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    Il passato davanti a noi


    Per uno stile di vita all’antica

    Il passato davanti a noi


    Duccio Demetrio *

    Diciamo e udiamo dire a ogni tratto:
    i buoni antichi, i nostri buoni antenati;
    e uomo fatto all’antica, volendo dire
    uomo dabbene e da potersene fidare.
    (Giacomo Leopardi)

    Le forze che spingono questa mano a scrivere
    sono anche il desiderio
    che qualcosa non sparisca,
    che non sia come se non fosse mai stato.
    (Amos Oz)

    Si può “chiudere” con il passato?

    In un denso e recente saggio intitolato A lezione dagli antichi, il filosofo Simon Critchley introduce il tema del problematico rapporto che nella contemporaneità intratteniamo con il passato, storico e personale: «In un mondo – scrive – caratterizzato dall’incontenibile velocità e dall’incessante accelerazione di flussi di informazione che favoriscono l’amnesia e fomentano una sete inestinguibile di futuro a breve termine [...] potremmo pensare di aver chiuso una volta per tutte con il passato, ma dal canto suo il passato non ha affatto chiuso con noi».[1]
    Egli aggiunge che oggi occorrerebbe sempre più tornare a riflettere sul posto che il tempo ormai trascorso può avere in funzione della lettura del presente e delle prefigurazioni del domani. Anche per tentare di rallentare i ritmi frenetici che nuocciono non poco al benessere delle nostre vite in una corsa verso un futuro che gli appare per altro venga affidata ormai in prevalenza «al culto dei nuovi, artificiali dèi della tecnologia». Il passato, nelle sue diverse declinazioni storiche, e nondimeno psicologiche quando riguarda le nostre memorie, è ritenuto da Critchley non una zavorra della quale sbarazzarsi al più presto, quanto piuttosto una presenza costante, ineludibile, seppur sotterranea, inconscia, enigmatica, rimossa. A volte decisamente raccapricciante e disumana. Riaffiora però inaspettatamente in momenti critici e drammatici, come quelli che stiamo vivendo e andiamo attraversando ormai a livello planetario. Disseminati di paure, angosce, smarrimenti, perdite incalcolabili. Quando invece, pur nel bisogno legittimo di guardare oltre il presente e di dimenticare, ogni cura verso le memorie anche recentissime dovrebbe aiutarci a capire in itinere le motivazioni profonde dei nostri comportamenti, a permetterci di ordinare i più diversi “che fare” con più lungimiranza.
    Tanto il passato remoto (ormai storico, non il nostro ma delle generazioni che ci hanno preceduto) e il passato ancora prossimo (connesso ai giorni, che andiamo vivendo nel qui e ora) si meriterebbero ben maggiori attenzioni da par te nostra, per comprenderne soprattutto il valore educativo.
    Dal momento che il nesso tra la vita e l’educazione è sempre molto stretto: forse che i cambiamenti non sono generatori di apprendimenti nelle svolte esistenziali, non siamo forse alla ricerca di conoscenze dinanzi alla perdita di punti di riferimento? Inoltre il filosofo americano individua nella letteratura (romanzesca, drammaturgica, tragica e nella poesia), come in altre forme d’arte, le fonti “antiche e classiche” – oltre a quelle scientifiche – che possono permetterci di «guardare negli occhi ciò che ancora non sappiamo di noi stessi» e che, per nostra fortuna, le memorie conservano a nostra insaputa in una lotta costante con la tendenza ad obliare. Perché siamo noi a respingerle, abituati al pessimo vizio di non interrogarle né durante il succedersi degli eventi, né quando si incistano nei sotterranei della mente e ci chiederebbero di “fare i conti” con loro. A scapito di quella particolare modalità di esplorazione interiore e autobiografica che l’autore – e non è certo l’unico – ci consiglia di intraprendere. Per esercitarci a scoprire, a partire dalla narrazione delle nostre storie, tutta l’importanza del passato; a comprendere quali siano le responsabilità umane e civili che il ricordare (e la “lettura biografica” dei ricordi altrui) ci aiutano a realizzare. Una maggior attenzione verso tutto ciò che è accaduto prima di noi può rappresentare pertanto la via strategica e visionaria, all’apparenza paradossale ma necessaria, per imboccare strade più sicure verso il comune divenire. Come se il passato non fosse rimasto indietro, ma ci precedesse consigliandoci.

    La dimensione etica del ricordare

    Dunque no, non si può rinunciare ad intrattenere un rapporto costante, quasi sempre coraggioso, con la memoria per affrontare degnamente il futuro. Sfogliando altre pagine di Simon Critchley, rispetto al disinteresse che questi nostri difficili tempi vi dedicano, le sue preoccupazioni poi si accrescono.
    Poiché tale disimpegno o noncuranza è sintomo di disumanizzazione, di snaturamento e di perdita delle nostre radici e identità individuali, sociali e di tutti.
    Coloro che invece hanno compreso quanto i ricordi individuali e le memorie collettive alle quali apparteniamo costituiscano le nostre “basi sicure”, in consapevole controtendenza, si trovano nella condizione di poter prefigurare stili di vita e di pensiero che si ispirino a un’etica del passato. Non in quanto ancoraggio a idealità, o sedicenti tali, di carattere conservatore e persino retrivo, bensì piuttosto ravvisabili laddove si miri alla rivalutazione del passato, allo scopo – riprendendo le tesi di Critchley – di decelerare il perseguimento di innovazioni che talvolta ci chiederebbero di intraprendere altri cammini più legati alle tradizioni migliori. Per difendere valori umanitari non negoziabili, in continuità con consuetudini utili e proficue, con quelle passioni, idealità e sentimenti “antichi”, che mettono al centro anche ritualità, premure, condotte che oggi sembrano ormai essere state abbandonate nel dilagare di bassezze e egocentrismi di ogni sorta. E che Italo Calvino individuava nelle nostre migliori attitudini a perseguire invece la ricerca della «leggerezza come reazione al peso di vivere», «come pensosità » e poetica dell’esistenza. Tutti aspetti insiti nell’amore per la vita e in quei piaceri intellettuali non certamente dissipativi e effimeri ma costruttivi poiché visionari e utopistici. I quali, da sempre, traggono non a caso dal passato “migliore” e “nobile” dell’umanità ispirazioni e conferme.
    A dimostrazione nuovamente dell’interesse delle tesi del filosofo, la lettura di queste poche righe di Oliver Sacks, il famoso psichiatra recentemente scomparso e affidate alla sua ultima raccolta di scritti, Il fiume della coscienza, può meglio farci comprendere tutta l’importanza di ristabilire, con il tempo che è già trascorso, una alleanza auspicabile, feconda, utile. Non fosse altro che per portare alla luce i motivi per i quali, come scrive Critchley, quel passato, che pur vorremmo cancellare in tutti i modi, in realtà non abbia alcuna intenzione di alimentare i disincanti dei carpe diem, di quei vivere alla giornata, privi di progettualità, nemici giurati delle facoltà della memoria.
    «Ognuno di noi – scrive Sacks – ha una storia del proprio vissuto, un racconto interiore, la cui continuità, il cui senso è la nostra vita. Si potrebbe dire che ognuno di noi costruisce e vive un racconto, e che questo racconto è noi stessi, la nostra identità. [...] Per essere noi stessi, dobbiamo avere noi stessi – possedere, se necessario ri-possedere, la storia del nostro vissuto». [2] L’affermazione e l’esortazione a «ri-possedere la storia del nostro vissuto» ci sollecita a evitare che il passato “chiuda i conti con noi”. Entrambi gli autori chiamati in causa ci propongono con queste loro constatazioni di non trascurare il passato storico, anche molto antico, che non ci appartiene, è vero, in quanto esperienza, il quale però ha molto da dirci e da insegnarci non più irridendo e tradendo il detto famoso historia magistra vitae.
    Per tale motivo facciamo in modo allora di educarci ad amare il punto di vista storico e autobiografico personale mettendoci alla prova. Nel mostrare più interesse e dedizione per le nostre storie: per non dimenticare, oltre alle origini, i momenti salienti, le persone, i luoghi, le avventure e tanto altro ancora della nostra particolarissima e irripetibile avventura umana. La psicanalisi ci ha spiegato, e molto prima i filosofi greci, che la memoria “lavora” sotterraneamente in ciascuno di noi; accumula inconscio e ce lo restituisce in modi imprevedibili. I ricordi tornano come sogni, atti mancati affettivi o di riparazione, sensi di colpa, rimpianti, ma alcuni posseggono una forza luminosa che ci incoraggia a continuare a vivere; riapparendo nelle nostre scelte e azioni, nel nostro modo di sentire e di aver agito nelle diverse situazioni dell’esistenza.

    Se i ricordi diventano miti

    Ci rammenta un altro importante filosofo spagnolo, Emilio Lledó, che la memoria «è possibilità di sopravvivere, perché è traccia dentro di noi della temporalità della vita.
    Una vita recuperata, che ormai non pulsa più, ma che viene rianimata nell’atto stesso del ricordo, nella coscienza di colui che rende possibile questo ricordo attraverso la parola e soprattutto la scrittura». [3]
    Lo scrivere del passato accende momenti e rimembranze così remote da trasformarle in miti d’infanzia, di giovinezza, in luoghi e paesaggi memorabili che ci hanno visto crescere quando, grazie ad alcuni racconti ascoltati dalla viva voce di qualcuno, ci sembrò di essere entrati a far parte della sua storia. Fortunati sono infatti coloro che hanno avuto l’emozione di poter rivivere fatti, atmosfere, incontri che evocavano, ad esempio, avventure, racconti di guerra, di resistenza, di prigionia, di lotta contro la povertà e l’emarginazione o anche di migrazione. Le memorie così si mitizzarono – ovvero divennero ricordi incancellabili ed esemplari, icone – che mai più ci abbandonarono.
    Possiamo forse, tra gli innumerevoli esempi, aver dimenticato quella solenne ed epica poesia, I mari del sud, di Cesare Pavese, nella quale egli rievocava il ritorno nelle Langhe di un cugino che fece fortuna girando il mondo, dedicandola ai suoi antenati?

    Camminiamo una sera sul fianco di un colle, / in silenzio. Nell’ombra del tardo crepuscolo / mio cugino è un gigante vestito di bianco, / che si muove pacato, abbronzato nel volto, / taciturno.

    Tacere è la nostra virtù.

    [...] Ha incrociato una volta, / da fuochista su un legno olandese da pesca, il cetaceo, / e ha veduto volare i ramponi pesanti nel sole, / ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue / e inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia, / Me ne accenna talvolta...


    Non tutti abbiamo potuto essere iniziati alla vita nell’infanzia e oltre da tali e potenti racconti, come accadde al grande poeta piemontese.

    Ma una cosa è certa: l’amore per la storia, molto spesso, si è acceso in noi – o è meglio dire ormai, si accendeva – quando le capacità oratorie del narratore, di un insegnante anche, riuscivano a restituirci quelle immagini come se le stessimo rivivendo insieme, coinvolgendoci e trasformandole in archetipi, in prototipi, in possibili imitazioni cui ispirarsi. E sappiamo anche che, dal greco, il termine mytos indicava la presenza di un racconto edificante, così affascinante da diventare un autentico incontro con il fiabesco, l’incredibile, lo straordinario. Con il leggendario, con quelle emozioni e incantamenti che soltanto l’incontro con il fantastico può offrirci e che non può più limitarsi di far parte di un episodio storicamente accreditato.
    Piuttosto, a ciò che ci appare onirico, sovrumano, eroico. Ebbene, tutto questo non può che essere ricondotto alla nozione di antico.
    Anch’essa archetipica, che non si lascia equiparare alla parola antichità: un concetto che piuttosto rinvia a datazioni circoscritte, a determinati periodi storici, a scansioni temporali definite cronologicamente.

    Ispirarsi all’antico: per uno stile di vita

    L’antico è parola intrisa di risonanze mitiche, come tutto ciò che resiste ad ogni nostro tentativo di rinchiuderlo in una definizione rigida e certa. Alla categoria di lontananza o distanza non quantificabile, come il poeta e filosofo Antonio Prete ha ben descritto: «Pensare la lontananza – del tempo e dello spazio – è dare una configurazione e un ritmo all’invisibile; è il lontano osservato nel suo movimento verso la ricerca di una rappresentazione»; [4] che però le parole, eccettuate quelle che la poesia riesce a catturare, mai sapranno compiutamente esprimere.
    È a questa parola che dunque ora dedicheremo le nostre osservazioni. In particolare quando da aggettivo essa si trasforma in sostantivo; quando ce ne avvaliamo per evocare uno stato d’animo, l’aspetto di qualcuno, un’atmosfera, un modo di dire e di fare. Momenti nei quali solitamente definiamo “all’antica” quanto vediamo, leggiamo, pensiamo, incontriamo. Con un’espressione corrente che può indicare tanto le caratteristiche di un arredamento, un tipo di gusto estetico, una sensibilità psicologica, quanto il ricondursi alle usanze di un’epoca davvero molto distante dal nostro presente. Per non tacere di certe frasi fatte, all’indirizzo di donne o uomini che vestono e si muovono dotati di un’eleganza spontanea, fuori moda, un po’ casual; che adottano maniere non più o quasi impiegate nel parlare, nello scrivere, nelle circostanze sociali, nei corteggiamenti. Oppure, si tratta di coloro che sul versante morale e comportamentale hanno fama di essere civili, cortesi, ben educati e perbene, coerenti, leali, onesti, mai volgari.
    Definite già due secoli fa da Giacomo Leopardi persone «dabbene di cui potersi fidare». Pronunciare la formula “all’antica” all’indirizzo di chi susciti in noi ammirazione (per saggezza, pacatezza, equilibrio, modestia, riservatezza, generosità, ecc.) però, come ben sappiamo, non sempre esprime oggi qualità comunemente apprezzate. Soprattutto se, come abbiamo sostenuto, l’essere latori di azioni, immagini di sé, virtù e qualità ispirate al passato non rappresenta più un valore, bensì il suo contrario. E, allora, le frasi che possiamo udire pronunciate all’indirizzo di chiunque sembri latore di immagini di sé all’antica possono avere un tono denigratorio, talvolta anche esplicitamente offensivo.
    Tra queste:
    «Quanto è all’antica, è rimasto proprio indietro! Non si dà mai una mossa per stare al passo con i tempi»; oppure: «Non c’è niente da fare, continua a vestirsi come si usava trent’anni fa e i soldi non le mancano...»; «È mai possibile che legga e rilegga sempre gli stessi libri? Per lui il tempo è quello dei “c’era una volta”»; «Mi ha mandato una lettera scritta a mano e spedendola per posta, ma ti rendi conto?!»; «Vive in un mondo tutto suo, che non c’è più, è un inguaribile sognatore romantico e quindi assolutamente inaffidabile».

    Però, chi non disdegni il nostro epiteto e intuisca doti, modi di essere e di fare in chi vi si addica potrebbe invece pronunciare apprezzamenti lusinghieri simili a questi: «Finalmente ho conosciuto una persona come ce ne erano una volta: garbato, sempre cordiale, piacevole da ascoltare, premuroso...
    Non intercala mai quel che dice con qualche scurrilità»; «Non pensavo proprio ci potessero essere ancora giovani come lui: usa raramente il cellulare, e si guarda bene dal telefonare a tavola e tanto meno al ristorante»; «È una ragazza che mi scrive ancora poesie d’amore senza usare WhatsApp, ma ti pare possibile?»; «Sono andata a casa sua; è disseminata di cose bellissime e curiose d’altri tempi, trovate girovagando tra i mercatini d’antiquariato: vecchie foto, ritratti, soprammobili che nessuno usa più... si sta davvero bene in quella atmosfera demodé, è proprio un signore d’altri tempi»; «Abbiamo scoperto una locanda davvero all’antica, per cibo, cortesia, ambienti raccolti...
    Al posto di quei soliti faretti al neon insopportabili, finalmente il gusto fuorimoda della penombra...».
    Frasi fatte queste, certamente, che però corrispondono ad altrettanti indizi lasciati trapelare appena o ben visibili da coloro che forse hanno fatto del proprio sentirsi all’antica uno stile di vita all’insegna della consapevolezza.
    Più che attentamente e accortamente studiato, potremmo ritenerlo soprattutto spontaneo, innato: magari soltanto un poco siglato da passioni amatoriali per le cose della memoria apprese in famiglia o, chissà, invece amate per quelle strane vie inconsce che l’amore per la storia, le memorie personali ci vedono disponibili ad aprire mente e cuore a un passato che non ha affatto intenzione di “chiudere con noi”.
    Per concludere, illuminanti e all’antica sono allora le raccomandazioni del premio Pulitzer Nicholas Carr, il quale nel suo ultimo libro Internet ci rende stupidi? così esterna le sue preoccupazioni: «Non siate schiavi del cellulare. Staccate un attimo.
    Prendetevi il tempo per passeggiare, per leggere un libro, ascoltare musica intensamente, per parlare senza controllare il telefonino. Datevi modo di prestare attenzione, di concentrarvi, di riflettere; di scrivere a mano i vostri ricordi o il diario per il puro piacere di farlo». [5] Chi già si sia trovato ad adottare prima e durante la pandemia questi semplici rimedi di buonsenso quotidiano, forse, avrà sofferto meno di solitudine e, senza saperlo, si sarà avvicinato all’estetica, alle sensibilità e ai valori dell’essere all’antica e dell’attenzione al passato incurante di andar controcorrente.

    NOTE

    1) S. Critchley, A lezione dagli antichi. Comprendere il mondo in cui viviamo attraverso la tragedia greca, tr. it. Mondadori Libri, Milano 2020, p. 5.
    2) O. Sacks, Il fiume della coscienza, tr. it. Adelphi, Milano 2020, p. 42.
    3) E. Lledó, Il solco del tempo, tr. it. Laterza, Roma-Bari, 1994, p. 55.
    4) A. Prete, Trattato della lontananza, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 9.
    5) N. Carr, Internet ci rende più stupidi? Come la rete sta cambiando il nostro cervello, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2011, p. 59.

    * Già professore ordinario di Filosofia dell’educazione e della narrazione alla Bicocca di Milano Fondatore e direttore della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari e dell’Accademia del silenzio

    (FONTE: Notiziario della Banca Popolare di Sondrio n. 145, aprile 2021)


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