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    Leggere la Bibbia oggi

    Giuseppe Betori


    A quasi sessant'anni dalla Dei Verbum e dalla conclusione del Concilio, ci viene offerta un'autorevole lettura della ricezione della Bibbia nel contesto attuale, tra non poche luci di cui possiamo essere grati e alcuni rischi che occorre tenere presenti.

    Tradurre la Bibbia nelle lingue correnti

    Il legame tra Chiesa e Scrittura è di natura ontologica e si esplicita nelle varie forme con cui la Chiesa si è presa cura anzitutto di indicare l'estensione della Bibbia, affrontando cioè il problema del canone, per poi preoccuparsi che il suo nutrimento fosse disponibile alla mensa dei credenti e alla comunicazione anche ai non credenti. Di questo compito fa parte anche la premura perché il testo biblico possa essere incontrato nella lingua comune della gente. Fu questo a spingere la Chiesa dei primi tempi ad accogliere dalle comunità ebraiche della diaspora quella traduzione greca del Primo Testamento che fu detta dei Settanta – la Settanta – e che, unita ai testi neotestamentari, questi tutti scritti in greco, permise alla prima generazione dei cristiani del mondo del Mediterraneo di poter leggere la parola di Dio e di avviare così la formazione dí un linguaggio cristiano pronto a entrare ín dialogo con la cultura del tempo.
    La stessa preoccupazione, legata in particolare al passaggio in Occidente dei riti liturgici dalla lingua greca a quella latina, spinse a intraprendere una traduzione in latino dei libri antico- e neotestamentari, dapprima mediante iniziative autonomelocali e poi in forma programmatica e organica, con l'incarico dato da papa Damaso a san Girolamo nel 383. Quella traduzione verrà poi definita Vulgata e fu strumento fondamentale dell'espressione e della comunicazione della fede nei secoli della latinità e poi del medioevo, e per i cattolici fino all'età moderna inoltrata. L'affermarsi della lingua italiana, all'inizio nelle molteplici varianti dialettali, non mancò di indurre a rendere nella lingua nascente anche i testi biblici, sebbene il non uso liturgico confermasse ancora il primato della Vulgata, confortato dalle interpretazioni restrittive che si affermarono nel dopo Concilio di Trento circa il primato di quest'ultima. Eppure, non mancarono traduzioni in lingua italiana che si fecero spazio nell'ambito della spiritualità e della cultura. Fra tutte va ricordata nel XVIII secolo la Sacra Bibbia del sacerdote pratese Antonio Martini (1769-1781), divenuto in seguito arcivescovo di Firenze.
    Il concilio Vaticano II, con l'esplicito invito a un accostamento più intenso di tutti alla Scrittura e con la riforma liturgica, che da esso prese avvio, provocò o, meglio, intensificò (non dimentichiamo l'opera di diffusione della Bibbia promossa in Italia nella prima metà del secolo scorso da istituzioni come la Pia Società di San Girolamo o i religiosi Paolini) un intenso lavoro per dotare la nostra gente di affidabili traduzioni della Bibbia in lingua italiana. Se ne occuparono gli stessi vescovi italiani, che sentirono il dovere di offrire alla liturgia, che si presentava ora in lingua italiana, una traduzione che rispondesse alle esigenze dell'atto liturgico dal punto di vista della certezza del testo e della sua comprensibilità. Frutto di tale impegno fu la cosiddetta Bibbia-CEI del 1971 (riedita, con adattamenti, nel 1974 e così presente nei Lezionari liturgici fino al 2007 e nella Liturgia delle Ore ancora oggi). Di fatto la Bibbia-CEI non restò confinata nell'ambito liturgico, ma divenne il testo più diffuso fra tutte le traduzioni bibliche italiane moderne, fino a costituire quella che potremmo definire, con qualche arditezza, la "Volgata" italiana del nostro tempo in quanto, come la Vulgata di Girolamo si impose su tutte le precedenti versioni latine, così la Bibbia-CEI ha assunto un ruolo preponderante fra le traduzioni italiane del nostro tempo anche nell'ambito dello studio teologico e della vita spirituale.
    Con il tempo si prospettò l'esigenza di rivedere questa traduzione della Bibbia-CEI, in quanto l'uso liturgico faceva emergere inesattezze e auspicati miglioramenti. La revisione si impose come inderogabile dopo la pubblicazione della Nova Vulgata. Le novità maturate nell'ambito degli studi biblici, soprattutto in quello della critica testuale, avevano infatti indotto la Santa Sede ad avviare già nel 1965 una revisione della Vulgata geronimiana, un lavoro terminato nel 1979, cui seguì una seconda edizione della Nova Vulgata, promulgata il 25 aprile 1986 e dichiarata "typica", specie per l'uso liturgico.

    La nuova traduzione italiana

    Nel maggio 1988 la Conferenza Episcopale Italiana avviò il lavoro di revisione della traduzione italiana del 1971, alla luce del testo della Nova Vulgata "editio altera" e, con l'occasione, per migliorarne la qualità, una revisione che al termine dei lavori appare assai profonda, giungendo a proporsi in alcuni passaggi quasi come una nuova traduzione. Per un consapevole utilizzo di questo testo, pubblicato dopo venti anni di lavoro nel 2008, il testo che oggi proclamiamo nelle liturgie e di cui ci avvaliamo per la vita pastorale e spirituale, può essere utile fare cenno ai criteri guida della revisione da cui è scaturita la Bibbia-CEI 2008.
    In primo luogo, i libri e le pericopi da tradurre, in quanto facenti parte del Canone biblico della Chiesa cattolica, sono stati individuati in conformità alla Nova Vulgata e, in genere, alla tradizione liturgica occidentale. Secondariamente, la traduzione esistente è stata rivista in base ai testi originali (ebraici, aramaici e greci), secondo le migliori edizioni critiche oggi disponibili, dalle quali è stata tradotta anche la Nova Vulgata, e secondo i principi classici della critica testuale e dell'esegesi. Nei casi di lezioni testuali dubbie o discusse, ci si è riferiti in primo luogo alla versione della Settanta, per l'Antico Testamento, e poi alla Vulgata, tenendo conto delle scelte compiute dalla Nova Vulgata. Ancora: inesattezze, incoerenze ed errori della traduzione del 1971-1974 sono stati corretti seguendo scelte condivise tra gli esegeti e avendo come riferimento, nei casi dubbi, la Nova Vulgata. Si è poi cercato di recuperare un'aderenza maggiore al tono e allo stile delle lingue originali, orientandosi verso una traduzione più letterale, cercando di non compromettere tuttavia l'intelligibilità del testo fin dal momento della lettura o dell'ascolto. Particolare attenzione è stata riservata alla corrispondenza dei testi sinottici, alla varietà degli stili e dei generi letterari nei diversi libri della Scrittura, cercando al contempo uniformità e continuità del vocabolario. Ci si è anche preoccupati di rendere il testo in buona lingua italiana, con modalità espressive di immediata comprensione e comunicative in rapporto al contesto culturale odierno, evitando forme arcaiche del lessico e della sintassi. Infine, si è curato il ritmo della frase, per rendere il testo rispondente alle esigenze della proclamazione liturgica e, dove occorra, adatto a essere musicato per il canto.
    Mi sembra importante sottolineare come il testo della Bibbia che la Chiesa italiana ci ha consegnato permetta a un fedele cristiano di poter contare su un testo biblico affidabile dal punto di vista delle scienze storico-critiche e al tempo stesso capace di nutrire sia la vita liturgica del credente sia la sua preghiera personale, la sua riflessione spirituale, la sua intelligenza della fede. L'unità dello strumento non è fattore secondario dell'auspicata unità dell'esperienza di fede, specialmente in un tempo in cui la fede si trova a dover fare i conti con una ragione sempre più esigente e con un'aspettativa crescente di autenticità della vita spirituale.

    Il contesto attuale

    Mi sono dilungato sulla vicenda della traduzione della Bibbia, nella convinzione che il testo di riferimento non sia meno importante del modo in cui viene letto. Comprendere l'ottica in cui è nato e si colloca può aiutare a meglio valorizzarlo nella lettura. È valso per il passato e vale per l'oggi. Ma ora è bene chiederci in quale contesto avviene oggi la nostra lettura della pagina biblica. Semplificando, e quindi facendo qualche inevitabile torto, potremmo dire di trovarci all'interno di una tensione tra due approcci alla Bibbia, ambedue poco rispettosi del testo e pericolosi per la fede.
    Da una parte, troviamo una lettura che cede alle istanze razionaliste che dominano alcuni settori della cultura contemporanea e che portano allo svuotamento della realtà storica della Bibbia, e dei Vangeli in particolare, con la conseguenza di ricacciare i libri biblici tra la letteratura di finzione, al massimo apprezzabile per la forma letteraria di qualche sua pagina, oppure di configurarla come una fonte mitologica di istanze etiche. La tendenza è antica, e nell'epoca moderna ha assunto per i Vangeli diversi volti dal XVIII secolo in poi: quelli più significativi e incidenti nella cultura corrente sono la variante cosiddetta "liberale", che riduce Gesù a un maestro di principi etici umanistici, e quella bultmanniana, che ne fa una figura irraggiungibile ma il cui annuncio produce quella decisione esistenziale con cui l'uomo si appropria di sé stesso e del suo futuro. Su queste impostazioni ermeneutiche di fondo si innestano poi le varianti del Gesù rivoluzionario o del Gesù vittima dí illusori sogni escatologici, cui sarebbe succeduta una Chiesa che si colloca invece nel tempo, con il "tradimento" di Gesù ad opera anzitutto di san Paolo, presunto vero "fondatore" del cristianesimo. Il riduzionismo, proprio di questo tipo di lettura, illude pensando di allinearla agli standards delle scienze naturali, peraltro racchiuse in una ristretta e falsa prospettiva positivistica, nonostante che l'epistemologia scientifica più aggiornata abbia mostrato come siano le teorie a scoprire i fatti e non viceversa, e nonostante che l'epistemologia storiografica abbia ben evidenziato come sia ineliminabile l'apporto del soggetto attore della comprensione del dato storico. La conseguenza è che, a ben vedere, le presunte letture scientifiche dei Vangeli altro non sono che proiezioni su Gesù di pregiudizi filosofici o ideologici con cui i diversi autori se ne annettono la figura e la rendono spendibile per i propri progetti culturali o sociali.
    L'altro polo della tensione è costituito da una lettura del testo biblico che potremmo definire "ingenua", che si rifiuta di prenderne in considerazione le componenti storiche e letterarie. È un approccio acritico, che si presenta anch'esso in diverse varianti, due delle quali meritano una specifica attenzione. La prima è rappresentata dall'approccio fondamentalista che, rifiutando di considerare i condizionamenti storico-letterari del testo, alimenta una figura della fede chiusa all'incontro con la cultura e diventa fattore non secondario di forme intransigenti e settarie della religione. Essa ha dietro di sé una lunga storia, soprattutto in ambito protestante, e si manifesta ancora viva in quegli ambienti, soprattutto nelle derive evangelicali, pur non essendo del tutto estranea anche ad alcuni ambienti del mondo cattolico. La seconda variante, questa più diffusa in ambito cattolico, è quella che si configura come lettura finalizzata a produrre immediati risvolti emotivi, camuffati in genere da istanze spirituali, che prescindono da ogni giudizio di attendibilità e ragionevolezza circa i contenuti. Qui a entrare in gioco è una percezione della fede come alternativa alla ragione, che raggiunge di fatto gli stessi esiti dell'approccio razionalista circa il fondamento storico della fede, pur partendo da presupposti diametralmente opposti.
    Le posizioni non sono probabilmente rintracciabili nel nostro vissuto con la nettezza dei contorni con cui le ho appena descritte. Le sfumature con cui esse di fatto si presentano sono molte, ma non è difficile ricondurle a questo o all'altro modello di fondo. Quel che però deve soprattutto preoccuparci è che ambedue i poli della tensione conducono di fatto a una scissione tra la dimensione storica e quella della fede. Ciò vale per ogni momento della storia della salvezza, ma ha una pregnanza specifica per il suo centro, là dove si genera l'opposizione tra il Gesù storico e il Cristo della fede, che è una delle eredità più negative della modernità, che non smette di produrre anche oggi i suoi frutti negativi, sia all'interno dell'esperienza di fede sia nel dialogo con la cultura contemporanea. Per combattere questa divaricazione Benedetto XVI scrisse i tre volumi del suo Gesù di Nazaret. La figura e il messaggio (2007-2012).

    Il piano della storia e il piano della fede

    L'unità tra il piano della storia e quello della fede è elemento decisivo dell'autenticità della fede e fattore di coerenza per un approccio di essa che voglia essere veramente storico. Sarebbe infatti contraddittorio per l'onestà della ricerca storica voler prescindere dalla dimensione trascendente nel trattare un oggetto, quello storico-salvifico e in specie quello di Gesù Cristo, che si presenta come fatto che rimanda al di là della storia stessa. Come si fa a parlare di Gesù prescindendo volutamente dalla rivendicazione storica della sua messianicità e del suo rapporto unico con il Padre?
    Focalizziamo il problema generale della lettura del testo biblico proprio a partire dalla figura di Gesù. La domanda con cui dobbiamo confrontarci può essere cosi formulata: è proprio vero che per fare storia si debba espungere Dio dall'orizzonte? È una storia corretta quella che si limita a prendere atto dello sviluppo delle credenze religiose, senza nulla dire sui fondamenti che le generano? Quasi che la rivendicazione da parte di Gesù di un rapporto unico con il Padre – il Padre "mio e vostro" (cfr. Gv 20,17), ma mai Padre "nostro" in quanto detto al tempo stesso di Gesù e dei discepoli –, che nessuna analisi dei vari strati della tradizione evangelica potrà mai cancellare e che, con Gesù stesso –in particolare nei racconti della sua passione –, la successiva espressione della fede ha catalizzato nella denominazione e figura del Figlio di Dio, possa essere cancellata solo perché con essa l'uomo Gesù, il solo di cui si potrebbe parlare, aprirebbe il varco su un orizzonte, quello divino, che è precluso all'umana ragione! A pensarci bene, siamo di fronte a una variante di quella espulsione della trascendenza dall'esperienza dell'umano che dall'ambito della vita sociale viene qui spostata a quello della conoscenza. Fare il contrario non implica per sé un'adesione di fede, ma semplicemente non cancellare dal dato storico quegli elementi che aprono la possibilità della fede. Anche se c'è poi da aggiungere che, considerata la pretesa di Gesù di un suo specifico rapporto filiale con il Padre, diventa logico che la più compiuta comprensione di lui e di ciò che da lui è nato la si ha ponendosi nella sua stessa prospettiva, quella della fede.
    Dietro a tutto ciò sta il problema ben noto della presunta opposizione tra "ragione o fede", dando per scontato che per l'uomo contemporaneo non possa darsi la composizione tra "ragione e fede". Eppure non dovrebbe essere difficile riconoscere che la ragione lasciata a sé stessa non è capace di rispondere a tutto e alla fine si dissolve nei mille irrazionalismi che dominano la cultura diffusa. Non è pertanto strano che sia la Chiesa oggi ad apparire come l'ultimo vero difensore della ragione, proprio perché non la vede come nemica della fede, purché non la si voglia utilizzare in senso esclusivista. Lo segnalava con insistenza papa Benedetto con il suo richiamo a «un allargamento del nostro concetto di ragione e dell'uso di essa» (Discorso ai rappresentanti della scienza, Regensburg 12 settembre 2006). Al fondo sta il fatto che non è possibile comprendere un libro al di fuori dell'orizzonte in cui esso è venuto alla luce, il che significa per la Bibbia al di fuori di quella comunità di fede che lo ha prodotto e se ne fa custode nel tempo, tramandandolo e invitando alla lettura. Leggere la Bibbia nella Chiesa non è quindi sfuggire alla correttezza di un approccio critico, ma rispondere alla prima delle esigenze critiche, che dice come ogni libro vada letto nel contesto della sua produzione.
    Ci aiuta in questo il concilio Vaticano II che invita a essere rispettosi delle dimensioni umane, storiche e letterarie, dei testi biblici ma, al tempo stesso, del loro collocarsi all'interno di un contesto di fede che ne è fattore essenziale di interpretazione (cfr. Dei Verbum, 12). Il rapporto con la Chiesa per una corretta lettura della Bibbia non è solo legato alla Chiesa delle origini, in quanto orizzonte nel cui contesto il Primo Testamento viene accolto e i libri del Nuovo Testamento vengono generati. Esso riguarda anche la Chiesa oggi, per ragioni ancora al tempo stesso di fede e di sana ermeneutica. Non solo infatti la fede ci dice che non possiamo comprendere la parola del Signore se non alla luce del suo Spirito vivente nella Chiesa, ma anche la dinamica propria della comprensione storica richiede che ogni testo sia compreso alla luce della storia degli effetti che da esso sono scaturiti, cioè di quella stessa storia di verità e di santità che è la vita della Chiesa nel tempo.

    Alcuni rischi da evitare

    Le ultime considerazioni sono riservate a una più vicina analisi delle prassi di lettura biblica tra noi diffuse, richiamando alcuni pericoli. Occorre anzitutto sfuggire un biblicismo kerygmatico, che confonde la potenza della Parola con una sua proclamazione priva delle necessarie mediazioni, affidando la forza esistenziale del messaggio a una specie di cortocircuito interpretativo che annulla le distanze culturali e le mediazioni ecclesiali. Non meno dannosa è una lettura tematica della Bibbia che, per affermarne la validità universale, prescinde di fatto dalla sua dimensione storico-salvifica e la riduce a fonte di contenuti valoriali, disponibili per ideologie o etiche pronte da spendere nel privato psicologico o nell'agone sociale. È poi necessario evitare che si crei all'interno delle nostre comunità una specie di aristocrazia ecclesiale che, avendo assaporato il potere rigenerante del ritorno alle sorgenti – in questo caso quelle bibliche, ma vale anche per quelle liturgiche –, si distacchi dal complesso della tradizione spirituale del cattolicesimo. Occorre, viceversa, scongiurare che continui a scorrere, parallela a questa vicenda spirituale alimentata dalla Scrittura, la vita di tanta gente ancora legata a forme devozionali tradizionali che restano spesso impermeabili a ogni nutrimento biblico. Bisogna, ancora, impedire che le difficoltà che l'accostamento alla Bibbia porta con sé – oggi accresciute dai conflitti interpretativi che scaturiscono dalla compresenza di una crescente pluralità di metodi – abbiano come esito l'abbandono da parte di molti dell'accostamento diretto al testo biblico. Allettati da presunte più sicure formulazioni della fede, costoro dimenticano che tali formulazioni, senza il nutrimento biblico, si perdono o in aride operazioni dottrinali o in svigorite espressioni sentimentali della fede.
    Detto ciò, resta ancora aperto l'interrogativo posto dall'allora card. Joseph Ratzinger circa la non realizzata ricezione della Dei Verbum nella Chiesa oggi, da lui attribuita alla riduzione del dettato conciliare a una presunta "compiutezza materiale" della Scrittura in ordine alle questioni della fede, che ne determinerebbe lo svincolamento dalla Tradizione e quindi dalla Chiesa, restando il testo sacro affidato ai criteri puramente storici dei suoi metodi interpretativi. Nella sua autobiografia egli vi accenna con due brevi frasi. Lo fa anzitutto richiamando la radice del problema sottostante, cioè «la questione di come storia e spirito possano rapportarsi e comporsi nella struttura della fede» (J. Ratzinger, La mia vita. Autobiografia, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997, p. 91). Lo riprende indicando la direzione verso cui rivolgersi per cercarne una soluzione, direzione peraltro che si innesta su quanto suggerito dalla stessa costituzione conciliare: «La Rivelazione, cioè il volgersi di Dio verso l'uomo, il Suo venirgli incontro, è sempre più grande di quanto può essere espresso in parole umane, più grande anche delle parole della Scrittura» (ivi, p. 93).

    Scrittura e rivelazione

    In verità, il compito incompiuto del dopo-Concilio in rapporto alla Bibbia sta proprio in questo rispettarne la collocazione all'interno dell'atto rivelativo di cui è testimonianza. Solo così si evita quella scorretta ed esclusiva equiparazione tra Scrittura e parola di Dio che appartiene a tanto linguaggio ecclesiale corrente e che è indice del distacco crescente tra la Scrittura e la Chiesa, in quanto sottrae alla fede ecclesiale la decisione circa il senso ultimo della Scrittura. Riportata, come vuole il Concilio, al ruolo di testimonianza della Rivelazione, la Scrittura ne costituisce un passaggio essenziale, ma non nega che la Rivelazione si compie solo nell'atto stesso del suo raggiungere la fede del credente.
    Tale collocazione della Scrittura all'interno della Rivelazione non solo ne salvaguarda il rapporto con la Tradizione e con la Chiesa, ma ne garantisce anche quella prospettiva dialogica dell'approccio che elimina in radice i pericoli dei riduzionismi storicistici ed eticistici incombenti oggi nelle letture bibliche. Troppo spesso il cap. VI della Dei Verbum, quello dedicato alla sacra Scrittura nella vita della Chiesa, è stato trattato separatamente dai capitoli precedenti, introducendo confusioni sulla sufficienza della Scrittura e su una sua presunta possibile interpretazione a prescindere dalla fede della Chiesa, confusioni che hanno generato non pochi esiti negativi nel corpo ecclesiale. Occorre riannodare la prassi biblica promossa dal capitolo conclusivo alla totalità della costituzione conciliare e in particolare alla sua radice, espressa nel n. 2 del documento, là dove la Rivelazione è descritta come l'uscire di Dio da sé stesso per entrare in dialogo con gli uomini, al fine di ammetterli alla comunione con sé, attraverso quell'intima connessione storica di eventi e parole che giunge alla sua pienezza nella persona di Cristo. È questa prospettiva storico-salvifica a fondare l'unità di Scrittura e Tradizione e a porre la loro reciproca illuminazione nell'ambito ecclesiale, visto come il contesto di fedeltà in cui la verità rivelata viene garantita nel suo continuo dirsi di fronte alla storia.
    Questa cautela non deve tuttavia far dimenticare la centralità del ruolo della parola scritta nel processo di appropriazione della fede e nella scoperta della sua capacità di illuminare l'esistenza dell'uomo anche oggi. Chi percorre la vita e gli scritti della Chiesa dei primi secoli, il tempo dei Padri della Chiesa, si accorge quanto centrale fosse la Bibbia per l'elaborazione del loro pensiero, così da rendere fecondo l'incontro tra la fede in Gesù Cristo e la cultura del tempo. Se oggi ci è chiesto un supplemento di sforzo per rendere ragione di quanto ancora il Vangelo sia capace di illuminare domande e attese della cultura contemporanea, non dobbiamo dimenticare che fedeltà ed efficacia anche oggi potranno essere salvaguardate solo alimentando le risposte sul terreno del contenuto e del linguaggio biblico. Più Bibbia, nella Chiesa e di fronte al mondo, può essere oggi un concreto programma per la vita e la testimonianza dei cristiani. Nel suo libro sulla nascita del pensiero cristiano Alla ricerca del volto di Dio (Vita e Pensiero, Milano 2006) Robert Louis Wilken afferma: «La Bibbia fece dei cristiani un popolo, e diede loro una lingua» (p. 45). Questo processo ha bisogno di rinnovarsi in ogni generazione e attende anche oggi chi si metta all'opera, perché non siamo separati dalle nostre radici e perché il nostro presente possa ancora dire la verità di Dio e dell'uomo. 

    FEERIA, 2023/2 - n. 64 - pp. 28-33


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