La Shoah
Incontro di scuola con Amos Luzzatto
"L'esperienza di cui siamo portatori noi superstiti dei Lager nazisti è estranea alle nuove generazioni dell'Occidente, e sempre più estranea si va facendo a mano a mano che passano gli anni. (...) Per noi parlare con i giovani è sempre più difficile. Lo percepiamo come un dovere, e insieme come un rischio: il rischio di apparire anacronistici, di non essere ascoltati. (...) È avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire".
(Primo Levi, I sommersi e i salvati, pp. 163-164)
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STUDENTESSA: Benvenuti al Liceo "Aristofane" di Roma. Il tema che affronteremo oggi è L'ombra nella storia, ossia la Shoah. A discuterne con noi c'è il nostro ospite, il professor Luzzatto, che ringraziamo di essere qui. Ma prima di incominciare, introduciamo l'argomento con una scheda filmata.
Elie Wiesel, scrittore ebreo sopravvissuto ad Auschwitz, fa dire al protagonista de: "La notte": "Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte per sette volte sprangata. Mai dimenticherò quel fumo, mai dimenticherò quelle fiamme, che consumarono per sempre la mia fede. Mai dimenticherò quel silenzio notturno, che mi ha tolto per l'eternità il desiderio di vivere. Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima. Mai dimenticherò tutto ciò anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai!". Proviamo ad attraversarla questa notte della storia, interrogandola. Proviamo ad avvicinarci all'enigma del male assoluto, a quella irrazionale gioia del male. Proviamo ad interrogare il senso, se ne ha uno, della Shoah, che in ebraico significa catastrofe, partendo dai nomi con cui viene indicata. Fu un genocidio, cioè un crimine contro l'umanità, come lo fu la bomba su Hiroshima o il massacro degli Armeni, o un olocausto, un sacrificio, che chiama in causa Dio stesso, colpevole di aver abbandonato il suo popolo, a sua volta colpevole. Perché è potuta nascere una teologia del dopo Auschwitz? Un secondo interrogativo riguarda la memoria della Shoah, che è il tessuto profondo della coscienza dell'identità ebraica, una sorta di roveto ardente che non si estingue. Ha i tratti della legge di Dio, che talvolta assume la fisionomia dell'ossessione. Amos Oz, un altro scrittore israeliano, sostiene che Israele è avvelenata da una overdose di storia e che avrebbe bisogno di una forte terapia di disintossicazione. C'è un diritto all'oblio accanto al dovere della memoria? E veniamo alla possibile comprensione di quanto è accaduto. La persecuzione degli ebrei era un fatto irrazionale, cioè una crudeltà fine a se stessa, o si basava su delle premesse teoriche? Più in generale è possibile spiegare Auschwitz, oppure, come scrive Primo Levi, "Quanto è avvenuto non si può e non si deve comprendere, perché comprendere è quasi giustificare". Un'ultima domanda riguarda le responsabilità: il sapere e tacere, o, il sapere e non agire. Di chi fu la colpa? Questa domanda ci porta all'oggi. Il risveglio di sentimenti elementari e di pulsioni crudeli, di un immaginario sinistro, che chiama in causa la razza, il sangue; la terra è soltanto la parodia di una tragedia antica o qualcosa da temere veramente?
STUDENTESSA: Abbiamo visto nella scheda filmata che lo sterminio degli ebrei a volte viene definito con il termine di Olocausto e altre con il termine di Shoah: volevo sapere che differenza c'è fra questi due termini.
LUZZATTO: Molto semplice: "Olocausto" è il titolo di un film e da allora è diventato, in tutto il mondo occidentale, sinonimo del massacro degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale. Però a noi non piace di solito questo titolo, per due motivi. Primo perché comunemente in ebraico si chiama Shoah. E allora, visto che si deve adoperare una parola, tanto vale imparare una parola breve, sintetica e universalmente conosciuta. Secondo, perché "Olocausto" era il nome di un sacrificio votivo dell'antica Israele, cioè una parte del culto del santuario. E trasformare in culto divino un'opera mostruosa come questa non mi pare che sia molto appropriato.
STUDENTESSA: Abbiamo visto che le ombre della storia sono tante. Ad esempio, abbiamo visto, nella scheda filmata, anche delle immagini di Hiroshima. Ma perché Auschwitz ha un'ombra più pesante delle altre?
LUZZATTO: Ma probabilmente perché Auschwitz è diventato un simbolo. Voi sapete che ci sono stati molti campi di sterminio, ma Auschwitz è quello più conosciuto, forse anche perché la maggior parte delle vittime italiane sono finite lì; e poi perché, a differenza di Hiroshima, che è stata una cosa terribile, una cosa disgustosa, perché la guerra poteva finire anche senza questa operazione, Auschwitz è stata programmata, studiata e realizzata attraverso il concorso di pseudoscienziati, di pseudoteorici, di un partito politico, di un governo, di una propaganda martellante strumentalizzata, e di una tecnica di esecuzione, per i suoi tempi supermoderna. C'è poi una caratteristica in più: la cosiddetta "soluzione finale" è cominciata praticamente nel '42. Il '42 è stato un anno di svolta nella Guerra Mondiale. Già nel '43, più ancora nel '44, le sorti dell'Asse, le sorti della Germania nazista dal punto di vista della guerra stavano crollando. Avanzavano i sovietici da Est, si preparava e poi si realizzava lo sbarco in Normandia. Quindi la Germania si preparava a una sconfitta. Nel momento in cui aveva bisogno del massimo dei mezzi - carburanti, treni, per il rifornimento del fronte, uomini, armi - pare incredibile che sottraesse parte di queste risorse allo sforzo bellico, per poterle concentrare su questa operazione di sterminio. Il che fa pensare che per il regime questa contava più ancora della vittoria o dei successi al fronte. Perché? Ecco, questo è un grande perché, per il quale si possono fare varie ipotesi, ma devo ammettere che una risposta completa, convincente fino in fondo, è ancora difficile da raggiungere.
STUDENTESSA: Che cos'è esattamente l'antisemitismo? Ed è vero che è nato nel Medio Evo cristiano?
LUZZATTO: La risposta è ambivalente. Il termine antisemitismo è nato alla fine Ottocento in Germania, l'ha inventato un certo Wilhelmark, un giornalista tedesco. L'odio per gli ebrei certamente c'è stato molto prima, probabilmente almeno nel primo Medio Evo, però è un’impressione generale di quelli che studiano questo problema, che avesse caratteristiche molto diverse. Per esempio: nel Medio Evo più propriamente si dovrebbe parlare di antigiudaismo, nel senso che la Chiesa Cattolica condannava gli ebrei, li isolava, gli dava restrizioni, limitazioni di attività, li diffamava, li calunniava, quello che si vuole, a volte anche li massacrava, ma con una riserva, una risorsa. C'era un mezzo per evitarlo: uno accettava il battesimo, si convertiva al cristianesimo e il problema veniva liquidato. Non è molto bello questo, perché o cambi la tua fede o ti ammazzo. Ma comunque c'era la possibilità di uscirne. Nell'antisemitismo moderno non serve a niente, perché l'antisemitismo moderno non si basa su una differenza religiosa, di credo, di fede, ma si basa su una ipotetica differenza biologia. Quindi anche se uno si battezza, cambia opinione, cambia fede, è ininfluente perché non cambia razza. Come se mi cambiassi di abito, mi mascherassi, ma poi Voi mi guardate e mi dite che sono sempre io. Non sono mica cambiato. Ecco, questo messo in termini molto bonari. Ma messo in termini meno bonari, anzi molo cattivi, non c'era niente da fare, a meno che non si trattasse di conversioni molto antiche, di molte generazioni fa - poi neanche sempre, andava molto ad arbitrio - e allora potevano ancora passare, perché si immaginava che nel frattempo, sposandosi con non ebrei per due, tre generazioni, si diluisse il sangue. E questa è una cretinata dal punto di vista biologico. Ma cosa volete fare? Non posso discuterne, come se fosse biologicamente una cosa seria. Questa è la differenza con l'antisemitismo moderno, più drammatico perché irrisolvibile per la vittima.
STUDENTESSA: Davvero Hitler odiava talmente tanto gli ebrei da voler continuare lo sterminio anche quando stava perdendo, anche dopo aver saputo che i suoi veri nemici erano Francia, Inghilterra e Stati Uniti?
LUZZATTO: Questo è veramente un grosso problema. Io posso citare una frase di uno dei più stretti collaboratori di Hitler, di prima della guerra, che diceva: "Vedrete quanto poco tempo ci metterò a scardinare le democrazie occidentali semplicemente facendo l'uso dell'arma propagandistica dell'antisemitismo". Questa è una risposta. Nell'immediato dopoguerra questa pareva la risposta, cioè il fatto che l'antisemitismo serviva come strumento per indebolire la compattezza, la sicurezza, il convincimento a opporsi a Hitler da parte di Inghilterra, Francia, Stati Uniti. E, in effetti, qualcosa di vero c'è, perché la propaganda antisemitica, esportata quella volta dalla Germania, verso la Francia in modo particolare, ha veramente minato la capacità di resistenza francese, cioè ha rotto l'unità del popolo francese durante la guerra. Tant'è vero che è difficile spiegarsi solo con motivi di strategia o di tattica militare il fatto che l'esercito francese, che era un esercito molto forte tecnicamente, che poteva benissimo confrontarsi con quello tedesco, sia crollato nello spazio praticamente di una settimana, non più di una settimana. Perché il morale di questo esercito era distrutto, sembrava che questa guerra non contasse, non servisse: il nemico è un altro, non sono i tedeschi, e così via. Questo in parte può essere vero, però devo dire che io stesso non me la sento di dare soltanto questa risposta. Probabilmente c'è qualche cosa di più. Probabilmente qua c'è un problema culturale che risale a tutta l'Europa, Francia e Italia comprese, che risale all'Ottocento, cioè una forma di interpretazione scientifica della vita sociale - cosiddetta scientifica -, della storia delle società umane, che sembrava un grande progresso rispetto al passato. Cioè è quello che si chiama "darwinismo sociale". Il darwinismo è una forma, che ancora oggi prevale nel mondo scientifico, di teoria dell'evoluzione, che dice che nel corso dell'evoluzione ci sono molte varianti biologiche nel mondo animale e prevale quella che affronta meglio le modifiche dell'ambiente, le sfide dell'ambiente. Le affronta meglio nel senso di avere maggiore possibilità e probabilità di avere generazioni successive che reggono a queste sfide ambientali. Questo è il vero darwinismo. Interpretato come: "Vinca il migliore", in termini molto banalizzati e non corretti dal punto di vista scientifico, hanno provato a applicarlo alla società dell'Ottocento. Però cosa vuol dire: "Vinca il migliore"? Se noi stabiliamo delle regole - non so, Vi porto un esempio banale -, stabiliamo delle regole che l'ideale per Voi tutti, sia quello di essere capaci di tirare di fioretto. Perché stabilisco questo? Perché io sono campione di fioretto! Allora quelli che sono campioni di fioretto sono di una razza superiore. Gli altri non contano niente. Ma chi l'ha deciso? È un dato obiettivo della biologia o un dato arbitrario di chi gestisce la società? Ecco, una cosa del genere, non banalizzata così, ma presentata in maniera molto più sottile, in modo che sembri proprio un dato scientificamente valido, è stata la teoria razziale, che non è sorta proprio in Germania. C'è anche nell'Italia dell'Ottocento, paradossalmente uno studioso ebreo, Cesare Lombroso, italiano ebreo, uno dei primi a propagandare questa visione nella criminologia. Immaginate: definire criminale un uomo attraverso determinate caratteristiche fisiche, fronte bassa, occhi sfuggenti, sopracciglia molto marcate. Conosco moltissime persone con la fronte bassa, le sopracciglia sporgenti, che sono delle ottime persone, magari anche molto intelligenti e molto produttive. Ma Lombroso aveva stabilito che era così. Questo trasformare caratteristiche fisiche, che non piacciono a qualcuno - dovrebbe essere qualcuno che conta - trasformarle in caratteristiche psicologiche e attitudinali da deprecare, da eliminare, da razza inferiore, da razza contaminante, questo è probabilmente il fondamento pseudoscientifico, pseudoculturale del razzismo in genere. Questo razzismo è facile applicarlo alle minoranze, e la minoranza che si trova a disposizione un po' da per tutto in Europa è quella ebraica, quindi ci siamo. E si sono inventati in buona parte una razza. Leggete le pubblicazioni antisemitiche del '38, per esempio in Italia, dove si pubblicava un settimanale illustrato per donne che aveva un supplemento settimanale che si chiamava il "Samuelino", un supplemento caricaturale antisemitico, dove si vedevano tutti gli ebrei fatti nello stesso modo, con un nasone spaventoso, arcuato, con degli occhi sporgenti bovini, con le guance cadenti, con una panciona e la bava alla bocca. Ora a questo punto non era facile trovarli. Bisognava talmente inventarli che lo stereotipo, questa caratteristica caricaturale, diventava più reale dell'ebreo reale che si trovava per la strada. Vi racconto una storiella - mi è stata raccontata da un pisano - molto divertente e molto tipica. Nel 1938, pubblicate in Italia le leggi razziali, a Pisa c'era un professore universitario sardo, che stava pigliando il sole sull'Arno, l'ultimo sole della stagione. Siccome lui era scurissimo di carnagione, prendendo il sole sull'Arno era diventato nero come il carbone. E un collega ebreo, che era biondo con gli occhi azzurri, passando di là, lo guarda e gli fa: "Ma ti pare che tu saresti l'ariano ed io il semita? Ma non sarà forse il contrario?". È finita in una risata quella volta. Qualche mese dopo non c'era più niente da ridere. Però lo stereotipo era talmente potente che era meglio chiudere gli occhi, non guardare quello che pigliava il sole, perché non fa parte del quadro. Vedete cosa contano le immagini? E oggi che viviamo in una società di immagini, pensate cosa vuol dire.
STUDENTESSA: Una caratteristica della soluzione finale era la cosiddetta "macchina fredda", "l'organizzazione fredda", e quindi la macchina di morte e di distruzione alla quale i singoli prendevano parte come fossero degli impiegati. Allora Lei crede che il male sia qualcosa di ordinario, di quotidiano e di addirittura banale?
LUZZATTO: La sua domanda probabilmente deriva da Hannah Arendt, che parlava di "banalità del male". Io credo che la Arendt, che è stata molto vituperata per questo, intendesse un concetto molto serio e preciso. Le persone più comuni possono diventare, messe nell'ingranaggio giusto, i peggiori assassini e torturatori. Questa gente che torturava i prigionieri, che si divertiva a vederli soffrire, che li frustava a sangue, non erano dei professionisti del crimine. Faccio un esempio che mi ha raccontato una persona che era stata internata a in Boemia. Mi ha raccontato che per una stupidaggine, una disobbedienza banale, è stato condannato a cinquanta frustate. Cinquanta frustate molti non le reggevano, non avevano più la forza di reggerle. Lui ha fatto una smorfia durante le ultime frustate, e l'SS che lo torturava l'ha presa per un ghigno di disprezzo. Allora si è offeso e ha detto: "Altre cinquanta". "Altre cinquanta - lui m'ha detto - sapevo che morivo, non ce la facevo. Era la fine". Poi è successo qualche incidente, per cui hanno dovuto sospendere. Allora le persone che avevano la capacità di prendere queste iniziative non erano degli specialisti. Sì, qualcuno ce ne sarà stato, ma non erano degli specialisti del crimine. Nella vita privata potevano fare gli impiegati di banca, non so, i vigili urbani, le cose più innocenti. Allora come è possibile, è possibile. Questa è la cosa che preoccupa di più, perché l'idea che il tuo vicino d'ufficio possa trasformarsi improvvisamente in quello che ti porta a morte è una cosa indubbiamente angosciante; non c'è dubbio. Però il nazismo ha dimostrato che questo è possibile.
STUDENTESSA: Abbiamo letto qualche passo tratto da "L'istruttoria" di Peter Weiss, un celebre resoconto del processo di Norimberga, che è stato fatto contro i responsabili dello sterminio. Abbiamo notato che molto spesso la loro giustificazione rispetto alla responsabilità è stata quella di dire: "Ho obbedito" ...
LUZZATTO: Anche Eichmann a Gerusalemme ha detto: "Ho obbedito".
STUDENTESSA:... "Ho obbedito", un'affermazione per allontanare una responsabilità. Secondo Lei, in quella situazione, era possibile disobbedire?
LUZZATTO: Ci sono stati quelli che hanno disobbedito. Malgrado tutto esistono quelli che hanno disobbedito. Esistono quelli che magari non hanno disobbedito, ma che non hanno retto alle prove peggiori. Alle Fosse Ardeatine c'è stato un tedesco che ha avuto una crisi isterica, s'è messo a vomitare e l'hanno dovuto allontanare. Ci sono stati quelli che si sono rifiutati, avete visto il film: "Schindler's list"? Schindler era un profittatore di regime, un nazista convinto, che progressivamente ha cambiato opinione. Lasciamo stare perché, non ci interessa. Ma quello che lui ha fatto dopo, in divisa tedesca, che ha salvato folle di ebrei, facendoli lavorare o fingendo di farli lavorare per sé, l'ha fatto. Se qualcuno avesse voluto per questo condannarlo alla fucilazione, poteva farlo benissimo. E lui sapeva che rischiava. E ce ne sono stati. Forse Voi non sapete, ma a Berlino ci sono stati ebrei che sono sopravvissuti fino alla fine della guerra. Sapete cosa vuol dire? Per poter sopravvivere vuol dire che ognuno di loro aveva almeno dieci famiglie di tedeschi arianissimi, biondissimi, nordissimi, eccetera, che li proteggevano, perché dovevano passarseli da una famiglia all'altra, se no venivano scoperti. Com'è stato possibile? Vuol dire che chi voleva poteva opporsi. C'è gente che si è opposta. Poi c'è da dire che coloro che hanno deciso di aderire al movimento nazista non potevano non sapere a cosa andavano incontro: c'era troppa istigazione ad uccidere. Si ammazzavano anche fra di loro. Nella notte dei lunghi coltelli si sono massacrati fra di loro, fra un gruppo e l'altro dei nazisti, per avere il potere all'interno del partito. E non lo sapevano? Ma figuriamoci! Lo sapevano benissimo. Quindi nel momento in cui hanno accettato di sottostare a quella disciplina, in quel momento hanno fatto una scelta di responsabilità. E, se dopo hanno obbedito, sapevano a che cosa obbedivano, perché a priori avevano scelto un determinato campo. Quindi è una giustificazione infantile, da bambino che ruba la marmellata e dice: "Ci sono cascato dentro per caso, mi sono sporcato per questo". Direi qualcosa di più: se veramente avevano soltanto obbedito a un ordine, una certa forma di dispiacere, di pentimento doveva venir fuori. Avrebbe potuto dire: "Ebbene sì, l'ho fatto perché ho obbedito agli ordini. Ma adesso che vedo cosa ho fatto sono atterrito e disgustato di me stesso". Ma non è successo, c'è solo Eichmann che l'ha detto, chiedendo il permesso di scrivere un libro per evitare la forca. Ma questo quando? Quando era già condannato. Bravo! Che coraggio! Dopo condannato. Prima bisognava vederlo. Sono stato considerato da qualcuno cattivo e vendicativo. Ma non credete che non mi senta tale: quando mi hanno chiesto se liberare Priebke ho risposto: "No", per un motivo molto semplice: non ho sentito una parola di rimorso o di pentimento, non una parola. Lui ha risposto, fino all'ultimo momento: "Sono un soldato e ho obbedito agli ordini". Notate bene che se avesse detto dopo il suo processo a Roma: "Mi sono pentito, mi dispiace di quello che ho fatto", nessuno si sarebbe vendicato su di lui, perché da tempo il regime nazista non c'era più. Non correva più nessun rischio. Vuol dire che proprio non sentiva questo bisogno. E allora era quello che era prima, era rimasto tale e quale quello che era prima. E questi sono dei test veri e propri. Se una persona è contento di obbedire, lo sente come un ordine che gli va bene, non si pente. Perché deve pentirsi? Perché deve pentirsi se, dal suo punto di vista, non ne ha motivo?
STUDENTESSA: A parte gli esecutori proprio materiali dello sterminio, secondo Lei c'era qualcuno che sapeva e che non ha detto niente, qualcuno che poteva e che non ha agito? Teniamo anche presente che in questo periodo stanno riesaminando i documenti dell'Archivio Vaticano. Cosa ne pensa?
LUZZATTO: Facciamo molte distinzioni. In Germania probabilmente pochi potevano, senza correre rischio, molti potevano correndo rischio. Ma ripeto, alcuni lo hanno fatto. Quindi, c'è un bellissimo esempio delle donne tedesche, alle quali hanno sottratto, nel '44, i mariti ebrei per deportarli. E loro hanno fatto un sit-in, davanti al Quartier Generale della Gestapo - c'è un monumento adesso, a Berlino - con dei cartelli: "Restituiteci i nostri uomini". Sono state là tre giorni e tre notti quelle donne. E glieli hanno restituiti, li hanno liberati. E loro li hanno subito nascosti. Quindi, possibilità ci sono sempre. In alcuni paesi occupati dalla Germania c'è stata anche una collaborazione attiva e volonterosa. E quella è imperdonabile, perché nessuno gli aveva chiesto tanto. Ci sono stati dei silenzi che avrebbero probabilmente potuto salvare qualcosa, da due parti: da parte del Vaticano e da parte delle Cancellerie, cioè dei governi, inglese e americano. A Ginevra viveva - vive ancora, poveretto, stavo quasi condannandolo, adesso è molto vecchio - un dirigente di una organizzazione ebraica internazionale per il soccorso ai profughi; il quale aveva avuto a Ginevra, in territorio neutro, in Svizzera, notizie sicure non della soluzione finale, ma dell'avvio a un massacro senza precedenti e li aveva comunicati ufficialmente, trasmessi a Londra e a New York, e, tramite Londra e New York, anche al Vaticano. A Londra e a New York li hanno archiviati, come una cosa di secondaria importanza. Quindi certo chi ha taciuto moralmente è responsabile, perché non si può dire: "Non sarebbe servito, avrebbe fatto peggio". E chi lo dice? Chi lo dimostra? Capisco, è la giustificazione, ma come si fa a dimostrarlo? La storia non si fa coi "se". Si fa con "è successo e le conseguenze sono queste, non è successo, non ci sono state conseguenze". Io non sono in grado di dire cosa sarebbe successo "se". Io so soltanto che peggio della deportazione in carri di bestiame, per poi finire nelle camere a gas, non so che cosa poteva esserci! La condanna all'inferno, non lo so.
STUDENTESSA: Primo Levi dice che: "Quanto è accaduto non va compreso, perché comprendere è giustificare". Lei condivide questo pensiero o magari crede che comprendere potrebbe essere il punto di partenza per denunciare questo male terribile e quindi evitare che accada di nuovo?
LUZZATTO: Personalmente tenderei a questa seconda risposta. Fa parte un po' della mia natura e del mio modo di impostare i problemi. Comprendere vuol dire trovare le cause, vedere se ci sono ancora le stesse radici, le stesse condizioni, sociali e culturali, e cercare di combatterle. Quindi questa sarebbe la mia risposta. Però nei confronti di Primo Levi - e non solo di Primo Levi - ho un grosso scrupolo: lui l'ha provato, io no. Ho il diritto morale di mettere la mia opinione in contrasto con la sua? E poi, non avendo fatto quella esperienza, come faccio, con esperienze molto diverse, a dare un giudizio operativo, pragmatico? Ho degli scrupoli su questo. Primo Levi l'ho conosciuto. Era una persona assolutamente sincera, che addirittura - guardate che livello morale che aveva! - aveva lo scrupolo di essersi salvato. Si sentiva quasi, negli ultimi suoi scritti, quasi in colpa per avere avuto il privilegio di essersi salvato. Io non sono neanche stato in campo, come faccio? Devo dire che ho dei parenti - soprattutto la persona con cui sono più in rapporti stabili, , figlia di mia zia, sorella di mio padre - che sono stati a Auschwitz; in particolare una mia cugina con la quale ho un rapporto molto bello. Lei abita in Italia, a Venezia, non troppo lontano da dove abito io. Lei va in giro a cercare di spiegare nelle scuole, ed ha un atteggiamento che non coincide con quello di Primo levi. Cioè lei vorrebbe capire, Però dice che è difficile, che non si arriva a capire fino in fondo. E questo succede a moltissimi, sia a quelli che hanno fatto l'esperienza, sia a quelli che non l'hanno fatta.
STUDENTESSA: Nella scheda abbiamo visto due luoghi che sono un po' il simbolo di Gerusalemme: il Museo della Memoria e il Muro del Pianto. Uno è legato alla storia e l'altro alla religione. Secondo Lei, l'identità ebraica è più legata alla fede o più alla storia e alla politica?
LUZZATTO: Il Muro del Pianto è un muro di cinta di un santuario e di una cittadella, che è stata conquistata dall'esercito romano nel 70 e che è stato bruciato durante la battaglia o subito dopo. È storia anche quella. Non è che sia un simbolo astratto. È un simbolo di un edificio che prima era in quel posto. Non so se si può fare sempre una distinzione molto netta fra una cosa e l'altra. Qualche volta è un po' artificiosa. È vero che il muro del pianto è quel posto dove i pii ebrei vanno a pregare e addirittura a piangere nel ricordo del santuario perduto. Ma quello non è neanche il santuario. Quello è un muro militare, è un muro di cinta. Ma ricorda e quindi diventa simbolo di quello che c'era dietro. Mentre il memoriale della Shoah non è un simbolo religioso. È un simbolo storico, nazionale, però c'è anche chi prega nel ricordo dei morti. Vedete, l'identità ebraica ha attraversato varie fasi. Non vi annoio a raccontarvela tutta, perché ci metterei più tempo di tutta la trasmissione. Non c'è dubbio che al momento presente, da quando è cominciata la costruzione di colonie ebraiche in Palestina, ai tempi dei turchi, poi ai tempi degli inglesi, poi dopo lo Stato d'Israele, l'elemento, come posso dire, secolare nazionale è stato molto presente. Basterebbe un elemento: la lingua. Quando per molte generazioni la lingua l'adopero per pregare e per studiare, e poi improvvisamente l'adopero per descrivere una partita di calcio, cambia l'uso della lingua, e, se cambia l'uso della lingua, dietro questo uso cambiato c'è un gruppo umano che ha altre caratteristiche. Direi che oggi esistono delle caratteristiche singolari dell'identità ebraica, che vanno dal puro nazionale, quindi puro secolare, al puro religioso, che nega la nazionalità e addirittura lo Stato di Israele, a tutte le possibili varianti intermedie. Ecco, questo per dare una risposta molto sintetica. Non vi dico qual è la mia preferenza, perché diventa veramente un discorso molto complicato. Sono a metà, in una delle vie mediane, ma è troppo complicato per rispondere adesso. Vi domando scusa.
STUDENTESSA: Come ebreo, la Shoah rafforza la sua fede o la mette in discussione? Oppure la fede non ha niente a che vedere con quanto è accaduto?
LUZZATTO: Bellissima domanda! Non sono in grado di rispondere e proprio per questo è molto bella. Proprio per questo è molto bella. Devo dirvi che qua c'è un'atmosfera molto piacevole, molto colloquiale e molto amichevole. Mi trovo molto bene con Voi, e allora se Vi dessi una risposta in cui non credo pienamente mi sentirei un traditore. Sarebbe veramente brutto se Vi facessi questo scherzo, che non Vi meritate. Dunque, non Vi do una risposta personale, ma faccio un esempio di una persona - ce l'ho ancora davanti ai miei occhi - che un giorno, davanti a un gruppo di rabbini, in maniera angosciata ha detto: "Ma come fate a essere ancora credenti dopo Auschwitz!". Poi si è scoperto che tutta la sua famiglia era morta lì, compreso una bambina. E questo ha creato un certo imbarazzo, naturalmente. Altri che ricordano delle persone che, mentre li deportavano, hanno creato quella canzone che dice: "Io credo nella venuta del Messia, e anche se ritarda, con tutto ciò lo aspetto e credo ogni giorno che venga". Ecco, queste due sono le due risposte estreme. Nel mondo ebraico ci sono tutte e due. Come le giudico? Le rispetto entrambe. Avete sentito quello che ha detto Primo Levi. Io le rispetto tutte e due anche perché non c'è dubbio che chi ha fatto quella canzone - "Aminanamin" - di fede ne aveva tanta. Ce n'erano! Ne ho conosciuti dopo moltissimi. Vi racconto un fatto realmente avvenuto, di un kapò ebreo in campo di concentramento. Il kapò era il capo degli schiavi deportati, di solito era uno di loro che veniva utilizzato come capo, con piccoli privilegi e invece di morire in tre mesi, moriva in sei, perché poi lo eliminavano lo stesso, ma in quelle condizioni tre mesi di vita di più erano tre mesi di vita in più! Allora, degli reclusi ebrei un giorno vanno da un kapò, che era il tormento dei deportati, crudele peggio dei nazisti, e gli dicono: "Domani è kippur - il giorno del digiuno espiatorio - e noi vorremmo avere il permesso di fare qualche lavoro un po' più leggero per un giorno, per potere, lavorando, pregare". Lui ha risposto maltrattandoli e il giorno dopo li hanno chiamati tutti a pulire i vetri del Comando delle SS. Il che vuol dire che, tutto sommato, lui li ha accontentati come poteva. E loro pulivano i vetri e pregavano, pulivano i vetri e pregavano, quando le SS hanno inventato la tortura peggiore. A mezzogiorno in punto si apre la porta e arriva un pentolone pieno di carne fumante - non gli davano mai la carne, in campo di concentramento -, con un ufficiale che gli grida: "È ora del pranzo, Juden frassen!". In tedesco mangiare si dice essen, mentre per le bestie si usa fressen. Si potrebbe tradurre sbranare, ma non c'è la stessa parola in italiano. Allora, "Juden frassen", ma nessuno si muove. Allora l'ufficiale delle SS chiama il kapò e gli dice: "Ordina a questi sporchi ebrei di mangiare, altrimenti faccio una strage". Gli ebrei si rimettono a pregare, anche se da mesi che non vedevano carne. Allora il kapò dice al capo delle SS: "Guarda oggi gli ebrei, digiunano". L'ufficiale gli punta una pistola alla tempia e gli dice: "Mangia tu per primo, altrimenti sparo". Lui rifiuta e viene sparato sul posto. E il commento degli altri è: "Si è conquistato il Paradiso in un momento solo". La storia sembra inventata, tanto è bella. Invece pare che sia proprio un fatto avvenuto.
STUDENTESSA: Lo scrittore ebreo Amos Oz sostiene che gli israeliani abbiano una overdose di storia. Nella scheda filmata viene appunto ribadita l'ambivalenza tra il diritto all'oblio e il dovere della memoria. Lei cosa pensa al riguardo?
LUZZATO: Qua c'è una vecchia discussione sulla necessità che gli ebrei israeliani "si normalizzino", cioè diventino come qualunque altro popolo o nazione di questo mondo, cioè legati alla loro terra, con la loro tradizione nuova, con la loro lingua, i loro costumi e buonanotte. Basta con queste nostalgie e questi ricordi. Anche perché poi molti di loro sostengono che ricordare troppo quei brutti tempi con quelle umiliazioni, frustrazioni, angosce - badate che sono angosce che uno si porta dietro e se le racconta sempre, se le porta dietro ancora di più - non faccia bene. Probabilmente è vero, che non faccia bene: vedere cosa succedeva di tuo nonno, di tuo zio, del tuo bisnonno, di quello che era, beh, è spaventoso. Chissà quante nevrosi uno si caccia dentro e poi vengono fuori quando uno meno se l'aspetta. In un certo senso bisogna anche dargli ragione. Però abbiamo coraggio di dimenticare e di mettere una pietra sopra dopo soli cinquant'anni, poco più di cinquant'anni? Quando ancora sono vivi quelli che per miracolo sono usciti da quei campi? Io francamente questo coraggio non me lo sento.
STUDENTESSA: Anche dopo una catastrofe del genere, sembra però che a volte l'ombra del passato torni. Ci sono molti esempi di xenofobia e di razzismo anche oggi. Secondo Lei ci sono pericoli effettivi di un ritorno di questa ombra del passato?
LUZZATTO: Vede, è un passato che non è mai scomparso del tutto. Quando io sono tornato in Italia, nel 1946, avevo un lasciapassare, perché ancora non c'era la possibilità di avere il passaporto. Alla frontiera di Ventimiglia, uno in divisa, non so se fosse Finanza o cosa, mi ha fatto tutta una serie di domande: nome, cognome, data di nascita, luogo di nascita, residenza, destinazione, eccetera, eccetera. Poi, a un certo punto: razza? Nessuno aveva cancellato la parola "razza". Avevo diciotto e gli ho risposto: bianca. E lui ha scritto: bianca. Figuriamoci! Bastava riempire la casella. Probabilmente nessuno l'avrebbe guardata. Però, voglio dire non è mai finita, non è mai scomparsa. Incredibile come i pochi anni di propaganda, di dottrina nazista, abbia lasciato delle tracce profonde, difficili da sradicare, ancora adesso ne sentiamo le conseguenze. Quindi non è mai scomparso. Certo, come tutti i periodi di transizione e di crisi, oggi è un momento nel quale si risvegliano sentimenti e culture razzistiche in Europa, e poi, c'è chi li adopera per i propri fini. Cosa volete che Vi dica? L'unica cosa che posso dirvi è che in questo momento, nell'occhio del ciclone non ci sono particolarmente gli ebrei. Ma questo non vuol dire. Il razzismo o c'è o non c'è. Quando c'è, è un pericolo per tutti, per tutte le minoranze. Oggi, sono colpiti in Europa da razzismo, soprattutto extra comunitari, musulmani, popolazioni che arrivano profughe da lontano, i cosiddetti clandestini, che saranno anche clandestini, ma sono per prima cosa dei poveri infelici. Oggi sono questi. La cosa non mi consola affatto. Anzi, se che pensassi: "Mi consola", mi vergognerei di dirvelo, ecco. A questo punto voglio raccontarvi un episodio accaduto a me. In un albergo di Torino sono stato derubato di una busta, niente di importante, quattro cartacce, ma chi me l'ha rubata non lo sapeva, poteva immaginare chissà che tesori. L'impiegato che era alla ricezione dell'albergo ha detto: "Accidenti! Lo conosco, quello è un albanese!". Gli ho risposto: "Allora lo conosci?". "No, non l'ho mai visto prima". "Allora come sai che è un albanese?". Risposta: "E cosa vuole che sia, se l'ha derubata in albergo!". Ecco gli stereotipi di cui parlavo prima. Anche se gli dimostro che tra gli albanesi non ci sono più ladri che - per esempio - tra i turcomanni, lo stereotipo dice albanese.
STUDENTESSA: Per concludere noi vorremmo regalarle una citazione, tratta da Primo Levi, da: "Se questo è un uomo", per ricordare la denuncia dell'odio dell'uomo contro l'uomo. Primo Levi scrive: «I savi antichi invece di ammonirci: "Ricordati che devi morire", meglio avrebbero fatto a ricordarci questo maggior pericolo che ci minaccia. Se dall'interno dei lager un messaggio avesse potuto trapelare agli uomini liberi, sarebbe stato questo: "Fate di non subire, nelle vostre case, ciò che a noi viene inflitto qui"».
LUZZATTO: Benissimo, brava!
(6 febbraio 2001 - Puntata RAI Educational realizzata con gli studenti del liceo classico "Aristofane" di Roma)