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    La speranza di un uomo

    Vito Mancuso

     


    Prima ho scritto che il vero uomo è colui che "ha trovato" qualcosa di più grande di sé per cui vivere. Ora intendo sottoporre ad analisi critica questa mia affermazione: che cosa significa che un uomo ha trovato?
    In un celebre passo della Critica della ragion pura Kant presenta le questioni filosofiche fondamentali secondo tre domande, formulate in prima persona:
    1. Che cosa posso sapere?
    2. Che cosa debbo fare?
    3. Che cosa mi è lecito sperare? [1]
    L'uso della prima persona è decisivo. Non si tratta di disquisire gratuitamente ma di trovare la prospettiva giusta per dare una forma autentica alla propria vita, a questa esistenza qui e ora, nella sua solitudine e nella sua capacità di relazione con gli altri: è questo che ha a cuore il più profondo pensare, e per questo Kant utilizza la prima persona singolare.
    Che cosa posso sapere? Il sapere riguarda l'intelletto e la ragione, e di esso Kant si occupa nella Critica della ragion pura. Il risultato cui approda è che di me e del mio destino non posso sapere nulla di certo, perché sulle questioni essenziali della vita si danno ragioni per sostenere una tesi e il suo contrario, sicché pensare onestamente alla mia identità e al mio destino significa imbattermi in inevitabili paralogismi e antinomie. Che cosa devo fare? Il fare riguarda la morale, e di esso Kant si occupa nella Critica della ragion pratica. La sua risposta è che esiste un dovere sopra di me che io devo compiere, non perché me lo imponga qualcosa di esterno a me (la religione, il libro sacro, la società, il rango sociale, l'appartenenza politica...), ma perché si tratta di un dovere radicato nella mia stessa natura umana; è vero, gli uomini possono vivere rispettando oppure no questo dovere, ma solo chi lo riproduce con giustizia dentro e fuori di sé sarà veramente uomo e non tradirà la sua natura di essere razionale e pensante.
    Rimane infine la terza domanda: che cosa mi è lecito sperare? Per poter rispondere occorre sapere quale facoltà venga messa in gioco dalla speranza e la cosa non doveva essere del tutto chiara neppure per Kant che ne tratta nella terza critica, la Critica del giudizio, il cui messaggio centrale è difficilmente sintetizzabile in poche parole. Rimane però il problema sollevato, cioè quale possa essere un legittimo orizzonte di senso per dare energia e voglia di vivere alle mie giornate. Che cosa posso sperare per la mia vita e per quella dei miei cari? Che cosa mi è lecito sperare senza tradire la mia natura razionale? Sono alla ricerca di una speranza legittima, tale che non tradisca la mia ragione, ma insieme tale da salvarmi dal gorgo del cinismo di chi ritiene la vita solo un inganno dove vincono inevitabilmente solo i più furbi. I furbi... Ricordo il senso di ribellione che saliva in me da bambino quando gli adulti mi dicevano che la vita è dei furbi e che dovevo imparare a essere furbo se volevo farmi strada nel mondo. Non so perché, ma ho sempre istintivamente detestato la furbizia, che ritengo un uso distorto dell'intelligenza. Il che naturalmente non significa che si debba essere ingenui, perché, come insegna l'etica classica, la virtù sta nell'equilibrio tra due estremi (anche se tra i due estremi in questione io sento un'istintiva simpatia per l'ingenuità del principe Miškin, il protagonista dell'Idiota di Dostoevskij, e un'altrettanto istintiva repulsione per la furbizia ingannatrice di cui è purtroppo inutile fare esempi, tanto è diventata uno stereotipo dell'essere italiani).
    Tornando alla speranza, devo dire che per anni l'ho sempre ritenuta una virtù accanto alle altre, anzi persino inferiore alle altre, di cui gli uomini forti avrebbero anche potuto fare a meno, come riteneva Aristotele. Ora penso invece che si tratti di una virtù che è la sintesi dell'intera personalità, nel senso che ogni uomo è la sua speranza, ogni uomo è definito dall'oggetto del suo sperare. La vita è paragonabile a un viaggio, e l'oggetto della speranza è la meta verso la quale si viaggia. La vita è paragonabile a una caccia al tesoro, e il tesoro che un uomo cerca è ciò che lo definisce, perché è in base a esso che egli interpreta e gerarchizza le persone che incontra e le esperienze che fa. Se il tesoro che cerca è il denaro, farà tutto in funzione del denaro, anche le amicizie e le frequentazioni, persino il matrimonio e l'educazione dei figli vi saranno funzionali. Se il tesoro che cerca è il potere, farà tutto in funzione del potere, persino la fede religiosa potrà essere abbracciata o di-smessa a seconda dell'evenienza, perché chi determina così la propria esistenza sa bene che Paris vaut bien une messe, come ebbe a dire Enrico IV passando dal protestantesimo al cattolicesimo per diventare re di Francia, e come prima e dopo di lui hanno ripetuto molti altri, divenuti cattolici, protestanti, ortodossi, musulmani, atei e via dicendo, a seconda di come il potere avrebbe ricompensato.
    Il tesoro che un uomo cerca con la sua vita di ogni giorno è la sua speranza, e quindi ogni uomo consiste nella sua speranza, perché "dov'è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore". La speranza ha a che fare con una dimensione unitaria dell'essere umano, dove l'intelletto e la volontà si uniscono dando origine a qualcosa di superiore che dà il sapore complessivo alla personalità. Un vero uomo è tale non in base a ciò che ha, non in base a ciò che sa, neppure in base a ciò che fa, ma in base a ciò che è; ma ciò che un uomo è, in quanto essere individuale e irripetibile, è sì il suo corpo fisico, è sì la sua professione, ma è ancor più la sua speranza, cioè la tensione complessiva della sua vita e il sapore di fondo che ne deriva all'intera personalità, la musica che fuoriesce quando lui si presenta e che gli altri percepiscono, che lo si voglia oppure no. Se infatti la speranza non si può misurare come l'intelligenza mediante test, e neppure come si misura la volontà per la quale pure vi sono metodi appositi (alcuni dei quali molto singolari come camminare tra carboni ardenti o rimanere chiusi per ore in una bara con solo una minuscola fessura per l'aria), ciò che un uomo interiormente è si può tuttavia percepire lo stesso, forse si può dire che lo si vede con il terzo genere di conoscenza di cui parla Spinoza verso la fine della sua Etica [2]. Nessuno sa se ci sarà davvero una pesatura delle anime alla fine del mondo, ma la bilancia della psicostasia esiste dentro ciascuno di noi, perché ciascuno è in grado di capire quanto pesa la propria e l'altrui personalità e di sentire se chi abbiamo di fronte è in vendita, e per quanto, oppure no.
    La speranza per cui un uomo vive e che costituisce il suo tesoro ideale definisce la sua più peculiare personalità, dà forma e sostanza alla sua anima. Ed è questo che intendo col dire che il vero uomo ha trovato. Non ha trovato nulla di definitivo, di conclusivo, di indiscutibile. Purtroppo (o per fortuna) la vita è fatta in modo tale da non lasciar sussistere nulla di definitivo, di conclusivo, di indiscutibile. La speranza è destinata a rimanere speranza, a non trasformarsi mai in sapere. L'uomo che definisco vero ha trovato una speranza (non una dottrina né un'ideologia) per la quale vivere, come una specie di luce, lontana, verso cui camminare. Questa speranza non è un possesso che si può materializzare (né come dottrina né come ideologia), perché assomiglia alla manna che pioveva nel deserto al tempo dell'esodo, la quale generava vermi e imputridiva se non veniva mangiata al momento ma si tentava di conservarla (vedi Esodo 16,20). La lotta contro l'idolatria che attraversa la Bibbia ebraica va attualizzata oggi anzitutto contro le strumentali materializzazioni della speranza, il cui ideale purissimo non può essere manipolato a fini terreni, altrimenti imputridisce e si riempie di vermi.
    Sostengo quindi che l'uomo compie la sua vita, rendendola oggettivamente autentica e uscendo dalle trappole dell'Io, quando vive per una speranza più grande di lui, in base alla quale egli, a poco a poco, giunge a dare forma a tutto quello che fa e che dice. Ma ritorna la domanda di Kant: che cosa, dal punto di vista del contenuto, è lecito sperare? La risposta è semplice e insieme stupefacente: è lecito sperare che l'ultimo orizzonte dell'essere sia non l'assurdo ma il senso, non il male ma íl bene, non il nulla ma l'essere, non la morte ma la vita. Questo, a un uomo ragionevole, è lecito sperarlo. Saperlo no, ma sperarlo in modo ragionevole sì. Anzi, continua Kant, "io avrò fede nell'esistenza di Dio e in una vita futura, e ho la certezza che nulla potrà mai indebolire questa fede, perché in tal caso verrebbero scalzati quei principi morali cui non posso rinunciare senza apparire spregevole ai miei stessi occhi". [3] Vivere per qualcosa di più grande di sé come il bene e la giustizia, cioè vivere l'esistenza all'insegna della più pura prospettiva etica, apre la speranza della mente al fatto che qualcosa di più grande di sé esiste veramente, che esiste una dimensione dell'essere più grande di quella di questo piccolo Io destinato a finire, una dimensione che i popoli di tutti i tempi hanno intuito e chiamato divino, assegnandovi poi il nome particolare di cui erano capaci, tutti comunque inadeguati. Sperare in un senso complessivo dell'essere che si dice come vita e come bene significa aver fede in un Dio.
    Un uomo può essere abitato da questa speranza sul senso complessivo della vita, e un altro no, e perché questo avvenga nessuno lo sa. Ma per una vita autentica è necessario credere in un Dio? Sono convinto di no. Ritengo, però, che non sia possibile una vita pienamente autentica senza credere nel bene e nella giustizia, e che se un uomo crede nel bene e nella giustizia deve poi giustificare a se stesso perché lo fa e provare a pensare quale sia la concezione dell'essere più ragionevole che giustifica tale suo affidamento esistenziale al bene e alla giustizia. Se la logica del mondo non è indirizzata al bene e alla giustizia, perché costruirvi sopra la vita? Ma se vi è indirizzata, facendo sì che valga la pena impostarvi la vita, come chiamare questa direzione verso cui la logica del mondo conduce, direzione che è dentro il mondo ma che è anche più grande del mondo?
    Io sono convinto che la dimensione etica, in quanto anelito al bene e alla giustizia, sia il fondamento autentico del pensiero del divino nella coscienza umana di tutti i tempi. Per questo, anche a prescindere da qualunque fede religiosa, "beati quelli che hanno fame e sete di giustizia" (Matteo 5,6). Infatti, se la speranza per cui uno vive è complessivamente orientata al bene e alla giustizia (intesi anche solo come forma delle relazioni umane e non come senso complessivo dell'essere), essa produce in chi la vive una luce particolare, la luce calma e benevola dell'uomo buono. Dell'uomo giusto. La dedizione della libertà a questa luce interiore rende la vita soggettivamente oggettivamente autentica. Da qui la terza tesi: "L'uomo autentico è l'uomo che vive per la giustizia, il bene, la verità".

     

    NOTE

    1. Immanuel Kant, Critica della ragion pura (1781), B 833, A 805; ed. it. a cura di Pietro Chiodi, UTET, Torino 2005, p. 607.
    35. "Lo sforzo supremo della Mente e la sua virtù suprema è comprendere le cose con il terzo genere di conoscenza": Baruch Spinoza, Etica, cit., v, 25, p. 362.
    36. Immanuel Kant, Critica della ragion pura, cit., B 856, A 828, p. 621.

    (FONTE: La vita autentica, RaffaeloCortina Editore 2009, pp. 127-137)


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