ad aprire l'ideale processione è la carità, l'agàpe, come la definisce in greco il Nuovo Testamento, il comandamento primo e unico che Cristo ha lasciato ai suoi discepoli. L'amore è anche la virtù ultima e definitiva perché ha come meta la comunione col Dio che è per eccellenza Amore (1 Giovanni 4, 8.16).
    La fede cammina tenendo fisso lo sguardo alla carità che la guida, mentre a reggere i passi della fede, secondo un ritmo costante e senza cedimenti, è la speranza. Il poeta francese Charles Péguy che alla speranza ha dedicato un intero poema, Il portico del mistero della seconda virtù (1911), suggestivamente scriveva: «Tirata, appesa alle braccia delle sue due sorelle più grandi, che la tengono per mano, la piccola speranza avanza. E in mezzo alle due sorelle grandi ha l'aria di lasciarsi tirare. Come una bimba che non avesse la forza di camminare. In realtà è lei che fa camminare le altre due».
    La riflessione di S. Tommaso d'Aquino procede poi su altri percorsi che noi non possiamo seguire compiutamente, dati i limiti ristretti del nostro itinerario essenziale nel mondo delle virtù naturali e soprannaturali. Così, ad esempio, uno dei capitoli ulteriori da lui sviluppati è quello del nesso tra i due livelli e quindi tra le virtù cardinali e quelle teologali. Unico, infatti, è il soggetto che le mette in opera; la grazia non elide la libertà; la trascendenza che entra nella creatura non estingue la sua razionalità, la sua naturalità, la sua carnalità. Si ha, quindi, un intreccio tra le virtù morali naturali e quelle infuse per grazia, riproponendo così per certi versi anche nella persona umana la vicenda dell'Incarnazione di Cristo nella quale divinità e umanità sono intimamente congiunte. Noi, comunque, ci fermiamo per ora qui, in attesa di compiere in futuro una nuova tappa nella nostra breve storia della virtù, percorrendo i secoli successivi all'Aquinate per approdare fino ai nostri giorni.
    Sarà come seguire la stessa vicenda interiore dell'umanità perché la virtù, pur manifestandosi in opere e in relazioni, ha la sua radice intima e profonda nell'anima. Per questo è vero quanto ha insegnato Confucio, il maestro della spiritualità cinese vissuto tra il VI e il V sec. a.C. (il suo nome originario, deformato in Confucio in Occidente, era appunto K'ung fu-tzu, ossia "il maestro K'ung"). Egli nell'opera raccolta dai suoi discepoli e intitolata Lun Yü), "Dialoghi" o "Colloqui", osservava: «Belle parole e un aspetto insinuante sono raramente associati con l'autentica virtù».
    Sì, perché la virtù non è apparenza ma scelta radicale che, quasi con pudore, effonde attorno a sé il bene irradiando il mondo in cui essa si svela.

    LA VIRTÙ TRA IMPERATIVO E SPONTANEITÀ

    «La virtù premiata! Non significa fare della virtù una merce di scambio? Non è così che va nel mondo, ed è bene che non sia così. Dove starebbe il merito. se la virtù fosse premiata?». Così annota nel suo diario Ismail, il protagonista di un bel romanzo dello scrittore Kader Abdolah, nato in Iran nel 1954 ma rifugiatosi da anni in Olanda (la lingua che egli usa è appunto il nederlandese), romanzo intitolato Scrittura cuneiforme (ed. Iperborea 2003). La virtù, quindi, per risplendere in tutto il suo fulgore deve essere libera e gratuita, fine a se stessa, sciolta da motivazioni esterne.
    Ebbene, nella breve storia della virtù che noi stiamo ricostruendo, uno dei temi di dibattito fu proprio questo. Esso si era affacciato all'orizzonte già nelle due tappe che abbiamo delineato negli articoli precedenti, ossia nella classicità e nella riflessione medievale di Tommaso d'Aquino. Tuttavia la riserva esplicita sulla virtù come merito da accampare nei confronti di Dio fu avanzata dalla teologia protestante che vedeva in questa impostazione un'estenuazione, se non una vanificazione, del primato della grazia divina a noi offerta in Cristo. Scattò, allora, la reazione del Concilio di Trento che, in ambito cattolico, riportò la barra verso l'importanza dell'osservanza dei comandamenti e quindi delle virtù. Ma anche questa correzione di rotta ebbe le sue derive: nacque un eccesso di moralismo a livello "scolastico" e pastorale.
    La questione delle virtù era destinata, però, a uscire dal perimetro delle Chiese e delle accademie teologiche e subito si configurò, anche in questo caso, una sorta di oscillazione tra due poli teorici. Il primo era costituito dalla tesi secondo la quale la virtù nasce dalla volontà, dall'impegno personale, dal sacrificio di sé, da un andar contro l'istinto e l'egoismo. Il grande filosofo Montesquieu (1689-1755) nel suo celebre Spirito delle leggi non esiterà a raffigurare la "virtù" come espressione del cittadino cosciente e libero che sacrifica il proprio interesse particolare per il bene della comunità e della patria, a differenza dell'"orgoglio" che è emblema di regimi monarchici assoluti e della "paura" che pervade gli oppressi dal dispotismo.
    L'altro polo teorico era, invece, rappresentato dalla tesi secondo la quale la virtù è una vera e propria "grazia", è un impulso naturale spontaneo che l'uomo ha iscritto nella sua coscienza e che solo il pervertimento della volontà può ostacolare. È quella prospettiva che fu definita, ricorrendo a un'espressione platonica, come "anima bella", una concezione esaltata dai famosi poeti tedeschi Schiller e Goethe. "Bella" è l'anima che segue la virtù per ispirazione immediata, per inclinazione interiore, quasi mossa dal vento dello Spirito. Si trattava di una visione carica di connotazioni romantiche e fin narcisistiche. I filosofi inglesi ritenevano che alla radice ci fosse o la "benevolenza" innata (così Shaftesbury e Hutcheson) oppure la "simpatia" che apre il cuore all'altro è al bene (così Hume e Smith), secondo una concezione ottimistica della persona.
    Come è facile intuire, si ripresentava "laicamente" il contrappunto tra libertà e grazia sotteso al dibattito teologico prima delineato e si registravano altrettante degenerazioni ideologiche. Ne segnaliamo solo-una, espressa dal cosiddetto "libertinismo" (incarnato, ad esempio, dai filosofi Bayle e de Mandeville). Secondo tale concezione, proprio perché frutto di un'artificiosa auto-imposizione, la virtù come sacrificio è una rovina perché genera ipocrisia e falsità e ha come risultato la facciata pretenziosa delle "pubbliche virtù" che in realtà altro non fa che coprire corposi "vizi privati". Per questo sarebbe molto più logico e coerente riconoscere che il benessere comune nasce da un sano e sereno esercizio dei vizi, al massimo regolamentato da leggi che siano fluide e non eccessivamente repressive.
    È a questo punto che sulla scena irruppe la figura monumentale di Immanuel Kant (17241804), una presenza capitale e incombente nella cultura occidentale. Egli fu l'assertore convinto e drastico della tesi del primo polo, quello della virtù come sacrificio di sé, in contrasto con gli interessi personali, le inclinazioni spontanee, gli egoismi individualistici. Nella memoria di tutti è sicuramente presente una citazione desunta dalla finale della sua Critica della ragione pratica (1788): «Due cose riempiono l'animo di ammirazione e di riverenza sempre nuove e crescenti, quanto più spesso e a lungo il pensiero vi si sofferma: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me» (der bestirnte Himmel Pber mir und das moralische Gesetz in mir). La creatura umana ha incisa in sé questa legge interiore a cui deve ottemperare nelle sue scelte. È il celebre "imperativo categorico", come lo chiama il filosofo di Königsberg, a cui la volontà deve sottomettersi e questo atto di adesione è severo ed esigente, costa sacrificio e impegno e porta il nome di "virtù".
    Se è un imperativo, è segno che l'adeguazione ad esso non è una lieve e spontanea accettazione: al massimo questo può accadere nella santità che è però caratteristica esclusivamente divina. La legge morale è, infatti, identica per Dio e per l'umanità, ma Dio vi aderisce in modo immediato e assoluto perché in lui nulla contrasta a quella voce intima, nessuna opacità si oppone all'irraggiare di quella luce. L'uomo, invece, deve intraprendere una vera e propria lotta perché egli è strattonato da pulsioni e forze che lo spingono a deviare. La virtù, allora, nasce dall'"autonomia", ossia dalla libera volontà. È evidente, come successivamente osserverà il filosofo Hegel, che questa concezione è una tipica espressione del soggettivismo moderno, perché ha le sue radici nell'individuo, segnato dall'imperativo morale e dall'esercizio autonomo della libertà.
    Tra l'altro bisogna ricordare che Kant nella sua opera Fondazione della metafisica dei costumi (1785) introdusse con vigore e rigore una distinzione preziosa e rischiosa al tempo stesso, quella tra "dottrina della virtù" e "dottrina del diritto": il diritto ha come suo cuore solo la conformità esteriore-di un'azione rispetto alla norma, prescindendo da ogni intenzione; la virtù ha il suo cuore, invece, nell'intenzione soggettiva, nell'adesione personale coerente e cosciente, prescindendo da altre motivazioni e dallo stesso risultato dell'azione. Storicamente Kant fu uno degli ultimi grandi teorici della virtù. Poi si assistette per un paio, di secoli a una sorta di appannamento o almeno di sordina. Certo, nelle accademie teologiche si continuava a insegnare la dottrina tomistica, nella pratica pastorale si tuonava contro i vizi e si glorificavano le virtù, nel mondo borghese si esaltava il perbenismo moralistico, a livello popolare la virtù si restringeva quasi esclusivamente alla sfera sessuale (non si diceva, infatti, che le donne di facili costumi erano di "piccola virtù"?).
    La rinascita dell'interesse per una riflessione su questo tema si è registrata a partire dal secolo scorso, in particolare con un trittico di pensatori che ci accontentiamo solo di evocare. Il primo fu il filosofo bavarese Max Scheler (1874-1928), particolarmente attento al recupero del mondo dei valori etici: egli scrisse un saggio dal titolo emblematico, Zur Rehabilitierung der Tugend, "la riabilitazione della virtù" e della sua dignità nel dibattito filosofico. Il contenuto della virtù è appunto costituito dai valori assoluti ed eterni che si conoscono non con la ragione ma con l'intuizione e con l'adesione interiore. Il valore supremo verso cui tendono tutti gli altri valori è la santità, mentre il fondamento è l'amore. Ed è la persona nella sua pienezza – e non soltanto l'individuo che, al massimo, è capace di benevolenza, simpatia o pietà – ad abbracciare l'amore come anima profonda dell'agire e quindi delle virtù. Si ha, così, alla fine la nascita della comunità d'amore tra le persone: essa dovrebbe incarnarsi nella Chiesa, mentre umanità, società, Stato rimangono livelli inferiori di convivenza.
    L'altra figura significativa nel dibattito contemporaneo sulle virtù è il filosofo francese, nato da una famiglia ebrea di emigrati russi, Vladimir Jankélévitch (19031985), la cui opera maggiore è intitolata appunto Trattato delle virtù (1949 e 1971), tradotto in italiano da Garzanti nel 1987, e riedito nel 1996. Per questo pensatore la morale precede il pensiero, e l'atto etico si fonda in se stesso: compito della filosofia non è tanto quello di spiegare questo cortocircuito quanto piuttosto di accettarlo e studiarlo. Anche per Jankélévitch l'amore è l'apice della virtù, come donazione totale di sé all'altro, ma proprio per questa sua caratteristica si rivela drammatico perché rischia l'annientamento della stessa persona ed è allora necessario dosarlo, ma facendo questo, in parte si nega l'amore. È questa la contraddizione nella quale noi siamo sistematicamente coinvolti: da un lato urgono le esigenze dell'amore, dall'altro si erge la necessità della sopravvivenza dell'io.
    Infine, grande eco ha avuto l'opera Dopo la virtù. Saggio di teoria morale pubblicata nel 1981, riedita con una revisione nel 1984 e tradotta in italiano da Feltrinelli nel 1988, un saggio del filosofo scozzese Alasdair Ch. MacIntyre, nato a Glasgow nel 1929, trasferitosi negli Stati Uniti ove è stato docente presso l'università di Notre Dame nell'Indiana. La sua è una visione comunitaria della morale e quindi egli combatte ogni individualismo e ogni eccesso soggettivistico. La secolarizzazione della morale iniziata con l'Illuminismo non ha fatto che impoverirla rendendola non "autonoma" ma semplicemente priva di valori e di ideali e di contenuti: si è, così, creata l'attuale crisi di valori e di ideali, la società si è sparpagliata, non esistono più punti di riferimento e le istituzioni hanno perso la loro legittimità.
    È allora necessario ritornare senza esitazione alla tradizione etica aristotelica basata sulle virtù, vero fondamento ultimo delle leggi, delle relazioni umane, della vera comunità coordinata da valori comuni solidi e autentici. Solo per questa via si riesce a superare il relativismo etico e a ritrovare un'armonia sociale e MacIntyre vede nella tradizione cattolica e nella sua dottrina morale un indubbio riferimento capitale. Come è evidente, dopo il lungo silenzio seguito all'Illuminismo e alla modernità, si assiste a un ritorno alle radici della filosofia morale, alla stessa proposta teologica classica e, quindi, le virtù rientrano in scena in modo netto ed esplicito.
    La riflessione contemporanea attorno al tema delle virtù si è però arricchita di nuovi contributi e si è aperta a nuove prospettive. Si pensi soltanto all'incidenza che ha la psicologia nell'analisi delle scelte personali: la stessa categoria aristotelico-tomistica di habitus, ossia di attitudine coerente e costante nell'esercizio delle virtù, da noi già approfondita nella precedente puntata della nostra ricerca, acquista un diverso spessore se vagliata con l'ausilio delle discipline antropologiche moderne. Del tutto innovativo è anche l'approccio alla nozione di "giustizia" nella sua dimensione sociale, tenendo conto dell'elaborazione offerta dalle scienze sociali contemporanee e dagli stessi pronunciamenti ufficiali ecclesiali, come è accaduto nelle encicliche Mater et magistra di Giovanni XXIII e Laborem exercens o Centesímus annus di Giovanni Paolo II.
    L'orizzonte delle virtù si allarga verso nuovi percorsi e regioni in passato insospettate, come è stato suggerito dal teologo Joseph Endres in un articolo del 1987 sulle "origini teologiche dei diritti dell'uomo, apparso sulla rivista francese Le Supplément (n. 160): la tolleranza, l'impegno per la pace, l'amore per gli emarginati e i deboli, l'uso corretto delle materie prime e la loro destinazione universale, l'ecologia e il rispetto dell'ambiente, la pratica non prevaricatrice dei mezzi di comunicazione di massa, la tutela dei diritti fondamentali e della dignità della persona e così via. A questi aspetti faremo cenno nel nostro itinerario attraverso il settenario tradizionale delle virtù cardinali e teologali che inizieremo a partire dal prossimo numero della nostra rivista, lasciando comunque spazio a ulteriori applicazioni personali. Le virtù, secondo la classificazione tradizionale, vogliono infatti essere simili solo a stelle di riferimento per un cammino che è in sé complesso, ramificato e vario.
    È significativo ricordare, a conclusione di questa nostra breve storia generale della virtù, che per secoli si è assistito al proliferare di una serie molto variegata e attualizzata di trattati dedicati alle virtù e ai vizi. Alcuni di essi mettevano in scena un vero e proprio duello tra vizi e virtù, una Psycomachía, cioè una "battaglia dell'anima", come aveva titolato attorno al '400 una sua opera il poeta latino cristiano spagnolo Prudenzio. Altri in modo meno "drammatico" opponevano virtù e vizi capitali in un confronto teorico e pratico: nacquero così, a partire dall'epoca carolingia con Alcuino (morto nell'804) fino a tutto il Medio Evo, i trattati De virtutibus et vitiis, destinati ad analizzare nelle loro diverse iridescenze queste due opzioni morali antitetiche. Infine, sorsero anche florilegi che, attraverso citazioni, aforismi, esempi, parabole, spesso ad uso dei predicatori, esaltavano il fascino della virtù e l'infamia punita del vizio.
    Dopo tutto già lo storico greco Senofonte (427/8-354 a.C.) nella sua opera Memorabili (II, 1,22-23) narrava l'aneddoto di "Ercole al crocevia". Giunto a un incrocio, il famoso eroe s'era imbattuto in due donne che gli suggerivano di imboccare due strade antitetiche: l'una si chiamava Aretè, in greco "Virtù", mentre l'altra era Kakià, la "Malizia". L'antica parabola classica è l'emblema di una vicenda costante in cui tutti siamo testimoni e attori, collocati come siamo sul crinale della libertà di scelta. E, come osservava lo scrittore americano Henry David Thoreau (1817-1862) nel suo romanzo autobiografico Walden, “non v'è un istante di tregua nella lotta tra vizio e virtù».

    (Notiziario della Banca Popolare di Sondrio, vari numeri del 2003-2004)


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