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    Perché aiutare gli altri?

    Piero Stefani


    Non è scontato dare risposta a questa che sino a qualche tempo fa sarebbe parsa una domanda puramente retorica. Oggi, in particolare, è la spinta migratoria che costituisce il contesto «nuovo» in cui interrogativi scontati si ripropongono in termini drammatici, laddove il «come» arriva a mettere in crisi il «perché». Il peso del «come» è grande. Per essere in grado di aiutare gli altri - afferma Piero Stefani - occorre avere profondità spirituale, qualità etiche, senso dell'empatia, competenze politiche, sociologiche, giuridiche, psicologiche, pedagogiche, tecniche e godere, molto spesso, di adeguate risorse economiche. In società complesse e in un mondo globalizzato l'insieme dei fattori prima elencati viene chiamato sempre più in causa anche nel caso di semplici rapporti interpersonali. Dobbiamo quindi rinunciare?

    No, occorre innanzitutto non lasciare che l'accidia personale e collettiva così come il sentimento della paura o dell'incertezza del futuro abbiano il sopravvento. E, soprattutto, occorre porre come primo imperativo, antidoto d'ogni atteggiamento rinunciatario, quello di cercare di capire.

    Per chi avverte nel proprio animo la spinta ad aiutare altre persone, un problema urgente, e spesso delicato e impegnativo, concerne il come farlo.
    Quando, nella concretezza delle proprie esistenze, si tocca questo tasto, si comprende senza difficoltà che le buoni intenzioni tante volte non bastano. Ciò vale sia per la dimensione individuale sia per quella collettiva. Di frequente si è costretti a registrare impreviste ricadute negative delle azioni intraprese. Più volte, per scongiurare siffatti esiti, si ricorre a esperti del «come». In questi ambiti acquistano sempre più spazio le competenze tecnico-professionali.
    A essere chiamata in causa è praticamente tutta la sfera delle scienze umane colte nel loro versante pratico. Economisti, sociologi, psicoanalisti, psicologi, pedagogisti, consulenti familiari sono le prime, ma non le sole, esemplificazioni che balzano alla mente. Anche sul versante spirituale, per affrontare simili snodi, ci si rivolge a determinate competenze, dalle più tradizionali, come il prete o il confessore, a quelle ispirate ad altre tradizioni religiose, parareligiose o sapienziali. In questi casi il bisogno di aiutare gli altri si intreccia, non raramente, con il sostegno che si cerca per se stessi.
    Gli esiti non sono assicurati, a volte si fanno progressi, altre volte si patiscono invece delusioni tanto cocenti da far sì che il fallimento del «come» conduca fino a mettere in discussione il «perché» occorra impegnarsi. La frase colloquiale che suggella questo esito è: «Non c'è più nulla da fare».
    L'esperienza attuale ci dice che la serietà della questione del «come» non deve far trascurare il problema del «perché». Non va infatti dato per scontato che prestare aiuto sia una caratteristica tipica della condizione umana. Essa non è presente in ogni circostanza nell'animo di tutti. Risulta quindi urgente trovare risposte alla radicale domanda: «Perché mai dobbiamo aiutare gli altri?».
    In realtà, andare alla ricerca di solidi fondamenti per risolvere la questione significherebbe affrontare l'intera sfera della ricerca etica, un compito che va ben al di là della serie di riflessioni qui proposte. Senza alcuna pretesa di conseguire la completezza, ci si limiterà perciò ad avanzare alcune delle molte motivazioni che spingono ad aiutare gli altri.
    Secondo una prima approssimazione è dato individuare cinque motivazioni di fondo che inducono a prestare aiuto agli altri. Le elenchiamo senza introdurre alcun ordine gerarchico. Va comunque precisato che esse, pur non escludendo l'aspetto collettivo, tengono soprattutto conto della componente individuale: occorre aiutare gli altri perché conviene; per un moto di compassione o solidarietà presente nell'animo umano; perché è comandato; per la radicale e comune non-autosufficienza della condizione umana; per non espandere il male presente nel mondo.
    Al pari di ogni altra schematizzazione, anche quella qui proposta è in parte fallace; essa tende infatti a introdurre confini netti là dove, non di rado, ci sono incroci e sovrapposizioni.

    II «proprio interesse»

    Vi è un primo modo di declinare il problema che potremmo definire, in senso lato, economico e un secondo classificabile come relazionale (e in questo senso prossimo all'etimo della parola: «con-venire»).
    Nell'ambito economico non è dato, per definizione, di prescindere dall'utile. La via da perseguire è mostrare concretamente che il conseguimento del proprio vantaggio implica l'incremento anche di quello altrui. Le formulazioni più tipiche di questo principio si ritrovano nell'ambito dell'economia politica classica. Scrive Antonio Genovesi: «Fatigate per il vostro interesse, niuno uomo potrebbe operare altrimenti che per la sua felicità, sarebbe un uomo meno uomo: ma non vogliate fare l'altrui miseria e, se potete e quando potete, studiatevi di far gli altri felici. Quanto più si opera per interesse tanto più, purché non si sia pazzi, si debb'esser virtuosi. È legge dell'universo che non si può far la nostra felicità senza fare quella altrui».[1]
    Nell'ambito dell'economia il primo fattore che muove a operare è la «propria felicità», il «proprio interesse», il «proprio profitto», il «proprio guadagno». Non può essere che così. La questione è far sì che il proprio tornaconto sia nelle condizioni di procurare vantaggi anche agli altri. L'economia liberale classica era fiduciosa che, per logica interna, nella sfera della produzione e dello scambio non vigesse la regola dell'homo homini lupus.
    Secondo un celebre detto di Adam Smith: «Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro desinare, ma dalla considerazione che essi hanno per il loro interesse personale. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro egoismo e ad essi parliamo dei loro vantaggi e non delle nostre necessità»;[2] ma facendo i loro interessi i fornitori fanno anche quelli degli acquirenti e viceversa.
    Nei due secoli successivi l'ottimistica fiducia tipica della visione economica liberale è largamente saltata; tuttavia resta fermo il fatto che l'ambito economico non è retto dal puro altruismo. Ovviamente è ben possibile, anzi doveroso, porre in discussione la logica liberale pura. È dato impegnarsi per un'«economia civile» e ancor più radicalmente per un'«economia di comunione» [3] ma, «per la contraddizion che nol consente», non è lecito, in campo economico, parlare in termini di pura gratuità e generosità e di assenza di ogni utile, e ciò proprio a motivo del conseguimento di un comune vantaggio.
    Tenendo conto di quanto si è appena detto, nasce l'interrogativo del perché spesso non ci si conformi alla legge universale in base alla quale non è dato raggiungere la propria felicità senza fare anche quella altrui. In simili circostanze, argomentare a favore del vantaggio reciproco risulta l'operazione più efficace.
    Scrisse David Hume: «Il tuo grano è maturo oggi il mio lo sarà domani. Sarebbe utile per entrambi se io oggi lavorassi per te e tu domani dessi una mano a me. Ma io non provo alcun particolare sentimento di benevolenza nei tuoi confronti e so che neppure tu lo provi per me. Perciò io oggi non lavorerò per te perché non ho alcuna garanzia che tu domani mostrerai gratitudine nei miei confronti. Così ti lascio lavorare da solo oggi e tu ti comporterai allo stesso modo domani. Ma sopravviene il maltempo e così entrambi finiamo per perdere i nostri raccolti per mancanza di fiducia reciproca e di garanzie».[4]
    Anche in questo caso l'aiuto dovrebbe avvenire non a motivo di una reciproca benevolenza ma a causa di una palese convenienza. In definitiva, pure se il vicino mi è antipatico traggo vantaggio dall'aiutarlo.

    Sono felice se tu sei felice

    Intensificando la dimensione dell'utile si può giungere alla posizione espressa nel detto corrente (ma forse oggi un po' meno frequente di ieri): «Fare del bene ti fa bene». Visione attualmente proposta in forma molto schietta da studiosi come la statunitense Barbara Lee Fredrickson (esponente di punta della «psicologia positiva»), secondo la quale essere altruisti rafforza i legami sociali e costruisce la capacità di esprimere amore e sollecitudine, in tal modo la reciproca influenza tra benessere individuale e collettivo consente di raggiungere la felicità e una soddisfazione autentica. Quando aiutiamo gli altri si è felici perché si sperimentano di continuo buone sensazioni fisiche e spirituali.[5]
    Con maggiore spessore culturale, un orientamento simile era già stato proposto nel XIX secolo da John Stuart Mill: «Sono felici solamente quelli che si pongono obiettivi diversi dalla loro felicità personale: cioè la felicità degli altri, il progresso dell'umanità, perfino qualche arte, o occupazione perseguiti non come mezzi ma come fini ideali in se stessi. Aspirando in tal modo a qualche altra cosa trovano la felicità lungo la strada».[6]
    Qui il discorso si raffina, si presuppone infatti che la rinuncia cosciente al conseguimento diretto della propria felicità sia la via migliore per raggiungerla. L'orizzonte rimane comunque quello espresso dalla «regola aurea» dell'utilitarismo stando alla quale il bene coincide con la massima felicità del maggior numero di persone possibili.
    Il punto debole della prospettiva sta nel fatto che l'istanza, per realizzarsi appieno, implicherebbe la presenza di una sostanziale parità tra le componenti di una società contraddistinta nella realtà da forti disuguaglianze.
    Per conseguire un'utilità comune occorre articolare in modo positivo i rapporti tra uguaglianza e diversità. Tuttavia, se l'utile diviene egemonico, risulta quasi inevitabile che il trattamento riservato alle componenti più deboli della società perda di consistenza.
    La prospettiva emergeva con chiarezza già nei «sacri principi» dell'89. Il primo articolo della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino recita: «Gli uomini nascono e rimangono uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull'utilità comune». Da questa frase è obbligo concludere che l'utile sociale è legato a filo doppio alla disuguaglianza.
    Nonostante la loro ispirazione liberale, alle spalle della sfera dei diritti elaborata nel corso della Rivoluzione francese continuava a stagliarsi l'ombra lunga dell'apologo organicistico attribuito a Menenio Agrippa: la società è come un corpo, ogni membro ha una funzione differente da quella degli altri; alcuni sono però indispensabili, altri non strettamente necessari: si può vivere senza una mano, ma non senza cuore o polmoni.
    Rispetto al corpo l'unico ambito in cui è dato parlare a pieno titolo di uguaglianza è il fatto che tutte le membra fanno parte di esso. In senso stretto non esisterebbero perciò diritti individuali: è il corpo nel suo insieme che fa sì che tu sia o piede o mano o testa. Per questa ragione il modello antico non è riproponibile alla lettera, esso infatti, nella moderna visione liberale, viene sottoposto a profonda revisione riconducibile a questi termini: ognuno è titolare di diritti e le diversità si giustificano solo in base all'utilità comune. Quest'ultima però rischia di diventare semplicemente l'espressione delle componenti più forti della società che tendono a prendersi cura degli altri soltanto nella misura in cui questa prassi collima con lo sviluppo dei propri interessi.

    Tutti nella stessa barca: ovvero le relazioni

    L'espressione colloquiale per indicare questa posizione sta nell'affermare: «Siamo tutti nella stessa barca». Nella sua forma più alta il senso della relazione si esprime nel detto secondo cui aiutando gli altri aiuti te stesso e viceversa. In termini complessivi l'elaborazione di questo principio evidenzia che relazione e alterità sono tra loro inversamente proporzionali.
    L'«altro» non è una persona che si presenta all'inizio come separata per essere ricondotta progressivamente alla sfera della relazione: fin da principio nessuno è semplicemente un estraneo. Il culmine di questa visione è raggiunto nelle culture che presentano la relazione come il tessuto costitutivo della realtà. Tra esse, per quanto riguarda il risvolto etico, le elaborazioni più pregnanti si trovano nel buddhismo.
    A partire da una concezione della realtà relazionale un antico detto sostiene che: «badando a se stessi si bada agli altri; badando agli altri si bada a se stessi (...) E come badando agli altri si bada a se stessi? Con la tolleranza, la non-violenza, l'amicizia, l'indulgenza» (Samyuttanikaya).[7]
    Qui il modo di dire «ti fa bene fare del bene» acquista una tale profondità da essere sradicato dal terreno dell'utile per venir direttamente ripiantato in quello ontologico-relazionale (dato e non concesso che il termine «ontologia» sia applicabile al buddhismo). Nella Samyuttanikaya la coincidenza tra il prendersi cura degli altri e di se stessi è esemplificata attraverso l'immagine suggestiva degli acrobati che, allorché formano una piramide umana, si trovano oggettivamente nelle condizioni di far coincidere la propria tutela con quella degli altri e viceversa.
    Il detto proverbiale che allude alla barca ha sullo sfondo l'idea, più o meno accentuata, del pericolo: ad accomunarci è la presenza di una minaccia collettiva. Nell'immagine della piramide umana l'idea di un possibile crollo non è evidentemente assente, tuttavia essa non è neppure costitutiva. In questo caso il ruolo decisivo spetta alla relazione. Per costituire un'unica struttura tutti gli acrobati, fin dal principio, si trovano in un rapporto reciproco. Nell'immagine corrente, la barca è un contenitore (fuor di metafora, una situazione accomunante), nel caso della piramide umana invece sono le relazioni stesse a costituire l'insieme. Gli acrobati, quindi, simboleggiano la condizione umana in quanto tale e non già una particolare situazione in cui ci si viene a trovare.

    «Rispetto per la vita»

    Nella civiltà occidentale sono stati elaborati vari modi per affrontare il tema delle relazioni. Da esse, di solito, non derivano però in modo diretto comportamenti etici rivolti a prestare un aiuto sia agli altri sia a se stessi. Un'esemplificazione particolarmente significativa di questa prospettiva avviene se si guarda all'approccio evolutivo assunto in senso biologico.
    Anche prescindendo dal riferirsi a questa o a quest'altra teoria, è dato concludere che tutte le visioni evolutive individuano un legame molto stretto tra i viventi, cosicché di fronte a ciascuno di loro è obbligo concludere che se non ci fosse lui non ci saremmo neppure noi.
    Tuttavia questa constatazione descrittiva di per sé non consente di trarre conclusioni etiche univoche: tra XIX e XX secolo si affacciarono sulla scena sia il darwinismo sociale che trasferiva nelle società umane il criterio della struggle for the life, sia visioni che coniugavano in senso positivo e comprensivo l'etica della vita. Tra esse la più celebre è probabilmente quella intuita da Albert Schweitzer nel corso di uno dei suoi soggiorni africani.
    «Risalivamo lentamente il fiume (...) cercando con fatica – era la stagione secca – i canali in mezzo ai banchi di sabbia. Immerso in profonda meditazione sedevo sul ponte della barca, sforzandomi di arrivare al concetto elementare e universale di etica, che non ero riuscito a trovare in nessuna filosofia. (...) Poi il terzo giorno, al tramonto, proprio nel momento in cui ci stavamo facendo strada tra una mandria di ippopotami, balenò nella mia mente, quando meno me lo aspettavo, la frase: "Rispetto per la vita". Il cancello di ferro aveva ceduto; si poteva vedere il sentiero del bosco. Ecco che avevo trovato il modo per arrivare al concetto in cui sono contenute insieme l'affermazione del mondo e della vita e l'etica. Ora sapevo che l'affermazione etica del mondo e della vita, come pure gli ideali di civiltà, sono fondati nel pensiero».[8]
    Il discorso di Schweitzer non è rivolto in modo diretto all'aiuto da offrire agli altri; tuttavia è evidente che il fatto stesso che questi pensieri siano stati per così dire innescati dalla vista di una mandria di ippopotami attesta che il legame tra tutti i viventi è qui assunto come un vero e proprio fondamento; dal canto suo il rispetto della vita, lungi dall'essere inteso come un passivo non intervento, obbliga a fornire un aiuto attivo tutte le volte che ce n'è bisogno.

    Compassione e saggezza

    «Umana cosa è l'aver compassione agli afflitti» si legge nella prima riga del Decameron. Nell'animo umano compare a volte un forte senso di compassione o di human sympathy nei confronti degli altri. Per quanto in italiano i due termini di «compassione» e «simpatia» abbiano assunto significati fortemente diversi, il loro etimo è, rispettivamente in base al latino e al greco, lo stesso. Esso indica un far proprio il patire e il sentire (nel senso di pathos) altrui.
    L'espressione inglese human sympathy si conforma appunto a questo atteggiamento di com-passione attiva. Un problema a questo riguardo è se si tratti di un moto che balena all'improvviso dentro di noi o se, al contrario, sia una presenza costante.
    Il buddhismo e il ruolo in esso affidato alla karuna ci prospettano una visione complessiva in cui misericordia, compassione, pietà ed empatia (per cercare una serie di termini che tendono a esprimere i sensi contenuti nel termine karuna) vanno congiunte in modo integrale con la prajna («saggezza»). Non si dà saggezza senza compassione e viceversa.
    Ciò fa sì che karuna abbia un carattere universale che trova una qualche corrispondenza in noi tutte le volte in cui proviamo una grande, profonda compassione per la condizione umana in quanto tale (e quindi anche per noi stessi). Ciò non comporta affatto astenersi dall'azione; tuttavia essa è una dimensione profondamente diversa rispetto al moto improvviso che a volte ci spinge a soccorrere gli altri.
    Nella maggior parte dei casi questo stato d'animo non dipende da una visione complessiva della realtà, esso scaturisce da sé di fronte a situazioni specifiche. Anche nella Bibbia non mancano episodi che si rifanno a questa dinamica. Per esemplificarla ci limitiamo a solo quattro esempi nei quali il senso di compassione, innescato da un precedente atto di vedere, conduce all'azione.
    Iniziamo da un episodio antico, quello in cui la figlia del faraone salva il piccolo Mosè chiuso in un cestino che galleggia tra i canneti del Nilo.[9] Il libro dell'Esodo in questa scena riserva un ruolo decisivo al sentimento umano. La figlia del faraone vede il cestello fra i giunchi e manda la sua schiava a prenderlo. Vi è un primo atto legato al vedere, probabilmente dovuto solo a un moto di curiosità.
    Subito dopo si muta però registro: «L'aprì e vide il bambino: eccolo, il piccolo piangeva. Ne ebbe compassione e disse: "È un bambino degli ebrei"» (Es 2,6; trad CEI 2008). In effetti il verbo ebraico impiegato in questa occasione (chamal) andrebbe reso meglio con «si commosse». Il pianto della piccola creatura induce alla commozione l'animo adulto. Non si trattò di un puro sentimento passeggero, quel sentimento condusse infatti a prendersi cura di un bambino appartenente a un gruppo perseguitato. Il pianto infantile suscita una risposta attiva.
    La successione tra vedere e aver compassione (verbo splagchnizomai, che allude alla componente «viscerale» presente nel linguaggio biblico) compare anche in tre brani presenti solo nel Vangelo di Luca. Il primo è legato a un miracolo. Gesù sta per entrare a Nain. Presso la porta della città scorge un corteo funebre che accompagnava al sepolcro il figlio unico di una madre vedova: «Vedendola il Signore fu preso da grande compassione (esplagchisthe) per lei e le disse: "Non piangere"» (Lc 7,13).
    Compassione e commozione muovono Gesù all'azione e lo inducono a richiamare in vita il fanciullo. In questa circostanza il Signore agisce in virtù di un moto interno; nessuno gli rivolse una richiesta, né la vedova compì alcun atto di fede in Gesù. L'azione misericordiosa è unilaterale, essa manifesta una profonda asimmetria tra chi è nelle condizioni di aiutare e chi può essere solo aiutato e qui non si tratta del defunto che, evidentemente, si trovava già in un «mondo altro», quanto di sua madre; è di lei che il Signore ebbe compassione.
    Un discorso per più versi analogo è applicabile anche alla parabola del padre misericordioso. Il figlio minore dopo aver dissipato l'eredità torna verso casa. In tutto il tempo del suo smarrimento il padre non l'aveva fatto cercare. Sulla via del ritorno, «quando era ancora lontano suo padre lo vide, ebbe compassione (esplagchisthe), gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò» (Lc 15,20).
    In alcuni commenti si immagina il padre collocato sulla terrazza nell'atto di scrutare senza posa l'orizzonte lontano. Non è necessario ipotizzarlo. Il vedere può essere stato anche improvviso. Il gesto misericordioso di correre incontro al figlio perduto al fine di ritrovarlo nell'abbraccio e nel bacio non era programmato, scaturisce repentino dalla visione.

    La prossimità: frutto di una relazione

    L'ultimo esempio è forse il più significativo nel caso in cui si confronti il punto d'arrivo con quello di partenza. Si tratta della parabola del buon samaritano (Lc 10, 29-36). Di essa conviene sottolineare un aspetto particolare. Il discorso prende avvio da una discussione sui due precetti dell'amore di Dio e del prossimo (Dt 6,4-5; Lv 19,18); rispetto a quest'ultimo comandamento, la parabola estende l'orizzonte mettendo al centro la figura di un uomo (anthropos) che scendeva da Gerusalemme a Gerico.
    Egli non è qualificato in nessun altro modo che in virtù del proprio bisogno. Le componenti identitarie sono presenti dalla parte di coloro che sono chiamati a prestar aiuto (sacerdote, levita, samaritano), non da quella di chi giace mezzo morto ai bordi della strada: egli è semplicemente un uomo.
    Il sacerdote, il levita e il samaritano sono nelle condizioni di decidere se diventare prossimo allo sventurato; di contro, al ferito non è dato di scegliere nulla. Per lui chi lo soccorre diviene il suo prossimo, mentre gli altri restano degli estranei. Alla fine della parabola Gesù domanda: «"Chi di questi tre ti sembra che sia stato prossimo a colui che è caduto nelle mani dei briganti?". Quello rispose: "Colui che gli ha fatto misericordia (eleos)"» (Luca 10,36-37).
    In questo caso, perciò, occorre affermare non tanto che ogni persona umana è mio prossimo quanto che ognuno può diventarlo se agisco nei suoi confronti all'insegna di una fattiva misericordia. La prossimità è il frutto di una relazione che trasforma l'estraneo in vicino.
    Vi è però un aspetto legato all'universalità della motivazione che spinge ad agire. La discussione parte dal precetto e ne esemplifica la portata chiamando in causa un modo di prestare aiuto che non si misura affatto con il comandamento. Data l'ambientazione, bisogna presupporre la conoscenza del precetto del Levitico anche da parte del samaritano (il Pentateuco faceva parte pure della sua tradizione religiosa); tuttavia, egli agisce a motivo dell'estroversione delle proprie viscere e non già per mettere in pratica il comandamento.
    Il suo aiuto è mosso da questa motivazione: «Passandogli accanto vide e ne ebbe misericordia (esplagchisthe)» (Lc 10,33). All'universalità del soggetto a cui ci si rivolge («un uomo») corrisponde quella del motivo che induce a operare. Si parte discutendo di un precetto biblico, ma si agisce sospinti da un moto di compassione commossa potenzialmente presente nell'animo di tutti, ma fu solo il samaritano a darvi ascolto.[10]
    Rispetto all'uomo privo di identità che giace lungo la strada quanto è richiesto è di passare da un'iniziale estraneità alla costruzione di una prossimità frutto dell'ascolto di viscere estroflesse. Ogni essere umano da estraneo può diventare mio prossimo se segue la voce del frammento di misericordia presente in lui; quanto è decisivo è darvi ascolto e non «passar oltre» come il sacerdote e il levita.[11] Qualcosa di simile successe, per esempio, anche a Henri Dunant quando, nel 1859, arrivò sul campo di battaglia di Solferino.
    Di fronte allo spettacolo orrendo – visto non solo da lui ma anche da molti altri – dei feriti abbandonati agonizzanti sul campo, gli sorse l'idea di creare la Croce rossa.[12] Cosa lo spinse a fondare un'organizzazione destinata a occuparsi di tutti i feriti sui campi di battaglia e altrove? Se volessimo impiegare l'immagine evangelica, la risposta sarebbe: egli, a differenza di altri, diede ascolto alla voce delle proprie viscere. Ciò gli consentì di emergere dalla comune indifferenza che attanaglia i più.

    «Io sono il Signore Dio tuo»

    Nelle considerazioni ora proposte dedicate alla parabola del samaritano, si è evidenziato il passaggio da una discussione legata a un comandamento a un'azione innescata da una compassione commossa. Ora è opportuno compiere il cammino inverso e considerare l'esistenza di un comportamento comandato. Quando si prende in considerazione quest'ambito sorge subito il problema dell'autorità legittimata a comandare.
    Per ricorrere a categorie consuete, essa può essere religiosa o civile. Tutti e due gli ambiti sono ricchi di varianti. Nelle nostre considerazioni esemplificative ci concentreremo da un lato su alcuni precetti biblici (senza prendere in considerazione i loro sviluppi presenti nella tradizione ecclesiale) e dall'altro sui contenuti di alcuni articoli costituzionali o legati ai diritti umani (senza occuparsi di leggi positive).
    Scegliamo il punto di partenza per molti versi più ovvio; scavando in esso troveremo però aspetti meno scontati, fermo restando che, sul piano della prassi, anche il brano biblico di partenza è già in se stesso assai impegnativo: «Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore» (Lv 19,18); «Quando un forestiero dimorerà presso di voi nella vostra terra non lo opprimerete. Il forestiero dimorante tra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu lo amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri in terra d'Egitto. Io sono il Signore vostro Dio» (Lv 19,33-34). In entrambi i casi, la frase è conclusa con un riferimento al Signore posto a fondamento del precetto: non ci sono dubbi sull'autorità a cui spetta di comandare.
    «Lo amerai come te stesso (`ahavta lo kamokha)» qui (come in Lv 19,18 in relazione al prossimo) il verbo `ahav, «amare», regge il dativo e non già, come di consueto, l'accusativo. Una traduzione che volesse mantenere la costruzione ebraica potrebbe optare per un «porta amore a...».
    Questa resa chiarirebbe che si tratta di una dimensione operativa – la si può comandare appunto per questo motivo – e non già di un appello ai sentimenti. Il suo senso è dunque il seguente: agisci in modo amorevole nei confronti dello straniero.[13] Il comandamento ti ordina di fare a prescindere dal tuo stato d'animo nei confronti della persona che sei chiamato ad amare e aiutare.
    Qui non entra in gioco alcuna compassione commossa, si è semplicemente tenuti ad agire in quel modo in ragione dell'imperatività del precetto rivelato dal Signore. Così nella forma presente nel testo biblico. In ogni caso l'appello a un principio fondativo trascendente smorza il ruolo affidato alla soggettività.
    La dinamica risulta con particolare evidenza nel caso del comandamento rivolto a favore del nemico. All'inizio del percorso non c'è alcuna istanza riconciliativa, non si ordina di trasformare il sentimento d'avversione in amicizia, semplicemente si comanda un'azione benefica nei riguardi di chi ci è avverso: «Quando incontrerai il bue del tuo nemico e il suo asino dispersi glieli dovrai ricondurre. Quando vedrai l'asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso; mettiti con lui a scioglierlo dal carico» (Es 23,4-5; trad. CEI 2008).
    La seconda parte della traduzione non appare corretta allorché introduce un «non» (assente in ebraico) che regge un comando («non abbandonarlo a se stesso»). Si tratta peraltro di una resa frequente di un passo oggettivamente difficile da tradurre. E importante precisare sia che «nemico» andrebbe reso, alla lettera, con «colui che ti odia» sia individuare la presenza del comando solo nella parte conclusiva della frase (alla lettera «sciogli, sciogli con lui»); la proposizione precedente esprime invece la scelta iniziale, opposta al soccorso, compiuta da colui che vede la bestia a terra.
    La frase andrebbe resa su per giù così: «Quando vedi l'asino di colui che ti odia accasciarsi sotto il carico e desisti dal scioglierlo [asino]» proprio allora «sciogli, sciogli con lui [colui che ti odia]».[14]
    In conclusione, ci sono due stati d'animo soggettivi di partenza: da una parte l'odio nei tuoi confronti e dall'altro la tendenza a non prestare aiuto; il comando s'innesta in questo plesso di stati d'animo e ordina un'azione positiva a favore di chi prova avversione nei tuoi confronti.

    «In spirito di fraternità»

    L'oggettività del comando che scavalca gli stati d'animo è ardua da mettere in pratica. Ciò è confermato indirettamente anche dalla Bibbia che in un passo parallelo (Dt 22,1-4) applica al fratello quanto il libro dell'Esodo riferiva al nemico. Nel Vangelo si torna a parlare di nemici. Molti fattori inducono a ritenere che l'amore evocato nei loro confronti debba collocarsi ancora sul piano operativo; bisogna cioè compiere azioni positive nei loro riguardi al fine di non essere presi nella spirale dell'avversione e del rancore.
    Il modello citato, quello del Padre celeste, che fa sorgere il suo sole e fa piovere su buoni e cattivi, su giusti e ingiusti, è anch'esso operativo (Mt 5,43-48). Il Padre agisce a favore di tutti, senza che ciò annulli le qualifiche antietiche riservate agli esseri umani. In termini più orientati verso una futura discriminazione, il pensiero torna anche nella Lettera ai romani: «Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all'ira divina (...) Al contrario "se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete dagli da bere facendo questo, infatti, accumulerai carboni ardenti sopra il suo capo" (Pr 25,21-22). Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene» (Rm 12,19-21).
    Quando il comando è basato su un'autorità la sua efficacia dipende in larga misura da quanto essa sia riconosciuta. Se la fede in Dio illanguidisce, l'appello all'autorità divina perde efficacia. Lo stesso vale a maggior ragione se non si accredita più al potere divino la capacità di punire. Peraltro la presenza o l'assenza di una componente coercitiva ha una funzione rilevante anche in campo civile.
    Per illustrare quest'ambito sono sufficienti pochi riferimenti. Dato l'attuale contesto politico e sociale del nostro paese, il primo esempio da proporre è quasi obbligatoriamente il principio di solidarietà presente nella Costituzione: «La Repubblica richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2).
    Il principio costituzionale è, per definizione, generale e la sua realizzazione è affidata a leggi positive garantite anche dalla presenza di una componente sanzionatoria. Lo scenario diviene perciò più decisamente connotato o dal rispetto o dalla violazione. Rimane il fatto che anche in sede puramente costituzionale ci si muove nell'orizzonte di un'imperatività basata sull'autorità.
    Considerazioni in gran parte simili alle precedenti valgano per la Dichiarazione universale dei diritti umani proclamata a Parigi il 10 dicembre 1948. Il suo primo articolo recita: «Tutti gli uomini nascono liberi e uguali in dignità e diritti. Sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in uno spirito di fraternità». A distanza di oltre un secolo e mezzo, e avendo alle spalle due guerre mondiali, le parole ora citate rievocano i diritti cardine della Rivoluzione francese: libertà, uguaglianza e fraternità.
    Li dispongono però in una successione diversa: due sono collocati sulla tavola dei diritti, uno su quella dei doveri. È una differenza significativa. La fraternità non è un dato di partenza indiscutibile. Non ogni essere umano è mio fratello, ma ogni persona può diventare fratello o sorella se ci si relaziona reciprocamente «in spirito di fraternità». È una dinamica che richiama quanto avviene nel caso dell'amicizia: l'essere amici è una conquista comune.
    La più condivisa formulazione dei diritti umani si apre prospettando l'esistenza di un'obbligazione. Libertà e uguaglianza sono situate sì nella sfera dei diritti, ma sono anche collegate a un termine, «dignità», reso necessario dall'avere assistito, nel corso della prima metà del Novecento, a forme senza precedenti di degradazione attuate dall'uomo nei confronti dei propri simili.
    L'obbligazione si fonda sulla coscienza, parola innovativa rispetto alle precedenti dichiarazioni dei diritti. Come indicano i dibattiti svoltisi in sede ONU in vista della stesura del documento, qui per coscienza non s'intende la voce interiore che rende manifesta l'esistenza di una legge divina; il termine attesta piuttosto la presenza nelle persone di un «sentimento che altri uomini esistono».[15]
    Il dare ascolto all'apertura antropologica verso l'altro dovrebbe portare ad agire in spirito di fratellanza. Accanto alla ragione è quindi chiamato in causa il sentimento, il quale, però, lungi dall'indossare i panni molli della spontaneità, è rivestito da quelli più degni e impegnativi dell'obbligazione. Il principio perciò è enunciato perché la sua stessa formulazione spinga ad agire in un determinato modo. Anche qui dunque si apre l'alternativa legata al rispetto o alla violazione.

    La radicale-comune povertà

    Ogni essere vivente che viene alla luce non ha scelto di nascere. L'affermazione non patisce smentita. Essa resta salda tanto nel caso di un concepimento naturale quanto di uno conseguito attraverso metodi più o meno accentuatamente artificiali. La nascita precede ogni volizione del soggetto. Questa radicale dipendenza ontologica si prolunga nel fatto che al momento della sua uscita dall'utero materno (per limitarci alla sfera dei mammiferi) ogni essere vivente è radicalmente non autosufficiente.
    Il venir abbandonato a se stesso comporterebbe una sicura morte. L'aiutare gli altri è dunque componente costitutiva dell'esistenza di ciascuno. Ognuno, guardando a se stesso, è obbligato a concludere che se è tuttora in vita lo deve al fatto di essere stato aiutato. Soccorrere gli altri è quindi definibile come una specie di «regola d'oro» affermativa («Tutto quello che gli uomini volete facciano a voi, anche voi fatelo a loro» Mt 7,12) radicata nell'esistenza stessa. Dato e non concesso che si possa trascrivere liberamente in questi termini, il detto evangelico che ammonisce di ritornare come bambini (Mt 18,1-4) comporta la riconquista della struttura base dell'esistenza che pone al centro la relazione di aiuto.
    La radicale comune povertà della condizione umana è la fonte primaria della solidarietà tra le creature. Papa Francesco, nella prefazione al libro del card. G.L. Midler Povera per i poveri, scrive: «Non possiamo però dimenticare che non esistono solo le povertà legate all'economia. È lo stesso Gesù a ricordarcelo, ammonendoci che la nostra vita non dipende solo "dai nostri beni" (cf. Lc 12,15).
    Originariamente l'uomo è povero, è bisognoso e indigente. Quando nasciamo, per vivere abbiamo bisogno delle cure dei nostri genitori, e così in ogni epoca e tappa della vita ciascuno di noi non riuscirà mai a liberarsi totalmente del bisogno e dell'aiuto altrui, non riuscirà mai a strappare da sé il limite dell'impotenza davanti a qualcuno o qualcosa. Anche questa è una condizione che caratterizza il nostro essere "creature": non ci siamo fatti da noi stessi e da soli non possiamo darci tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Il leale riconoscimento di questa verità ci invita a rimanere umili e a praticare con coraggio la solidarietà, come una virtù indispensabile allo stesso vivere».[16]
    Sostenere che gli esseri umani nascono liberi e uguali è una visione astratta o, se si vuole, un'affermazione di principio. Quando si viene alla luce non si è infatti né liberi, né uguali. Nella concretezza dell'esistenza è invece affermabile quanto le dichiarazioni dei diritti e dei doveri di solito non esplicitano: tutti gli esseri umani nascono bisognosi di essere aiutati, perciò l'obbligo di prestarsi reciprocamente aiuto è legge primaria della convivenza umana.

    Non dare al male l'ultima parola

    Guardando alle esistenze individuali, a quella collettiva, o, ancora più ampiamente, alla storia umana nel suo insieme, non sono pochi coloro che concludono che il tasso di male presente nel mondo è tale e tanto da non poter essere in alcun modo sanato. Si tratta della categoria di persone colloquialmente etichettate come pessimiste. Se portata all'eccesso, la loro posizione si riveste dei panni di una sfiducia radicale negli esseri umani che porta all'inazione propria di chi dichiara che ormai non c'è più nulla da fare.
    In realtà, la conclusione, apparentemente coerente e lineare, è ingannevole e contraddittoria. Lo è nella misura in cui toglie al male le stimmate dell'inaccettabilità. Se il negativo entra nell'ambito delle cose che ineluttabilmente capitano, esso diviene, di fatto, normalizzato. In tal caso perde mordente la più concreta definizione di male che lo qualifica come una realtà che è ma che non dovrebbe essere.
    «Una realtà che è» è una constatazione, il «non dovrebbe essere» è un giudizio di valore che spinge a prestare aiuto all'altro anche se si è consapevoli tanto della parzialità delle proprie azioni quanto della vastità umanamente irrimediabile del male presente nel mondo. Se collocata nell'ambito che le compete, è proprio l'inaccettabilità del male a ingenerare un senso di solidarietà con chi dal male è colpito.
    Per ricorrere a un'espressione alquanto semplificata, si potrebbe sostenere che l'autentico pessimista è una persona attiva ma non soddisfatta. Egli non fa il bene perché gli fa bene, vale a dire non lo compie per sentirsi meglio; al contrario lo attua nella consapevolezza dell'insufficienza del proprio intervento. Se è persona di fede coniugherà questo suo agire con la fiducia (invero spesso messa alla prova) che la salvezza è da Dio e non dagli uomini.
    Nei confronti di quell'«altro» costituito dalla terra, questa posizione è stata ben espressa in una dichiarazione di intenti di uno dei padri della coltivazione biologica in Italia, l'uomo di fede Gino Girolomoni: «Io non penso che l'agricoltura biologica salverà il mondo, ma la pratico per non stare dalla parte di chi il mondo lo distrugge».[17]
    La scelta di fondo è esattamente quella di non stare dalla parte di chi compie il male; ciò comporta che nel frammento che ci compete ci si senta chiamati a curare le ferite di chi è colpito dal negativo, un atteggiamento che riguarda le persone, gli animali, la terra e le cose, e i prodotti artistici. Nel caso dei manufatti quest'atto rientra sotto la categoria del restauro, mentre quando si tratta di persone il conseguimento più alto è espresso dal termine «consolazione», un atto che non annulla quanto è stato, ma che si impegna a far sì che al negativo non spetti l'ultima parola.

    Perché aiutare è difficile

    Riprendiamo in conclusione l'argomento da cui siamo partiti. Il peso del «come» è grande. Per essere in grado d'aiutare gli altri occorre avere profondità spirituale, qualità etiche, senso dell'empatia, competenze politiche, sociologiche, giuridiche, psicologiche, pedagogiche, tecniche e godere, molto spesso, di adeguate risorse economiche.
    In società complesse e in un mondo globalizzato l'insieme dei fattori prima elencati viene chiamato sempre più in causa anche nel caso di semplici rapporti interpersonali. Basti pensare al ruolo riservato alla conoscenza delle leggi e delle procedure burocratiche spesso ignote ai più deboli, oppure alla profonda situazione di disagio che colpisce persone sprovviste di determinate abilità (il ruolo un tempo svolto dal non saper leggere e scrivere trova oggi un parallelo nell'essere privi di abilità informatiche ormai necessarie per lo svolgimento di moltissime pratiche amministrative e finanziarie).
    Assunta nel suo complesso la sfera del «come» mina sempre più l'immediatezza dell'aiuto diretto a favore degli altri. Per sapere non basta volere. Non stupisce perciò che in più casi si asserisca che l'aiuto maggiore che si può dare è quello di fare un passo indietro e di lasciar fare a chi ha le competenze adeguate.
    È solo apparentemente banale dichiarare che oggi la prima azione che il samaritano avrebbe compiuto lungo la strada che da Gerusalemme scende a Gerico sarebbe stata quella di chiamare il 118! Si tratta di atto tanto efficace quanto dotato di scarso coinvolgimento personale che probabilmente anche il sacerdote e il levita avrebbero compiuto. Va da sé che non è proponibile prescindere dalla sfera delle competenze, ma è altrettanto certo che esse tendono, più o meno sottilmente, a far impallidire l'ambito che spetta al coinvolgimento etico personale e a rendere sempre più raro l'incontro profondo tra le persone basato sulla componente spirituale.[18]
    Su tutte le motivazioni da noi prese in considerazione pesano delle controindicazioni. La dimensione economica legata all'utile e al vantaggioso è esposta all'incertezza della previsione. Ogni investimento, anche nel senso lato del termine, si proietta nel futuro e quindi ha a che fare con un ambito per definizione incerto.
    Anche quando ci si muove sul piano dell'aiuto bisogna tener conto che alcune azioni sono soggette a mutamenti di segno in ragione di avvenimenti imprevisti. In questo campo l'eterogenesi dei fini è più che mai all'ordine del giorno. Ogni progetto è esposto a un rischio non preso in considerazione. Rispetto alla compassione grava tanto il suo essere di frequente legata all'oscillazione degli stati d'animo in cui ci si trova quanto la difficoltà d'affrontare il peso della reiterazione: se il samaritano avesse percorso quotidianamente quella strada e tutte le volte avesse incontrato un uomo ferito non si sarebbe comportato nella maniera descritta dalla parabola.
    L'esistenza di un comando va incontro a tutti i disagi legati a un'imperatività eteronoma che si presenta poco coinvolgente, se non è fatta interiormente propria, e fredda e distaccata se eseguita solo per il timore delle conseguenze derivate dalla trasgressione.
    Il senso di povertà proprio della non autosufficienza umana è turbato dai momenti in cui gli individui, le società e le nazioni si sentono forti e destinati a dominare; ne consegue che per essi lo sfruttamento risulta una realtà ben più attestata dell'aiuto.

    Cercare di capire

    L'inaccettabilità del male è esposta al rischio di scivolare, a poco a poco, nella rassegnazione o ancor più precisamente nell'accidia, parola di uso ormai raro, ma imparentata con il termine frequentissimo d'indifferenza. Quanto la distingue da quest'ultima è soprattutto il fatto che l'indifferenza riguarda in genere gli altri, mentre l'accidia coinvolge anche se stessi.
    Che nell'etimo di «accidia» l'«a» iniziale sia un alfa privativo appare scontato. L'attenzione va quindi riservata all'altra parte del sostantivo: alle sue spalle c'è kedos «cura», «sollecitudine», «pensiero» ma anche «affanno». L'accidia è l'alter ego cupo e spento della spensieratezza. C'è chi non si cura di sé e degli altri perché vive con leggerezza senza lasciarsi turbare né dal proprio domani, né dal doloroso oggi altrui.
    Di contro, c'è chi vive alla giornata con spossata stanchezza perché la sua triste condizione gli appare un muro invalicabile privo di futuro; la sua indifferenza alla vita è un fuoco spento che nessun aiuto altrui può ormai riaccendere.
    Più del malinconico, l'accidioso ha perduto il gusto della vita; per l'uno e per l'altro ciò è avvenuto senza un motivo preciso. Chi è preda dell'accidia è avvolto da una cupezza rancorosa contro tutto e tutti, a iniziare da se stesso. L'accidia è la declinazione in chiave morale di una depressione valutata all'insegna del vizio e non già della malattia. In ciò sta forse la ragione per la quale oggi la depressione riempie la scena, mentre l'accidia è rintanata dietro le quinte.
    Un fattore che si presenta come un ostacolo, oggi forse il più rilevante, rispetto all'aiuto da prestare agli altri è costituito dalla paura. Stato d'animo complesso ma, nella sostanza, in larga misura riconducibile all'attesa, conscia o inconscia, di un danno che altri ci possono arrecare. In effetti ciò riguarda a volte anche noi stessi.
    Abbiamo paura dei nostri sentimenti e dei nostri desideri, di quello che potremmo compiere, sperimentiamo la sensazione di non avere risorse sufficienti per affrontare l'ostacolo con cui ci si deve confrontare (banalmente: «Ho paura di non farcela») e così via. In relazione agli altri si paventa un danno che un'entità, di frequente non ben conosciuta, potrebbe arrecare a noi stessi, ai nostri cari, alle nostre risorse, ai nostri beni, al nostro stile di vita, alle nostre fonti di reddito, alla nostra tranquillità e via dicendo.
    Anche questa volta l'area di riferimento può essere individuale, relativa a un gruppo ristretto o ampia fino a comprendere intere nazioni. Una delle condizioni indispensabili per aiutare gli altri perciò è di vincere la paura, operazione non semplice in quanto coinvolge nel profondo individui e collettività. Essa poi diviene ancora più ardua in un tempo come il nostro dominato dall'incertezza nei confronti del futuro.
    In ogni caso una delle risorse più efficaci per contrastare la paura è vivere sulla scorta di quello che Hannah Arendt considerava il massimo imperativo etico: cercare di capire. Non basta, ma è comunque un passo in avanti di notevole spessore.


    * L'articolo riprende e sviluppa i temi presentati in una conferenza tenuta presso la parrocchia San Camillo De Lellis di Chieti il 20.11.2018.

    NOTE

    1 A. GENOVESI, Autobiografia, lettere e altri scritti: Opere scelte, a cura di G. SAVARESE, Feltrinelli, Milano 1963, 449.
    2 Cf. A. SMITH, The Theory of Moral Sentiments, A. Millar, in the Strand, and A. Kincaid and J. Bell, in Edinburgh, 1759 (trad. it. Teoria dei sentimenti morali, BUR, Milano 1995).'
    3 Cf. L. BRUNI, S. ZAMAGNI, L'economia civile. Efficienza, equità, felicità pubblica, Il Mulino, Bologna 2004.
    4 D. HUME, A Treatise of human nature: being an attempt to introduce the experimental method of reasoning into moral subjects, 3: Of morals, Thomas Longman, at the Ship, London 1740 (trad. it. Trattato sulla natura umana, introduzione, traduzione e note di P. GUGLIELMONI, Bompiani, Milano 2001).
    Cf. B.L. FREDRICKSON, Positivity. Groundbreaking research reveals how to embrace the hidden strength of positive emotions, overcome negativity, and thrive, Crown, New York 2009.
    6 J.S. Utilitarianism, Longman, Green, Longman, Roberts, and Green, Londra 1864 (trad. it L'utilitarismo, Sugarco, Milano 1992, qui 33).
    7 Cf. P. STEFANI, «Religioni-società: lo spirito dei diritti», in Regno-att. 22,2005,735; V. TALAMO (a cura di), Samyuttanikaya. Discorsi a gruppi, Ubaldini, Roma 1998.
    8 A. SCHWEITZER, Rispetto per la vita, Edizioni di Comunità, Milano 21965, 325.
    9 P. STEFANI, «Il pianto di Mosè. È per rinascere che siamo nati», in Regno-att. 22,2018,693.
    10 Forse può avere qualche significato constatare che il dottore della Legge, nella sua risposta conclusiva, usa eleos senza richiamarsi a splagchnizomai.
    11 Cf. T. RADCLIFFE, «Non passare oltre» in Non passare oltre. I cristiani e la vita pubblica in Italia e in Europa, EDB, Bologna 2003, 137.
    12 Cf. F. GIAMPICCOLI, Henri Dunant. Il fondatore della Croce Rossa, Claudiana, Torino 2009.
    13 Cf. P. STEFANI, «Ama l'immigrato. È come te stesso», in Regno-att. 10,2015,705.
    14 Sia pure in un italiano involuto, il punto è stato colto dalla seicentesca traduzione italiana del Diodati: «Se tu vedi l'asino di colui che ti odia giacer sotto il suo carico, mentre tu ti rimani di aiutarlo a farglielo andare oltre, del tutto fa' con lui sì che possa andare oltre». Su questa linea si attesta anche la King James: «If thou see the ass of him that hateth thee lying under his burden, and wouldest forbear to help him, thou shalt surely help with hinv›.
    15 Cf. P.C. BORI, Per un consenso etico tra culture, Marietti, Genova 1995, 90.93-97.
    16 FRANCESCO, «Prefazione» a G. MULLER, Povera per i poveri. La missione della Chiesa, a cura di P. Azzaro, LEV – Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 2014, 8s.
    17 M. ORLANDI, La terra è la mia preghiera. Vita di Gino Girolomoni, padre del biologico, EMI, Bologna 2014, 123: cf. Regno-att. 20,2014,725.
    18 Il tema della deresponsabilizzazione personale a fronte delle crescenti competenze sociali è stato affrontato più volte, da par suo, da Ivan Illich: cf. per esempio I. Tuffai, Pervertimento del cristianesimo. Conversazioni con David Cayley su Vangelo, Chiesa, modernità, Quodlibet, Macerata 2008; cf. Regno-att., 20,2008,683.

    (FONTE: Il Regno 2/2019, pp. 51-60)


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