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    Legge morale naturale

    Oltre l’opposizione natura-cultura

    Carlo Casalone

    Il modo stesso in cui il prof. Zagrebelsky ha  esordito, riferendosi alla ricerca di un «bandolo  comune» tra posizioni diverse, sottolinea uno degli aspetti caratteristici della dottrina tradizionale della legge morale naturale.  Infatti, già il semplice ritenere possibile un’intesa basata su un condivisibile  esercizio della ragione consente di inscriversi in un orizzonte di ricerca comune.  Certo questo non significa che la nozione di legge morale naturale sia  unanimemente riconosciuta come valida e che se ne dia un’interpretazione univoca.  Anzi, essa è al centro di continue controversie nella nostra società, ma  nello stesso tempo è diffusa l’esigenza di trovare - in un contesto sempre più  pluralista - un qualche criterio che consenta di individuare norme e diritti riconosciuti  come inalienabili e inviolabili, stabili nello scorrere del tempo. 

    La Chiesa cattolica ha fatto spesso ricorso a questa categoria, facendo appello  ad argomentazioni ragionevoli, che dovrebbero valere anche per chi non crede.  Più volte ci si è appellati alla legge naturale per motivare prese di posizione sulla  riproduzione assistita, sulle questioni di fine vita, sui modelli che regolano le  relazioni familiari. Ma tale prospettiva risulta sempre meno convincente. Lo stesso  card. Joseph Ratzinger nel suo dialogo del 2004 con il filosofo tedesco Jürgen  Habermas ha ammesso che, «con la vittoria della teoria dell’evoluzione […] che  oggi in larga misura sembra incontrovertibile», il richiamo tradizionale al diritto  naturale «purtroppo risulta spuntato», perché è ormai evidente che «la natura  come tale […] non è razionale».[1] Occorre quindi un ripensamento di questa  tematica, che del resto papa Benedetto XVI ha più volte sollecitato.[2] Ma nel  dibattito pubblico, come anche in queste poche battute introduttive che lo richiamano,  si nota una certa oscillazione del significato dei termini «natura»  o «naturale», che dobbiamo quindi esaminare più approfonditamente. 

    1. La filosofia classica e la riflessione cristiana 

    Già alla luce della tradizione filosofica classica possiamo constatare che  l’etica fa riferimento a una concezione di natura (umana) che non è possibile  identificare semplicemente con le leggi di natura come quelle che presiedono,  per esempio, alla selezione naturale. Queste ultime governano il mondo fisico- biologico (infraumano), inteso come quella dimensione della realtà che non  coinvolge ciò che è specifico dell’essere umano in quanto capace di agire moralmente,  cioè secondo consapevole e libera responsabilità. Questa difficoltà di  distinguere adeguatamente tra dato di natura e natura umana, passando  inavvertitamente dall’uno all’altra, costituisce una fonte inesauribile di equivoci,  inducendo un’impostazione riduttivamente naturalistica del problema. 

    La legge naturale, infatti, è una nozione a molte sfaccettature, che ha una  lunga storia e sotto la cui ombra si sono effettivamente messe al riparo idee e  visioni assai differenti.[3] La sua matrice è soprattutto costituita dalla concezione  stoica dell’etica, ove è intesa come conformità a una ragione che ordina l’universo,  la cui regola è ugualmente legge della natura e norma del comportamento.  Anche in Platone e Aristotele si trova la nozione di un governo razionale del  mondo e la ricerca di una norma di comportamento che permetta all’uomo di  essere pienamente se stesso, realizzando così la propria specifica natura. Questo  nel tentativo di opporsi al relativismo della sofistica e agli argomenti scettici. In  particolare Aristotele sostiene la nozione di felicità come fine ultimo dell’uomo.  Egli intende per felicità non tanto, come nell’epoca moderna, la componente  soggettiva del benessere e del piacere, quanto piuttosto la realizzazione ontologica  del soggetto umano, cioè l’attuazione della facoltà più alta dell’uomo, come  la contemplazione dell’essere supremo, di cui il benessere è come un riflesso sul  piano dell’esperienza soggettiva. In Aristotele assistiamo quindi a una svolta che  mette al centro l’uomo, rispetto al cosmocentrismo stoico, anche se egli continua  a sottolineare un fondamento oggettivo della morale: essa, basata sulla «natura  umana», su «ciò per cui l’uomo è fatto», è quindi universale per principio, e  costituisce una riserva critica rispetto al diritto positivo. È quanto, con altro linguaggio, testimonia anche la tragedia greca quando mette in scena la resistenza  di Antigone, che vuole seppellire il fratello e rispettare così l’«obbligo»  morale di dar sepoltura ai morti, contro l’arbitrio delle leggi della città promulgate  dal tiranno Creonte, che vorrebbe impedirglielo. 

    La riflessione cristiana rielabora questi spunti del pensiero classico: l’ordine  naturale è interpretato come espressione dell’ordine eterno in base al quale  Dio ha creato l’universo (lex aeterna). Il pensiero di Tommaso d’Aquino costituisce  il punto di partenza di ogni successivo sviluppo.[4] È comunemente  riconosciuto che secondo Tommaso la legge naturale (lex naturalis) - la forma  che la lex aeterna assume in rapporto alle creature - comporta un duplice riferimento:  da una parte, alla natura e, dall’altra, alla ragione (ratio). Infatti, Dio  guida al proprio fine ogni ente secondo la «natura» di ciascuno, e il modo specifico  in cui ciò avviene per l’essere umano è attraverso la ragione di cui è dotato  e che lo distingue in quanto umano. La legge naturale è la partecipazione  della legge eterna nella creatura razionale, quindi è una capacità che l’uomo  possiede costitutivamente (lumen insitum) di trovare il precetto concreto che  meglio realizzi i valori espressi dai precetti generali, di cui il primo è «fa il bene,  evita il male» e gli altri possono essere evinti dalle tendenze naturali proprie  dell’uomo (sussistenza, riproduzione, razionalità e socialità). Nelle inclinazioni  naturali l’uomo può riconoscere i riferimenti di valore fondamentali e generali  che consentono la sua autorealizzazione. Lex naturalis è dunque l’ordine essenziale  dell’essere e dell’agire propriamente umani. 

    2. Questioni aperte del pensiero di san Tommaso 

    La parola ratio, tuttavia, non è adoperata da Tommaso in modo univoco.  Essa indica non solo quella facoltà per cui l’uomo è capace di elaborazione  concettuale, ma anche quella caratteristica per cui la ragione umana comprende  il mondo sempre sulla base di un’esperienza e di una comprensione di sé. In  questo caso ratio potrebbe tradursi con coscienza, la cui indole è costitutivamente  intenzionale. E ciò accade soprattutto in quei contesti in cui Tommaso  parla della differenza dell’uomo rispetto agli altri enti che popolano il creato. 

    a) Autonomia ed eteronomia 

    Tommaso, però, di fatto privilegia nettamente la dimensione della coscienza  che riguarda la conoscenza: il ruolo della ratio è di «accertare» la natura, che si  impone come norma all’agire umano. Per questo si dice che il suo pensiero è  segnato da un tratto intellettualistico. Secondo lui, la volontà umana sta a  valle rispetto alla conoscenza: nel campo morale «prima» la ragione conosce 

    il bene e «poi» alla volontà non resta che metterlo in pratica. Ma se l’agire morale  consiste solo nell’adeguarsi a un bene prestabilito, ci si può chiedere: qual  è il ruolo effettivo assegnato alla libertà? Come sottolinearono i teologi francescani,  accusando Tommaso di «necessitarismo», tale ruolo viene compromesso.  Non trova spazio quella dimensione profonda della libertà per cui l’uomo, decidendo  del singolo atto, contemporaneamente determina se stesso e prende posizione  nella radicale alternativa tra bene e male. 

    Possiamo intravedere qui una tensione che attraversa l’intero sistema della  teologia morale tradizionale, che ha sempre faticato ad articolare in modo convincente  autonomia ed eteronomia. Da una parte, in effetti, si riconosce che  la coscienza onesta, anche erronea, è l’autorità suprema nella determinazione  ultima pratica dell’atto morale; dall’altra però si esige che questa coscienza sia  retta, cioè conforme a una norma riscontrata all’esterno del soggetto, nella struttura  ontologica del reale.[5] 

    b) Fatti e valori 

    Un secondo problema del pensiero di Tommaso è collegato alla visione teleologica  (cioè indirizzata a un fine) della natura, che è compresa sulla falsariga  di un organismo. Come quest’ultimo è orientato alla conservazione della vita,  così ogni creatura (incluso l’essere umano) è intrinsecamente volta verso un fine  che le corrisponda. Lo specifico della natura umana consiste - sempre secondo  Tommaso - proprio nel disporsi verso un fine appreso e deliberatamente voluto,  e non, come per tutti gli altri esseri, nel subirne uno naturalisticamente determinato.

    La ragione è quindi chiamata a riconoscere le finalità fondamentali  che consentono la realizzazione dell’uomo nelle tendenze naturali o  inclinazioni sensibili che gli sono proprie.

    Nella cultura contemporanea, però, questa visione finalistica della realtà  non è più scontata né condivisa. L’affermarsi del conoscere scientifico e l’evoluzione  del pensiero filosofico hanno condotto a una separazione tra fatti e valori:  sembra oggi quasi evidente che solo sui primi sia possibile una reale discussione  argomentata, a partire da una rilevazione empirica; sui secondi invece si  possono solamente esprimere preferenze, basate su libere (e insindacabili) convinzioni  individuali.

    A queste effettive difficoltà sono stati offerti alcuni elementi di risposta a  partire dalla prospettiva personalista, che si è affermata nella svolta conciliare  e che domanda di essere ulteriormente approfondita.[6] 

    3. La prospettiva personalista 

    Nell’indirizzo personalista, che accomuna autori con accentuazioni differenti  e talvolta discordanti, ci sembra che sia portato avanti il tentativo più  promettente e meglio attrezzato per far fronte alle incrinature che sono emerse  dalla nostra breve esposizione del pensiero di Tommaso e per riproporne le  istanze valide.[7] 

    a) Ruolo centrale dell’esperienza e della dimensione «affettiva» 

    L’impresa richiede di partire da un ripensamento della nozione di soggetto,  che riconosca per un verso come la soggettività sia un orizzonte del sapere oltre  al quale non si può andare, e per altro verso prenda in giusta considerazione il  ruolo dell’esperienza e del tessuto relazionale in cui essa si realizza. Non si può  dire «che cosa sono» l’uomo e la realtà se non passando attraverso la mediazione  originaria della pratica. Solo partendo da un’esplorazione fenomenologica, cioè  da una descrizione accurata dei molteplici modi in cui si presentano la vita, le  inclinazioni sensibili e il loro rapporto con la volontà, si può porre la questione  fondamentale di «ciò che è», quella che i filosofi chiamano ontologia.

    Anche lo stesso Tommaso, tra i diversi modelli che propone per articolare  il rapporto tra le sopra citate inclinazioni spontanee o «naturali» (appetitus  sensitivi) e il volere (appetitus rationis), indica, pur senza elaborarlo concettualmente,  l’importanza del ruolo svolto dall’esperienza. Si può quindi notare una  convergenza con quanto attestato dalla fenomenologia, secondo cui la coscienza  umana non può essere pensata a monte delle esperienze sensibili né in  termini di soli contenuti concettuali: il soggetto non accede alla coscienza del  bene e del male, e insieme alla coscienza di sé, se non richiamandosi alle forme  dell’esperienza passivamente vissuta da cui è «affetto». Egli giunge alla coscienza  di sé esattamente attraverso le prime esperienze di carattere sensibile  ed emotivo. 

    Un’esplorazione fenomenologica della vita ci consente di intenderla non  come dato biologico, come spesso se ne parla riduttivamente nel dibattito bioetico,  ma come esperienza che ci precede e ci coinvolge originariamente, abilitandoci  all’esercizio della volontà. La vita umana infatti non è riducibile alla  nozione biologica così come viene appresa dalle scienze, ma è esperienza di un  senso donato, che ci precede e ci coinvolge originariamente attraverso le relazioni  in cui prende corpo. Tali esperienze caratterizzano la vita fin dai momenti  iniziali: l’essere beneficiari della sollecitudine degli altri, a partire dalla cura più elementare quando non si è in grado di provvedervi autonomamente, come  pure l’essere desiderati e attesi nei molteplici modi in cui ciò può avvenire.[8] 

    In forza di tale senso ricevuto gratuitamente - e anche, qualora negato o  mancante, riaffermato sotto forma di esigenza insopprimibile - la coscienza è  interpellata da una promessa, che la sollecita all’impegno e alla decisione di sé,  nella relazione con e per l’altro. Solo accordando fiducia e decidendosi per quel  senso che si annuncia negli indizi di bene di cui il soggetto fa esperienza nel  contesto di relazioni costruttive è possibile riconoscerlo come effettivamente  affidabile e buono. Non c’è modo di accertare la verità della promessa se non  accettando il rischio di farvi credito e compiendola. L’affidarsi risulta quindi  forma necessaria della libertà. Che l’agire davvero volontario implichi una  dimensione di fiducia è evidenza che viene dalla rilettura (fenomenologica)  dell’esperienza, e che quindi può essere solo additata ma non rigorosamente  dimostrata. È un’evidenza pratica, si rivolge alla libertà ed esige la determinazione  della libertà per mostrarsi effettivamente.[9] 

    Il termine «naturale», in questa prospettiva, rinvia così a un bene che appartiene  originariamente al soggetto, che si è almeno parzialmente già sperimentato e  a cui si vuole fare credito. In altre parole, è naturale quel bene che qualifica le  esperienze originarie, rispetto alle quali l’io è fondamentalmente ricettivo e che  consentono la determinazione del suo desiderio. Qui risiede probabilmente il motivo  per cui la coscienza cristiana è particolarmente sensibile a quanto è in gioco  nella relazione uomo-donna, nella sessualità, nella generazione, nelle relazioni di  maternità e di paternità: poiché queste relazioni sono luoghi fondamentali in cui  vengono custodite e risultano accessibili delle esperienze sensate di prossimità. 

    b) Storia e cultura 

    All’uomo è quindi consentito di (ac)cogliere il bene che può e deve scegliere  solo attraverso le sue inclinazioni spontanee. E questo richiede un itinerario  complesso e prolungato di apprendimento, che forse può svolgersi senza una  consapevolezza del tutto esplicita in un contesto culturale omogeneo, dove il  processo di costituzione del soggetto morale avviene in modo relativamente  scontato. Ma in una società pluralista e articolata quale la nostra, le cose vanno  diversamente. Il cammino di maturazione psicologica richiesto per essere capaci  di agire liberamente diventa molto più tortuoso e incerto. È un cammino, comunque,  che non può essere determinato a priori, che non può prescindere  dalla disponibilità a implicarsi concretamente in un’azione che a sua volta porta  inevitabilmente a interagire e a confrontarsi con gli altri; è un cammino che  suppone - prima ancora - la mediazione del linguaggio e della cultura. 

    Richiamando la tradizione anche nei suoi punti problematici, abbiamo finora  cercato di mostrare come la coscienza morale abbia una storia e non possa  prescindere da una mediazione pratica, che non può che avvenire nel tempo; e  come del resto abbia una storia anche la stessa conoscenza della legge (morale)  naturale. Se, come abbiamo visto fare dal pensiero intellettualistico, si presuppone  la possibilità di sapere come bisogna agire a prescindere dall’implicazione  nella pratica risulta compromesso il ruolo della libertà. Diviene allora difficile  pensare il rapporto tra passività e azione che caratterizza le esperienze elementari  della vita. Esse sono innegabilmente segnate da un pathos, cioè - nel linguaggio  di Tommaso - dalla «inclinazione sensibile» operante prima di una  decisione riflessa. Ignorare questo aspetto equivale a negare la legge naturale,  in quanto se ne trascura uno dei pilastri fondamentali. 

    c) Andare oltre l’opposizione 

    A questo punto ci sembra possibile superare l’opposizione tra natura e  cultura. Tra le due vige non separazione, ma positiva correlazione: il desiderio  costitutivo dell’essere umano, naturale in questo senso, viene alla coscienza e  alla parola solo attraverso le forme di esperienza necessariamente debitrici alla  tradizione culturale che le rende possibili. L’ineludibile mediazione culturale di  ogni significato della vita è un dato di fatto innegabile. La coscienza comporta  un rimando a un’istanza trascendente, che mai può essere compiutamente acquisita  alla competenza degli esseri umani e di una cultura. La qualità religiosa, 

    o almeno trascendente - in quanto rinvia sempre oltre se stessa -, del fenomeno  culturale indica il collegamento necessario tra cultura e fiducia in un  senso che però non è mai privo di rischi. Del resto, anche il modo in cui è avvenuta  la diffusione del cristianesimo ci mostra che fin dall’inizio si è realizzata  un’interpretazione innovativa della tradizione culturale e insieme una critica  della cultura. 

    Questa prospettiva personalistico-relazionale sembra la via più promettente  su cui continuare la riflessione circa la legge morale naturale. Essa sarà da  intendersi non tanto come soglia minima che definisce un insieme di divieti,  ma piuttosto come istanza massima che, pur non potendo mai essere completamente  definita in termini di contenuti normativi, deve sempre essere tenuta  presente nei laboriosi processi di determinazione dei precetti concreti.[10] Troviamo  qui una possibile convergenza con quanto sostenuto dal prof. Zagrebelsky  sulla ricerca di un contenuto che non è dato a priori né promulgato da una autorità  che non possa plausibilmente richiamarsi alla ragione: un orizzonte a cui  ogni cultura rimanda senza poterlo mai definitivamente comprendere, alla luce  del quale sono possibili, a loro volta, una ripresa interpretante di ogni cultura e un dialogo basato sull’impegno condiviso per la crescita dell’uomo. 

    (Aggiornamenti sociali, 2/2008, pp. 97-103)

    NOTE

    [1] Habermas J. – Ratzinger J., «Etica, religione e Stato liberale», in Humanitas, 2 (2004) 256 s.

    [2] Cfr Benedetto XVI, Discorso alla Commissione Teologica Internazionale (5 ottobre 2007), in .

    [3] Cfr Chiavacci E., «Legge naturale», in Compagnoni F. – Piana G. – Privitera S.. (edd.), Nuovo Dizionario  di Teologia Morale, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1990, 634-647; Piana G., «Si può ancora parlare  di “natura”? Considerazioni antropologico-etiche», in Aggiornamenti Sociali, 9-10 (2006) 679-689.

    [4] Il riferimento principale di questa posizione è Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I - II, qq. 90-108;  cfr chiodi m., «La tradizione tomista e l’emergenza del moderno», in Angelini G. (ed.), La legge naturale.  I principi dell’umano e la molteplicità delle culture, Glossa, Milano 2007, 63-116.

    [5] Cfr Rizzi A., Crisi e ricostruzione della morale, SEI, Torino 1992, 13.

    [6] Oltre alla riflessione nel quadro del personalismo, va menzionata la teoria neoclassica della legge  naturale, che si è sviluppata in ambiente anglosassone nel contesto del «tomismo analitico». Fra i suoi esponenti  vanno annoverati G. Grisez, J. Finnis e J. Boyle. Per una esposizione sintetica cfr Finnis J., «Loi naturelle»,  in Canto-Sperber M. (ed.), Dictionnaire d’éthique et de philosophie morale, PUF, Parigi 2001, 921-927.

    [7] Cfr Chiavacci E., «Legge naturale», cit., 637; Demmer K., Fondamenti di etica teologica, Cittadella,  Assisi 2004, 149; Piana G., «Si può ancora parlare di “natura”?», cit., 687; e soprattutto Mazzocato G., «L’indirizzo  personalista ed i suoi problemi», e Angelini G., «La legge naturale e il ripensamento dell’antropologia»,  entrambi in Angelini G. (ed.), La legge naturale, cit., rispettivamente 151-185 e 187-216, che in particolare  seguiremo nella nostra esposizione.

    [8] Cfr Theobald C., La rivelazione, Edizioni Dehoniane, Bologna 2006, 111-121.

    [9] Una più precisa elaborazione di questa proposizione permetterebbe di articolare il rapporto tra fede  e ragione in modo più convincente di quanto accade ordinariamente a opera di coloro che ne trattano come  se fossero due forme disgiunte di conoscenza.

    [10] Cfr Angelini G., «Ma la legge naturale vale (anche) per i laici», in Avvenire, 20 febbraio 2007.


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