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    Etica e laicità

    Intervista a Massimo Cacciari


    Esiste un’etica «laica»? In caso affermativo, quali sono i principi e i valori a cui si ispira?

    Paradossalmente direi che l’etica è soltanto laica. Ma bisogna intendersi bene sui termini. Se andiamo all’etimologia della parola, ethos è quell’insieme di usi e costumi che sono condizionati culturalmente e dalle circostanze. Si potrebbe dire che, di per sé, l’etica non si differenzia per i valori universali (per esempio quello di non uccidere). Non si troverà mai un’etica che dice che è bene uccidere, le differenze emergeranno piuttosto circa le condizioni in cui è bene, o è possibile, uccidere. Allo stesso modo, non si troverà mai un’etica che affermi la bontà del suicidio; si troveranno invece etiche per le quali, in alcuni casi, il suicidio è bene e perciò l’uomo virtuoso si toglie la vita. È sulle circostanze condizionate culturalmente e storicamente che le distinzioni diventano significative. Quindi, se andiamo al di là delle affermazioni assolutamente astratte, ci accorgiamo che l’ethos ha a che fare con situazioni precise, storicamente determinate, che accomunano famiglie di uomini e attorno alle quali si organizzano tradizioni, società e culture e che durano per un certo tempo, un tempo determinato. Le politiche si trasformano, le forme del fare si trasformano, anche l’ethos cambia, ma i suoi sono tempi lunghi; si muove su onde lunghe.
    Nella nostra vita ci sono tanti tempi che corrono insieme, ognuno con i suoi ritmi, e sono completamente diversi fra loro. È uno dei problemi che constatiamo oggi. Il ritmo della rivoluzione tecnologica corre con una velocità incomparabile rispetto alla trasformazione dell’ethos e ciò crea delle schizofrenie. Ma non bisogna meravigliarsi: questi tempi sono sempre stati diversi. Il tempo dell’ethos nell’ordine storico, sociale, mondano, secolare è il più lungo, analogo a quello della trasformazione dei linguaggi. I tempi del fare, della politica sono più rapidi e quelli legati alle tecniche lo sono ancora di più. Sono tempi sfasati l’uno dall’altro. Il tempo dell’ethos, proprio perché di lunga durata, ci accompagna più a lungo e su di esso ci fondiamo maggiormente. E quando uno dei tempi importanti della società civile corre di più rispetto a quello dell’ethos - per esempio quello economico e tecnico - è come se ci mancasse la terra sotto i piedi.
    La dimensione religiosa è un’altra cosa. È quella in cui c’è una dimensione valoriale, che è incontrovertibile, eterna, divina. Tutto ciò non ha niente a che fare con l’ethos. Ridurre il cristianesimo a etica è un peccato mortale. Io sono perfettamente d’accordo con Kierkegaard [1] non per ragioni esistenziali, ma per ragioni logiche. Il cristianesimo non ha nulla a che vedere con l’etica, nel senso di ethos che dicevo sopra. E quando si corre sui binari della storia, si alza lo sguardo e si hanno valori ideali, ecco scaturire il dramma cristiano: vivere cioè lo sconfinato abisso tra l’orizzonte valoriale eterno, divino, e l’ethos che, per quanto duri, eterno non è. Il cristiano vive, però, in questa città degli uomini con quella carica valoriale in cui crede fermamente.

    Quale sarebbe, allora, in questo vivere nella città degli uomini, il ruolo di un cristiano?

    Il cristiano ha un compito «pericoloso» perché mette costantemente in crisi l’ethos. In virtù della sua fede, infatti, agisce da fermento all’interno dell’ethos. Pensiamo a quanto il cristianesimo ha fatto nella storia, riuscendo a scalzare l’ethos classico: ha compiuto un’operazione di portata rivoluzionaria. Cosa che, per esempio, non ha fatto l’Islam, il quale custodisce l’ethos classico molto più del cristianesimo, anche se può non sembrare così. Ha, infatti, un aspetto di religio civilis [2] come aveva l’ethos classico; non chiede all’uomo la «sovraumanità» di rapportarsi costantemente con l’autenticità della propria interiorità, ma chiede un culto, proprio come facevano i romani. Nella Roma classica non si esigeva tanto di credere alla divinità dell’imperatore, ma di riservare a lui un culto. Forse che Plotino credeva alla divinità dell’imperatore? Nessuno più vi credeva! Avevano ragione i Padri della Chiesa quando affermavano che i romani non credevano più a nulla; erano tutti atei. I romani chiedevano culti e i cristiani furono perseguitati per motivi politici, perché si rifiutavano di riservare questi culti all’imperatore.
    Ancor più l’Islam, in maniera più esplicita, richiede un culto, nel senso che si richiamava sopra, cioè un’obbedienza assoluta. Ma qui il discorso si complica e non è possibile affrontare in poche pagine la questione senza cadere in semplificazioni monolitiche e in letture statiche di questa religione.
    La prospettiva cristiana è, invece, completamente diversa, proprio perché scombina il rapporto lineare tra etica e fede: lo sconquassa, oserei dire. Certo, se il cristianesimo non si fosse poi incarnato in culti e obbedienze non sarebbe durato come invece dura; sarebbe divenuto una gnosi, come peraltro rischiò di fare tra il primo e secondo secolo.[3] Ma il suo nucleo vivificante è altro, è quello della fede, che ha fatto in modo che non si incarnasse e inaridisse mai in nessun ethos. E cosa vuole dire Sant’Agostino quando afferma che questa religione non tiene conto di costumi, di lingua, di niente, trascendendo in qualche modo tutto questo?[4]
    La forza del cristianesimo è questa; se lo si derubrica a etica occorre chiedersi quale etica. E se lo si «settorializza», facendolo divenire settarismo, perde la caratteristica fondamentale che è la cattolicità, cioè il suo essere universale. La cattolicità del cristianesimo sta in piedi nella misura in cui si tiene viva la distinzione tra dimensione etica e dimensione di fede. Una distinzione che non può mai essere separatezza. Questa è la difficoltà del concetto e anche dell’esperienza storica del cristiano. Riuscire a tenere unito e distinguere; più tieni unito e più distingui, e più distingui e più tieni unito, questa è la difficoltà dell’analogia [5] che il teologo Karl Barth non ha capito perché lui utilizza il mio stesso discorso circa etica e fede ma come separazione e poi lo attenua.[6] È l’analogia che manca in Barth, che manca nella teologia dialettica.

    Il presidente francese Nicolas Sarkozy, durante l’ultimo viaggio del Papa in Francia, ha ribadito il concetto di laicità positiva [7] come invito al dialogo, alla tolleranza e al rispetto; come possibilità di scambiare opinioni, al di là delle credenze e dei riti. Cosa ne pensa?

    Per comprendere cosa si intende per «laicità positiva» credo basti, ancora una volta, andare all’etimologia della parola laico, da làos (popolo). Si tratta di quello spazio sano, positivo e propositivo di confronto, dialogo, ambito in cui affrontare i conflitti. La città dell’uomo è laica, governata dal popolo. L’ambito della fede è un altro. Dopotutto, chi ha detto che il suo regno non è di questo mondo? Più laico di così! E dire che è l’ambito della fede è un altro significa dire che è distinto, ma non separato. E la Chiesa dovrebbe - lei per prima - difendere questa posizione che fa parte integrante del cristianesimo stesso, ne è la sua radice più autentica. Ma credo sia sempre in agguato la grande tentazione, quella del potere terreno.
    Laico non è chi nega la trascendenza, ma chi ritiene trascendente il suo stesso esistere; cioè, in qualche modo, il laico non credente è colui che rende immanente la stessa trascendenza.

    Si può, allora, parlare di un ruolo pubblico della religione?

    Sì. E che le religioni avessero un ruolo pubblico ce lo dice la storia e lo riconosceva lo stesso Machiavelli. Questo, però, non vuol dire che la Chiesa debba confrontarsi sul piano politico. Se lo facesse, snaturerebbe il suo mandato: quello cioè di essere fermento, stimolo, di mostrare quali sono i confini della laicità. Si dovrebbe invece esaltare il momento in cui, sulla scena politica, nessuno è depositario del Valore.[8] La grande tentazione della cattolicità è di voler dettare legge, cioè volere trasformare il Valore in legge dello Stato. Nella città degli uomini, invece, ci si confronta su valori diversi. L’ambito pubblico è complesso e in esso si decide qual è il valore relativo (non relativistico) da assumere con le procedure democratiche delle nostre società moderne. Tuttavia, è altrettanto vero che sarebbe esiziale per noi, oggi, vivere un atteggiamento di contrapposizione con la Chiesa, di contrapposizione sui valori. Occorre un atteggiamento rispettoso e attento, che richiede cioè la responsabilità di tutti. Io sono responsabile anche dei valori degli altri che non condivido, nel senso che devo fare in modo, io per primo, che il mio interlocutore abbia uno spazio e la possibilità di dialogare. Senza aggiungere, poi, che in società complesse come la nostra - in cui tentano di convivere tradizioni religiose diverse - il contributo di un cristiano, di un cattolico, è molto importante perché la sua sensibilità è maggiore su questi temi rispetto a quella di un laico non credente.

    Come e in che misura questo cammino verso la laicità positiva nella politica dei Paesi occidentali può beneficiare dell’elezione di Barack Obama?

    Spesso l’immagine che abbiamo degli Stati Uniti come terra della razionalizzazione, della secolarizzazione non corrisponde al vero.[9] In realtà gli usa, e ce l’hanno insegnato i suoi grandi interpreti come Harold Bloom,[10] possiedono una religio [11] molto simile alla religio civilis romana. Bush è riuscito a mobilitare, soprattutto dopo l’11 settembre, questa «religio americana», un misto tra fondamentalismo e «missionismo». Ha incarnato in sé, per un certo tempo, la visione di coloro che volevano essere rassicurati e cercavano certezze. Credo allora che l’elezione di Barack Obama sia venuta in un certo senso a rompere questa situazione idolatrica (cioè questo utilizzo della religione come strumento di potere) che si era tentato di stabilire con l’amministrazione Bush. A onor del vero bisogna sostenere, tuttavia, che la Chiesa ha resistito a questo tentativo di strumentalizzazione soprattutto con prese di posizione chiare contro la guerra. Per quella che è la sua esperienza politica, vede un difetto di laicità nel sistema politico italiano?
    Certamente sì, rispetto a quanto detto fino a qui. Da una parte, vuoi per un tardo positivismo, vuoi per ripetizione di un tardo illuminismo volterriano filtrato attraverso lo scientismo positivista, c’è un laicismo - chiamiamolo così per usare un termine di moda - che ritiene un relitto la dimensione religiosa e di fede nell’epoca tecnologica. Malgrado tutte le smentite della storia, è una posizione che ricorre e purtroppo la storia è fatta di corsi e ricorsi; dobbiamo prenderne atto. Dall’altra ci sono tentazioni da parte della Chiesa che tradiscono non solo la sua ispirazione originaria ma anche quel rinnovamento continuo che la mantiene viva e vitale, ed è quel volersi derubricare a etica, quel volersi fare legge del secolo. E ciò, paradossalmente, arriva a combinarsi con le tendenze laiciste, formando una sorta di fraterna inimicizia che finisce per schiacciare le posizioni che non si identificano con le loro, come quella che sto cercando di esporre. C’è poi un atteggiamento strumentale nei confronti della religione che tenta di accaparrarsela, trasformandola in religio civilis; e questo in Italia ma non solo (pensiamo agli Stati Uniti, come abbiamo detto, ma in generale è una tentazione relativa a tutto il mondo occidentale). Si tratta di un atteggiamento ipocrita, ripugnante sotto certi aspetti quando attuato da personaggi che, privi di ogni autentica esperienza religiosa, tentano di accaparrarsi le tendenze meno laiche presenti nelle Chiese o nella Chiesa, per motivi puramente contingenti. Poi, fuori da questo «mercato», si levano alcune voci forti e autorevoli - per esempio, nella Chiesa, quelle del card. Martini e del card. Tettamanzi - che interloquiscono positivamente anche sulle tematiche qui affrontate, anche se a volte si ha l’impressione che siano voci isolate, se non veri e propri clamantes in deserto.

    C’è una via di uscita a tutto questo?

    Certo che vedo una via d’uscita. È anche vero, però, che siamo in un tempo di crisi, di difficoltà. E al di là delle possibili strumentalizzazioni, si vedono molti che vanno in cerca di una fede che li rassicuri e di una politica, basata su una fede rassicurante, che possa garantire anch’essa sicurezza. Questa «fame» di sicurezza è autentica e vale poco cercare di fornire spiegazioni e argomentazioni differenti. Tale atteggiamento c’è e si impone in modo prepotente, con tutte le derive che abbiamo cercato di delineare. Come negare tutto questo? Il mondo ha subito le sue catastrofi ecologiche e tecnologiche, e vive oggi un rimescolamento di popoli e culture; pensare di governare facilmente processi di questo tipo è un po’ utopistico. Tuttavia, credo che si possa perlomeno provare a gestire tale situazione, in parte attraverso politiche sagge, in parte attraverso discorsi saggi, in parte attraverso predicazioni sagge. Quindi ognuno facendo la propria parte. In duemila anni abbiamo attraversato tante crisi di tipo epocale e in qualche modo il fermento di questa «laicità positiva» in dialogo con un’esperienza di fede autentica non è mai mancato. Non sono emersi solo il riferimento alla religio civilis e alle derive accennate. Perché, allora, non pensare che tutto questo, con la responsabilità di tutti, possa riproporsi?

    (Aggiornamenti sociali, 3/2009, pp.171-176)

    NOTE 

    [1] Søren Kierkegaard (1813-1855), filosofo e teologo danese. [Questa nota e le seguenti sono a cura della Redazione]
    [2] «Religio civilis significa che tutti i cives, dalla cui concordia la civitas trae origine e su cui si fonda, debbono riconoscersi appunto come membri di tale comunità, appartenere al suo destino, affermare la potenza di Roma come il proprio bene supremo; ma in nessun modo è possibile equipararla a una “religione di Stato”»: Cacciari M., «Digressioni su Impero e tre Rome», in Micromega, 5 (2001) 49.
    [3] La gnosi non si pone né nel campo della filosofia, né in quello della fede. Intende appagare il bisogno religioso dell’uomo senza un vero cammino di conversione che faccia i conti con la realtà della creazione e della storia. I Padri della Chiesa hanno combattuto lo gnosticismo considerandolo una vera e propria eresia cristiana. Cfr Cattaneo E.- Dell’Osso C. et al., Patres Ecclesiae. Un’introduzione alla teologia dei Padri della Chiesa, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2008.
    [4] Sant’Agostino, La città di Dio, XIX,17: «Dunque questa città del cielo, mentre è esule in cammino sulla terra, accoglie cittadini da tutti i popoli e aduna una società in cammino da tutte le lingue. Difatti non prende in considerazione ciò che è diverso nei costumi (moribus), leggi e istituzioni, con cui la pace terrena si ottiene o si mantiene, non invalida e non annulla alcuna loro parte, anzi conserva e rispetta ogni contenuto che, sebbene diverso nelle varie nazioni, è diretto tuttavia al solo e medesimo fine della pace terrena se non ostacola la religione, nella quale s’insegna che si deve adorare un solo sommo e vero Dio», in .
    [5] Non è possibile qui affrontare il difficile concetto dell’analogia che tanto spazio ha avuto nel dibattito filosofico e teologico. Rimandiamo, tuttavia, a un breve articolo che aiuta a problematizzare la questione: Cacciari M., «Il destino dell’analogia», in Humanitas, 3 (1999) 350 ss.
    [6] Rimandiamo qui alla riflessione del teologo riformato svizzero circa l’analogia entis e l’analogia fidei.
    [7] Cfr Benedetto XVI – Sarkozy N., «Viaggio apostolico del Papa in Francia», in Aggiornamenti Sociali, 11 (2008) 690-702.
    [8] Valore con la «V» maiuscola non si riferisce a un particolare valore, ma alla sua assolutizzazione,
    prescindendo dalla necessità, sul piano politico, di un confronto sulla pluralità dei valori.
    [9] Cfr Birnbaum N.,«Si possono redimere gli Stati Uniti?», in Aggiornamenti Sociali, 9-10 (2002) 653-664. Secondo l’autore le categorie portanti dell’autocoscienza politica degli Stati Uniti possono essere interpretate come una «religione secolarizzata», non priva di conflitti e «scismi» interni.
    [10] Cfr Bloom H., La religione Americana. L’avvento della nazione post-cristiana, Garzanti, Milano 1994 (ed. or. 1992).
    [11] Cfr Piana G., «Cristianesimo come “religione civile”?», in Aggiornamenti Sociali, 3 (2006) 223-234. Qui l’autore analizza, tra le altre cose, il fenomeno della religione civile in ambito americano.


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