Attesi dal suo amore
    Proposta pastorale 2024-25 

    Materiali di approfondimento


    Letti 
    & apprezzati


    Il numero di NPG
    settembre-ottobre 2024
    600 cop 2024 2


    Il numero di NPG
    luglio-agosto 2024


    Newsletter
    settembre-ottobre 2024
    NL sett ott 24


    Newsletter
    luglio-agosto 2024


    P. Pino Puglisi
    e NPG
    PPP e NPG


    Pensieri, parole
    ed emozioni


    Post it

    • On line il numero di LUGLIO-AGOSTO di NPG sul tema degli IRC, e quello SPECIALE con gli approfondimenti della proposta pastorale.  E qui le corrispondenti NEWSLETTER: luglio-agostospeciale.
    • Attivate nel sito (colonna di destra "Terza paginA") varie nuove rubriche per il 2024.
    • Linkati tutti i DOSSIER del 2021 col corrispettivo PDF.
    • Messa on line l'ANNATA 2021ANNATA 2021: 122 articoli usufruibili per la lettura, lo studio, la pratica, la diffusione (citando gentilmente la fonte).
    • Due nuove rubriche on line: RECENSIONI E SEGNALAZIONI. I libri recenti più interessanti e utili per l'operatore pastorale, e PENSIERI, PAROLE

    Le ANNATE di NPG 
    1967-2024 


    I DOSSIER di NPG 
    (dall'ultimo ai primi) 


    Le RUBRICHE NPG 
    (in ordine alfabetico
    e cronologico)
     


    Gli AUTORI di NPG
    ieri e oggi


    Gli EDITORIALI NPG 
    1967-2024 


    VOCI TEMATICHE 
    di NPG
    (in ordine alfabetico) 


    I LIBRI di NPG 
    Giovani e ragazzi,
    educazione, pastorale

     


    invetrina2

    Etty Hillesum
    Una spiritualità per i giovani Etty


    Semi e cammini 
    di spiritualità
    Il senso nei frammenti
    spighe


    I SEMPREVERDI
    I migliori DOSSIER NPG
    fino al 2000 


    Animazione,
    animatori, sussidi


     

    Un giorno di maggio 
    La canzone del sito
    Margherita Pirri 


    WEB TV





    Etica e strategie del reincanto

    Alberto Meschiari

     


    1. Per un'etica del reincanto

    Il disincanto è ciò che contraddistingue il modo di condurre la vita dell'uomo massificato, che non guarda mai con i propri occhi e non ha alcuna curiosità per il mondo che lo circonda. Lo sguardo disincantato è uno sguardo nichilista e ha di mira solo la soddisfazione del proprio egoismo. Da questo punto di vista, individualizzarsi significa reagire al vuoto esistenziale e scoprire i motivi di incanto che la vita sa ancora offrire. E questo il messaggio che Alberto Meschiari rivolge attraverso i suoi libri, sviluppando un suo progetto per una nuova etica del reincanto.

    Nel castello di Barbablù

    Le fiabe, come sappiamo, parlano per immagini del nostro inconscio, delle nostre paure, dei riti di iniziazione, delle prove che dobbiamo affrontare per crescere. Penso a quelle classiche di Andersen, dei fratelli Grimm, a Biancaneve, Cenerentola, Cappuccetto Rosso. In Donne che corrono coi lupi (Sperling&Kupfer, Milano 2016), Clarissa Pinkola Estés reinterpreta la fiaba di Barbablù, che ha ucciso una dopo l'altra le sue sei mogli. Grazie alla sua ricchezza, riesce da ultimo a sposare ancora una giovinetta. La quale si lascia convincere in un primo tempo che in fondo il suo sposo non è poi così cattivo come viene dipinto. Ora, in procinto di partire per un viaggio, lui le affida un mazzo di chiavi. Sono le chiavi delle stanze del suo castello. Lei potrà usarle tutte tranne una, quella che apre la porta della cantina, che lei non dovrà violare in nessun caso. In quella cantina, infatti, Barbablù tiene nascosti gli scheletri delle sue precedenti mogli. Fuor di metafora, quella chiave – così interpreta l'autrice – apre la porta della consapevolezza, della scoperta della verità su Barbablù. Se la giovane sposa obbedirà al divieto e non avrà il coraggio di servirsene, resterà prigioniera di una magia e finirà come le altre. Se invece saprà trasgredire al divieto, scoprirà il terribile segreto del suo sposo e la sorte che attende chi ha paura di prendere consapevolezza.
    Come Barbablù, il modello sociale in cui siamo inseriti ci esorta a diffidare della psiche istintuale che vorrebbe conoscere la verità. Non fanno forse così il mercato, la pubblicità, lo stile di vita che conduciamo? Ci stornano continuamente dall'ascoltare la nostra psiche, le verità che essa vorrebbe rivelarci. Come la giovane sposa della fiaba, anche noi dobbiamo trovare il coraggio di chiederci: perché ci impedisce di vedere ciò che vi è di sbagliato in questo modello di vita fondato sul consumismo, il denaro, le merci, sull'apparire, sul mito del facile successo?
    Ce lo impedisce perché dietro i suoi allettamenti cela la nostra distruzione, il furto della nostra esistenza. Soggiacere alle seduzioni degli stili di massa paralizza il processo della nostra individualizzazione, inibisce la costruzione della nostra unicità, della nostra creatività, la possibilità del nostro sviluppo armonico. Quelle ossa nella cantina di Barbablù rappresentano metaforicamente le nostre vite mandate fuori strada. Dovremmo prestare molta attenzione ai sogni che facciamo nel sonno, cercare di trattenerli e di analizzarli, perché nei sogni la nostra psiche ci mette in guardia dai pericoli che ci minacciano. Impariamo ad ascoltarci! Ascoltarsi è fondamentale per trovare la propria strada nella vita. Altrimenti, ci sarà sempre qualcuno che come Barbablù, sequestrerà la nostra esistenza per il suo tornaconto. Frequentiamo i poeti! Impariamo ad ascoltare le nostre emozioni, i nostri sentimenti, perché non ci si può orientare nella navigazione della vita con le sole informazioni, con il solo intelletto. C'è una saggezza nelle emozioni, nei sentimenti, nell'amore, una bussola, che nel sapere intellettuale non c'è.

    Prendere i venti del destino

    Viene per tutti il momento in cui si fa sentire con maggiore o minore chiarezza una domanda fondamentale: come devo condurre la mia vita? Come tanti della mia generazione, che era giovane negli anni Settanta del secolo scorso, anch'io, lasciandomi alle spalle l'adolescenza, lessi e amai l'Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters: una curiosa raccolta di poesie in forma di epitaffi, che raccontano i destini degli abitanti ormai trapassati di un villaggio degli Stati Uniti. Ce la fecero conoscere la traduzione di Fernanda Pivano e le canzoni di Fabrizio De André. Quelle poesie parlano tutte del senso dell'esistenza e delle nostre azioni, dei destini che noi stessi ci fabbrichiamo giorno dopo giorno con i nostri gesti, i nostri pensieri, le nostre frequentazioni. Più di tutte mí tormentava la confessione di un certo George Gray: «Molte volte ho studiato / la lapide che mi hanno scolpito: / una barca in un porto, con le vele ammainate. / In realtà essa non raffigura la mia destinazione / ma la mia vita. / Perché l'amore mi sí offrì e io mi ritrassi dal suo inganno; / il dolore bussò alla mia porta, e io ebbi paura; / l'ambizione mi chiamò, ma io temetti gli imprevisti. / Malgrado tutto avevo fame di un significa-to nella vita. / E adesso so che bisogna alzare le vele / e prendere i venti del destino, / dovunque spingano la barca. / Dare un senso alla vita può condurre a follia / ma una vita senza senso è la tortura / dell'inquietudine e del vano desiderio – / è una barca che anela al mare eppure lo teme».
    Cercavo di capire cosa dovessi fare per prendere i venti del destino e non sprecare la mia vita ormeggiato in porto con le vele ammainate. Non è facile sapere una cosa così a diciott'anni o a venti. Dove soffiano per me? – ti chiedi – come faccio a riconoscerli? Chi va per mare sa che a volte bisogna portarsi al largo per trovare quel vento che sotto costa non soffia. Il conformismo è metaforicamente proprio quel sotto costa dove il vento non soffia. Ora, fra il catturare i venti del destino e la realizzabilità di un reincantamento c'è una stretta correlazione. Bisogna imparare a sentire la vita come apertura, avventura, disponibilità. Allora comincerà a cambiare anche il nostro sguardo sul mondo.
    Cosa significa prendere i venti del destino? Significa cercare la propria strada. Nel migliore dei casi, ascoltando un sia pur esile richiamo interiore. Non è semplice oggigiorno, in mezzo al labirinto delle pubblicità, dei falsi maestri, dell'istrione di turno, delle opinioni altrui, dei luoghi comuni e delle frasi fatte che costituiscono troppo spesso l'unico linguaggio conosciuto dagli adulti, genitori compresi. Bisogna imparare ad ascoltare sé stessi. Perché la nostra strada potrebbe non coincidere con la strada maestra su cui vanno tutti, potrebbe rivelarsi un sentiero impervio e tortuoso, che richiede di liberarsi dai ricatti affettivi di chi ci sta più vicino e pensa di decidere del nostro futuro per il nostro bene. Ed è questa la cosa più difficile e dolorosa. Ciò che dobbiamo temere di più, avvertiva Thomas Merton, è di mancare la nostra verità più personale e più intima, di essere trasportati da ciò che ci s'impone dall'esterno. L'ambiguità peggiore è l'illusione che si possa essere sleali verso la vita, le esperienze, l'amore, il prossimo, la propria anima, e ciò nonostante essere "salvati" da atti di conformismo (cfr. T. Merton, Scrivere è pensare, vivere, pregare, Garzanti, Milano 2001).
    Quando arriva il momento di lasciarti alle spalle l'adolescenza, è come se tu ti trovassi improvvisamente in quel bosco di Grib di cui parla il filosofo danese Søren Kierkegaard (In vino veritas), nel punto d'incrocio degli otto cammini, e non avessi alcuna idea di quale imboccare per andare avanti. Quale prendo? – ti chiedi. Quale sarà quello giusto?
    Quei diversi cammini rappresentano un ventaglio di possibilità di fronte alle quali compiremo comunque una scelta. Dove ci condurrà, crescendo? A sviluppare le nostre potenzialità latenti? A far emergere la nostra personalità? Oppure ad allontanarci sempre più da noi stessi, adeguandoci ogni giorno un po' alle aspettative altrui? Non scopriremo mai la nostra identità accodandoci ai comportamenti di massa. La nostra identità la troviamo solo nella misura in cui la costruiamo facendo delle scelte. Vale a dire: alzando le vele, uscendo dal porto e mettendoci sul mare aperto. Il conformismo ci trattiene all'ormeggio, dove non scopriremo mai chi siamo.

    Costruire il senso della propria vita

    Diversi anni fa fui invitato a coordinare una sfida fra le ultime classi di alcuni licei pisani al Palazzone di Cortona. A un certo punto della serata qualcuno, un attore di teatro, mi pare, si alzò e disse ai ragazzi: ricordatevi sempre che voi avete un tesoro dentro, e che il vostro compito nella vita è di portarlo alla luce. Quest'affermazione mi lasciò alquanto perplesso, aveva tutta l'aria di essere una delle tante frasi a effetto che rischiano di mandarci fuori strada. Mi bastò poco per capire il perché. Salvo rarissime eccezioni fortunate, noi non abbiamo alcun tesoro dentro di noi, solo da portare alla luce. Quel tesoro dobbiamo prima mettercelo, quotidianamente, pazientemente, con le nostre scelte e il nostro impegno, senza la fretta di voler essere già arrivati, se vogliamo un bel giorno trovarcelo. Diversamente, dentro di noi incontreremo soltanto il vuoto, l'inconsistenza, la noia, e non sapremo rispondere alla domanda: che senso ha la mia vita?
    Quand'ero ragazzo, ideologie e religioni fornivano a molti l'idea di una direzione della storia, e quindi un senso collettivo in cui ciascuno poteva riconoscersi e trovare una propria collocazione. La religione, nella salvezza dell'anima e perfino in una vita eterna in un qualche problematico aldilà. Le ideologie, nella società socialista senza più classi, senza sfruttati e sfruttatori. Ma, crollate le ideologie, se non si era credenti dove si sarebbe andati a cercarlo quel senso? Quando tramontarono quelle ideologie politiche, in cui in una certa misura anch'io mi ero coinvolto in gioventù, quando si spensero quei "lanternoni", come li chiama Pirandello (Il fu Mattia Pascal), che tentavano di illuminare il corso della sto-ria, scoprii con gioia che non ero rimasto orfano, che non mi trovavo improvvisamente al buio, perché dentro di me avevo acceso frattanto i miei "lanternini": i miei poeti, scrittori e filosofi. Quelli che, se non illuminavano le grandi epoche, mi permettevano almeno di gettare un po' di luce sulla condizione umana, che, come dice Montale, è il vero argomento di ogni poesia. Quel senso che era venuto a mancare sul piano collettivo, spettava ora a ciascuno darlo alla propria esistenza. E allora mi chiesi dove mai si potesse trovare un senso individuale, un significato individuale alla propria vita. E mi parve di poterlo indicare nel processo della propria individualizzazione, della costruzione di sé. E scoprii che quando ci si mette su questa strada, il futuro c'è sempre, anche a cinquant'anni o a sessanta, e più in là ancora. E come lo diamo questo senso alla nostra esistenza? Costruendolo passo dopo passo, correggendo ogni volta un po' il tiro quando ci accorgiamo di essere fuori strada, con piccoli aggiustamenti parziali. Oppure con un "gesto" coraggioso, che dia al nostro cammino una sterzata e un'impronta ben definita, come fece Søren Kierkegaard, invece di disperdere la nostra identità ín mille rivoli insignificanti e privi di spessore (György Lukács, Quando la forma si frange sugli scogli dell'esistenza), facendo delle scelte, dando delle priorità. «Non abbiamo mai cercato noi stessi», scrive Friedrich Nietzsche nella prefazione alla Genealogia della morale, «come potrebbe mai accadere che ci si possa, un bel giorno, trovare?». E come facciamo a sapere che ci troviamo sulla nostra strada? Quando sentiamo di essere in armonia con noi stessi. Non è un obiettivo ravvicinato. Personalmente, ho incominciato ad avvertire questa armonia intorno ai cinquant'anni. Tutti abbiamo delle potenzialità, questo sì, ma vanno trasformate in atto, mettendoci alla prova nelle esperienze, perché è solo nelle esperienze che scopriamo chi siamo. Dare un senso alla propria vita è il compito più impegnativo che ciascuno abbia davanti, ma anche il più entusiasmante. E solo questo impegno procura soddisfazione, autostima, fiducia e perfino felicità. Meno ci impegniamo e più saremo insoddisfatti di noi stessi, più ci sentiremo vuoti e inconsistenti.
    A colmare la mancanza di un significato della vita (l'espressione è di Viktor Frankl), il vuoto esistenziale, non bastano un'occupazione qualsiasi e uno stipendio, dei soldi da spendere per lo svago e il divertimento. Se non c'impegniamo a cercare noi stessi e a conoscere noi stessi, la nostra natura, a realizzare il nostro daimon, come lo chiamavano gli antichi Greci, se trascuriamo di prenderci cura della nostra interiorità, quel vuoto esistenziale si farà sempre più grande. E da quel vuoto, dal fatto di vivere costantemente fuori di noi una vita non nostra, di recitare un copione poco impegnativo scritto da altri per noi, discendono la nostra inconsistenza, il nostro malessere, il nostro disagio, la nostra insoddisfazione. Perfino la nostra aggressività. Perché, come potremmo provare entusiasmo per una vita di cui non abbiamo il comando? Ecco il senso del romanzo di Conrad La linea d'ombra. È di questo che parla la novella di Pirandello La carriola. Ma io chi sono? Cosa so fare? In che cosa ho talento? Come scopro le mie capacità? Come posso esprimere al meglio la mia personalità, ciò per cui mi sento versato? È questo il tema del film L'attimo fuggente. Trovare una risposta a queste domande è il compito e l'essenza stessa della vita. Non importa che si miri a diventare ingegnere o cantante, astronauta o pasticciere, a coltivare tulipani o a preparare confetture di amarene. L'importante è che quell'attività sappia destare in noi tutta la nostra passione. Perché è nella passione che sta racchiuso il nocciolo della nostra felicità. Quando, insomma, nell'attività che avremo scelto ci sentiremo sommamente creativi. «Sempre più (e per mia fortuna) vivo l'esistenza del nocciolo nel frutto», scriveva Rilke in una lettera a Julie von Nordeck il 10 agosto 1907, «che ordina attorno a sé tutto ciò che ha, traendolo fuori da sé nell'oscurità del suo lavoro. E sempre più mi rendo conto che vivere così è la mia unica via d'uscita».

    Per un'etica del reincanto

    È di questi temi che si occupa la mia etica del reincanto. Che riguarda in primo luogo il processo della individualizzazione, del diventare individui, del diventare sé stessi. Lo storico Jakob Burckhardt vide nel Rinascimento italiano la culla dell'individuo. Dovremmo ricordarci con orgoglio di questo nostro passato, e tenerlo sempre presente, perché individualità – che non va confusa con l'individualismo, che è invece egoismo – significa pensare con la propria testa, esercitare un pensiero critico, non lasciarsi sedurre dai comportamenti e dagli stili di massa. Promuovere la libertà degli individui è il più grande obiettivo e il più grande valore di una democrazia autentica e non di facciata. Mentre oggi le nostre società stanno producendo masse di conformisti, e perfino plebi, anziché liberi individui. E quale sia la psicologia delle masse ce lo ha spiegato Gustave Le Bon verso la fine dell'Ottocento (Psicologia delle folle), ripreso da Freud nel 1921 (Psicologia di massa e analisi dell'Io). E quale sia la funzione delle plebi ce lo ha mostrato lucidamente Hannah Arendt nel suo studio fondamentale Le origini del totalitarismo.
    Con il volumetto A cosa serve la filosofia nella vita? iniziai il percorso che mi avrebbe condotto all'etica del reincanto. Il primo libro che scrissi sull'argomento fu Riprendersi la vita. Per un'etica del reincanto. Perché "riprendersi la vita"? Ce l'ha forse rubata qualcuno? E se sì, di quale vita si tratta? E chi ne è il ladro? Barbablù. I più giovani non possono sapere che gli è stata rubata, possono solo manifestare questa percezione sotto forma di un disagio (i cui esiti estremi sono quotidianamente sotto i nostri occhi: anoressia, obesità, hikikomori, cutters, disturbo dell'attenzione e iperattività motoria, difficoltà relazionali, aggressività, droghe, suicidio), perché non hanno conosciuto modelli di vita alternativi con cui confrontarsi. Ma chi ha la mia età, ha attraversato altre realtà, non ancora pervase come una metastasi dal cancro della sottocultura delle merci e del consumismo, che se ha prodotto un certo grado di benessere economico, ha però devastato la natura, modificato il clima e i rapporti fra gli uomini, ridotto le città a un mondo invivibile di motori e veleni. Ciò che ci è stato rubato sono quegli orientamenti che potevano proteggerci da una crescente disumanizzazione.
    Il termine reincanto si oppone evidentemente a quello dí disincanto o "disincantamento del mondo" (Entzauberung der Welt), con cui Max Weber indicò all'inizio del Novecento il processo di intellettualizzazione e razionalizzazione caratteristico della modernità (La scienza come professione). Per disincanto io intendo oggi il modo di condurre la vita proprio dell'uomo massificato, conformato, chenon guarda mai con i propri occhi, che non ha alcuna curiosità per ciò che lo circonda. Lo sguardo disincantato è uno sguardo che non distingue i colori della vita, uno sguardo per il quale tutto è indifferentemente grigio, che ha di mira solo íl proprio interesse, la soddisfazione del proprio egoismo, e non ha rispetto per nulla. Da questo punto di vista, individualizzarsi significa allora sottrarsi al conformismo e scoprire i motivi di incanto che la vita sa ancora offrire e che soli possono appagarla. La nostra anima, dice James Hillman, è anche fuori di noi, e se non impariamo a trovarla in ogni forma di bellezza, nelle relazioni, nella natura, nell'arte, nella poesia, finisce che andiamo a cercarla nei messaggi che ci scambiamo, vale a dire sui cellulari, sugli smartphone. Perché è questo che cerchiamo quando stiamo chini su questi aggeggi: la nostra anima, la nostra verità. Cerchiamo una risposta alle domande: chi sono? Cosa devo fare? Come si trova la felicità? Ma è evidente che non la troveremo nella tecnologia, come non la troveremo in uno stile di vita tutto ripiegato sulle cose, sullo svago e sull'effimero, sul rumore e la disattenzione. Ricordiamoci di Barbablù: bisogna prendere consapevolezza di ciò che ci accade, non nascondere la testa sotto la sabbia per non vedere il pericolo, come fanno gli struzzi. O ci ruberà la vita fino all'ultimo giorno. La sola che abbiamo. Ed è a maturare questa consapevolezza che dovrebbero servire la scuola, la lettura, lo studio. Altrimenti saremo perduti.
    Quando incominciai a elaborare questa mia etica vent'anni fa, guardandomi attorno mi parve di riconoscere una sempre più diffusa obesità del corpo sposata a una complementare anoressia dello spirito, in adulti e ragazzi, in genitori e figli. E questa malattia silenziosa, questo disagio strisciante è andato via via crescendo col tempo e la progressiva distruzione di valori: niente ci colpisce profondamente, niente ci tocca veramente, tutto ci è indifferente allo stesso modo. Cí ha insegnato Barbablù a essere così cinici. Ostentiamo perfino con sfrontatezza il nostro disincanto come un segno di virilità e di pretesa emancipazione. Mentre è solo un segno di pochezza interiore, di inconsistenza. Non sappiamo più riconoscere fuori di noi un riflesso della nostra anima: in un gesto di gentilezza gratuito, un'amicizia, una relazione, un fiore di campo, un paesaggio, un profumo, un verso poetico, un sorriso, un sentimento. Barbablù si interessa di noi solo in quanto consumatori di merci. Mentre ciò che ci fa consumare in primo luogo sono proprio le nostre esistenze.

    Corpo, mente e spiritualità

    Presi nell'ebbrezza del consumismo, abbiamo trascurato e poi abbandonato del tutto la cura della nostra interiorità, della nostra spiritualità, diciamo pure della nostra "anima" (col qual termine intendo riferirmi alla nostra capacità relazionale, empatica, comunicativa: emozioni, sentimenti, affetti, valori, ideali, fede in qualcosa che trascenda il qui e ora, il mero utile, il calcolabile, l'effimero non riguardano propriamente né il corpo né la mente, ma appartengono a, o meglio costituiscono per me ciò che chiamo "anima"), come se fosse un accessorio superfluo nella costruzione della personalità o una zavorra che rallenti la frenesia con cui ci affanniamo a tenere il passo del mondo. Ci dimentichiamo facilmente di non essere solo corpo e mente, ma anche spiritualità, interiorità, anima appunto, e viviamo come se non fossimo toccati da questa dimensione dell'esistenza. Perfino la scuola sembra avere abdicato alla sua funzione primaria: ci imbottisce la mente di informazioni in cui perdiamo facilmente l'orientamento, ma pare sempre meno capace di nutrire la nostra anima, di appagare il nostro bisogno di spiritualità. Discende in gran parte da qui il nostro malessere: dal trascurare, misconoscere e perfino dileggiare la nostra dimensione spirituale, l'interiorità. Dal non ascoltare mai la nostra anima profonda. Viviamo costantemente in superficie, siamo assenti a noi stessi per gran parte della nostra vita o per tutta, come se il nostro corpo e la nostra mente fossero case disabitate, abbandonate dal loro inquilino. La vita è anche una questione di equilibrio fra corpo, mente e spiritualità.
    Ora, ciò che maggiormente ci identifica nel processo di individualizzazione è proprio l'elemento spirituale, che è anche il terreno della formazione. Quando trascuriamo di ascoltare e di nutrire la nostra spiritualità, allora stiamo male, perché non ci riconosciamo: è come se non esistessimo soggettivamente, come se fossimo soltanto degli automi che agiscono freneticamente e scompostamente in base a degli schemi standardizzati, o delle marionette manovrate dal Grande Fratello (l'espressione è di George Orwell nel romanzo 1984).
    In questa età ipertecnologica e frettolosa, che tutto rimescola e tutto confonde in un minestrone indistricabile, stordendoci e mandandoci fuori strada a ogni passo, abbiamo smarrito il contatto con la nostra interiorità, con la lentezza dei processi psicologici, con il raccoglimento necessario alla identificazione delle emozioni e all'elaborazione delle esperienze. Viviamo in una condizione di continua attenzione parziale a mille cose diverse contemporaneamente, mai di concentrazione profonda su un unico compito veramente importante. E la nostra vita è il primo e il più importante dei compiti, perché la vita è un compito, non un dato. Non dovremmo mai dimenticarlo. Non confondiamo l'esistere autenticamente con la banale abitudine a essere al mondo. L'esserci (Dasein, nella terminologia di Martin Heidegger) è l'immediatezza, l'essere gettati nel mondo, l'esistenza banalizzata, che non si fonda e non si giustifica, il trovarci dispersi nella massa anonima senza mai conquistare noi stessi. Per esistere veramente è necessario insorgere dalla folla, dalla massa indistinta, e fondarsi come individui. ^

    FEERIA, 2022/2 — n. 62 - pp. 10-15


    2. Strategie del reincanto

    Il principale problema spirituale del nostro tempo è che la vita, anche a dispetto delle possibilità a nostra disposizione, appare vuota e priva di senso. L'economia di mercato sembra aver "rubato" le nostre esistenze. Stiamo vivendo, di fatto, quello che Max Weber definiva il disincanto del mondo. Dopo aver tracciato i lineamenti della sua "etica del reincanto" (cfr. «Feeria» n. 62), Meschiari suggerisce alcune strategie per "riprendersi la vita": il dialogo, il silenzio, l'ascolto, il nutrimento della propria umanità.

    Il dialogo

    Come ci ha insegnato Martin Buber, l'uomo è per natura un essere dialogico, sempre nella relazione Io-Tu. Chi cerca il dialogo, lo fa perché gli manca, perché ha bisogno di esprimersi e di mettere ordine nella propria vita. Perché ha bisogno di darle un senso e una forma. E può farlo solo socialmente, entrando nel dialogo con l'altro. E se non trova questo interlocutore nel genitore, in un amico o amica del cuore, in un diario, prima o poi finirà dallo psicoanalista, che pagherà affinché lo ascolti. Oppure si chiuderà in sé stesso. Scambiare messaggi non è ancora dialogo, ma solo un modo di gridare che si ha un disperato bisogno di ascolto. È il messaggio nella bottiglia lanciato da un naufrago nel mare della solitudine.
    Per conoscere sé stessi, la propria verità nascosta, che spesso non ha parole per dirsi, occorre innanzitutto avviare un dialogo con sé stessi. E dunque imparare ad ascoltarsi (primo passo per imparare ad ascoltare gli altri). E per fare questo bisogna preliminarmente ritagliarsi dei momenti di raccoglimento e silenzio, di presa di distanza anche mentale dal continuo coinvolgimento con gli altri, da una vita troppo frenetica e promiscua.
    Colui che per mancanza di dialogo soffre di un oscuro malessere, che finisce talvolta per emarginarlo in un rifiuto della società e delle relazioni, troverà risposta al suo problema solo ed esclusivamente in quel dialogo che verte su domande fondamentali. Poche, in fondo, e le stesse per tutti: chi sono io? che cosa so di me stesso? come devo condurre la mia vita? cosa devo fare per stare bene con me stesso? come vorrei che fossero le relazioni? come si trova la felicità? Il dialogo ha sempre a oggetto l'esistenza, non lo scambio d'informazioni, i risultati delle partite di calcio o la soluzione dei problemi quotidiani. Quando riusciamo a dialogare autenticamente, abbiamo la sensazione di essere finalmente accolti nel mondo dai nostri simili, sentiamo spalancarsi le finestre della nostra vita, da cui il nostro sguardo può spaziare su orizzonti più vasti, trovare comprensione, condivisione e perfino orientamento.

    Il silenzio

    l silenzio è la condizione della scoperta e dell'esplorazione della nostra interiorità. Il silenzio permette all'anima di salire alla superficie e di mostrarsi. Nel rumore, al contrario, l'anima se ne sta rannicchiata in qualche recesso buio e sconosciuto perfino a noi stessi. Muta, ma irrequieta, in attesa di ricevere attenzione, di essere ascoltata, di poter parlare. E quando non è ascoltata per lungo tempo, l'anima manifesta la sua sofferenza sotto forma di disagio, di noia esistenziale, di ribellione anche violenta, di aggressività.
    Troppo spesso viviamo senza nemmeno prendere coscienza di averne una, senza tenere conto di essere anche interiorità. Disincantati a oltranza, evitiamo deliberatamente di curare la nostra spiritualità, ci premuriamo dí mancare all'appuntamento con noi stessi, finendo col provare una crescente insoddisfazione, di cui non riusciamo a spiegarci l'origine. Il bisogno continuo di rumore è già di per sé rivelatore del fatto che ci sottraiamo a questo compito. Non ci si può ascoltare nel rumore. Il silenzio non è semplicemente assenza di rumore, la negazione di qualcosa, ma un valore positivo, è una dimensione dell'esistenza, una modalità del rapportarsi a sé stessi, agli altri e al mondo. Chi fa rumore si chiude a ogni comunicazione autentica. Nel rumore non si vede niente, perché noi vediamo con l'anima, non solo con gli occhi. Per vedere bisogna voler vedere. Mi piace l'immagine del silenzio come soglia, di cui parla Enzo Bianchi. Il silenzio è soprattutto la fine di una forma di cecità, di inconsapevolezza, la fine di uno stile di vita allo sbando, che non sí fonda, che non mette radici. È la fine del semplice esserci, della acritica abitudine all'essere al mondo. In tal senso, il silenzio è soglia verso l'esistenza, che si distingue dal semplice vivere perché esistere è una scelta consapevole, la decisione di emergere dall'indistinzione, dal numero, dalla massa. La vita non è qualcosa che ci capita soltanto, ma qualcosa che possiamo anche volere.
    Il rumore è ampiamente usato come espediente di marketing per stimolare il consumo nei bar, nelle birrerie, nella movida. Detto volgarmente, il rumore vende. Queste tecniche di marketing sono finalizzate a omologare i comportamenti e a limitare lo sviluppo dell'individualità. Resistervi, quindi, è una presa di posizione etica e perfino politica. Nel meccanismo perverso rumore-consumo vige un divieto: non dovete pensare! Concordo nuovamente con Enzo Bianchinella convinzione che il rumore abbia un ruolo determinante nel crescente processo di disumanizzazione in atto. Quanto più il silenzio viene calpestato, tanto più è improbabile che il lato migliore della nostra natura possa affermarsi. Il rumore è aggressivo, produce un ambiente più ostile, un crescente nervosismo, una crescente disposizione all'intolleranza. E quando si è perduto il controllo del rumore, la qualità della vita si deteriora. I luoghi del rumore sono la culla della massa e perfino della plebe.

    Camminare

    La pratica del camminare, dell'andar per monti e per boschi, è un modo straordinario di ritagliarsi momenti di silenzio, momenti per stare con sé stessi e ascoltarsi. Per di più è un'esperienza che amplia enormemente il proprio sguardo, gli orizzonti di vita. A vivere in spazi ristretti si finisce col diventare miopi dentro. I grandi orizzonti, al contrario, nutrono il sentimento dell'oltre, il sentimento che l'esistenza non è quella poca cosa in cui ci imprigionano un certo modello sociale, certi stili di vita, le convenzioni o una certa mentalità (Claudio Magris, Danubio). Camminare rimette in movi-
    mento tutto ciò che ristagna. Quando cammini, sen-
    ti che anche la tua vita riprende a camminare insieme a te. Camminare è un rimedio contro il male di vivere, contro la malinconia e la depressione. Insegna a stare bene con sé stessi, a spogliarsi del superfluo e a portare con sé solo l'essenziale, nello zaino come nella vita. Bruce Chatwin osservava che passiamo troppo tempo in stanze chiuse. E l'uomo che passa troppo tempo al chiuso finisce col cercare nell'alcol e nelle droghe quei viaggi che non è più capace di fare con le proprie gambe. «Le droghe sono veicoli per gente che ha dimenticato come si cammina» (Anatomia dell'irrequietezza). Stare chiusi in una stanza non aiuta a guardare la vita dall'alto, in una prospettiva panoramica, e si finisce col praticare l'onfaloscopia, ossia la contemplazione del proprio ombelico. Stare chiusi in una stanza conduce ad attribuire troppa importanza a ogni minima pena, a ogni sintomo di malanno, reale o immaginario. Jean-Jacques Rousseau affidò alle sue Confessioni questa annotazione: «Non ho mai tanto pensato, tanto vissuto, mai sono stato maggiormente me stesso [.. l quanto in quei viaggi che ho compiuto da solo e a piedi. La marcia ha qualcosa che anima e ravviva le mie idee: non posso quasi pensare quando resto fermo». Anche Friedrich Nietzsche diffidava dei pensieri che non siano nati all'aria aperta e in movimento, e considerava i pensieri sedentari potenzialmente malati (Ecce homo).
    Camminare è un modo privilegiato di conoscersi. Tutti i grandi camminatori e alpinisti condividono quest'idea. E molti insistono su un altro aspetto fondamentale: la montagna è una grande scuola di assunzione di responsabilità. Manolo estende il discorso all'ambito sociale e politico. Un modo per svuotare l'individuo e renderlo capace di accettare tutto quello che gli è imposto, scrive, è togliergli la possibilità di acquisire l'esperienza che lo porti a esercitare il proprio spirito critico. Concordo pienamente con lui, quando afferma che la profonda crisi morale che stiamo vivendo è dovuta anche alla continua e crescente deresponsabilizzazione dell'individuo. Sembra che le istituzioni, perfino la scuola e l'Università che dovrebbero educare la nostra individualità, si trasformino sempre di più in ancelle del mercato, il quale ha bisogno di gregari, di conformisti, di consumatori, non di cittadini pensanti e responsabili.
    Se non troviamo il modo di «sublimare l'esuberanza delle forze fisiche ed emotive», osserva a sua volta Reinhold Messner, «nasce nell'animo il cancro della vita vuota di significato». L'adolescenza e la giovinezza hanno bisogno di vivere il lato epico della vita, di mettersi alla prova, di confrontarsi, di provare il proprio coraggio. Ciascuno, ovviamente, secondo le proprie capacità. È vitale. Quando superi una prova difficile, la gioia ti riempie il cuore, sei fiero di te stesso, cresce la tua autostima e punti a traguardi più ambiziosi. È di questo che parlano Primo Levi nel racconto Ferro (Il sistema periodico), e Joseph Conrad in Gioventù. E voialtri, chiede il protagonista agli amici dopo avere rievocato le esperienze della giovinezza, voialtri che pur avete avuto qualcosa dalla vita, ditemi, non è in fondo solo questo che rimpiangete ora che siete anziani, l'occasione che aveste di provare il vostro valore?
    E invece il modello di vita che si è imposto nella nostra società, votato a un rapporto compulsivo con gli aggeggi tecnologici, ha eliminato del tutto il lato epico della vita e ridotto drasticamente le possibilità di fare esperienze di crescita, e allora il rischio andiamo a cercarlo nelle droghe, nell'alcol, nelle corse in macchina, nella violenza. Il rischio vai a cercarlo affinché torni ad accendere il tuo entusiasmo per la vita. Lo affronti per vivere più intensamente, non per morire. Vai a cercarlo quando senti che la tua vita si inviluppa su sé stessa. La eliminazione totale del rischio non è meno pericolosa del rischio stesso. Affrontato con consapevolezza, preparazione e disciplina, come fanno gli alpinisti, il rischio calcolato è fonte di conoscenza interiore, di rinnovata fiducia in sé stessi, nelle proprie capacità e possibilità. È un modo di mantenere alto il livello delle domande poste alla vita.
    Facciamo attenzione a come interpretiamo il mondo, perché il mondo è anche come noi lo interpretiamo. Chi è oggi che guarda il mondo al posto nostro e lo interpreta per noi, rimandandocene l'immagine desolante che ben conosciamo? L'anima, ci ha insegnato Hillman, è anche nel mondo, non solo nel soggetto (L'anima del mondo e il pensiero del cuore). Un mondo senz'anima non offre alcuna intimità, alcun dialogo, alcuna comunicazione.
    In un mondo senz'anima l'uomo è infinitamente solo. Ma quest'anima dobbiamo imparare ad attribuirla noi al mondo. Il quale poi ce la renderà nel momento del bisogno, come se la custodisse per noi. Il nostro modo di vedere utilitaristico non solo uccide le cose con il considerarle morte, ma imprigiona noi nell'angusta cella dell'Io. C'è bisogno di uno sguardo che sappia restituire profondità psichica al mondo. Non togliamola anche ai libri!

    Amare i libri

    Chi ama i libri non dimentica quelli che lo hanno accompagnato in momenti e situazioni particolari che hanno segnato la sua vita. E ogni volta che riprende in mano quel tal libro, le sue pagine si aprono con sorprendente freschezza sul ricordo di quei momenti, come se le emozioni si fossero conservate proprio grazie al loro essersi sposate per sempre a quel compagno d'avventure (Il magico mondo dei libri). La cosa più sorprendente che possa capitare di trovare fra le pagine diun libro è sé stessi, sé stessi così come non ci si conosceva, come forse non si sospettava nemmeno di essere. Se si trova questo, allora non si è perso tempo inutilmente nella lettura, e quello è sicuramente un buon libro. Giuseppe Pontiggia osserva che il senso più autentico di un libro non risiede in ciò che è, «ma in ciò che siamo noi dopo averlo letto. Il libro vive perché ci modifica» (Leggere). Il fine non è leggere a tutti i costi, ma sapere cosa farsene di questa attività. Leggere è un'arte che si apprende al pari dello scrivere. Non si legge solo per "passare il tempo" o per acquisire informazioni, ma per il piacere della scoperta, per essere trasportati con l'immaginazione in un altrove, nella possibilità di vite diverse. Si legge per trovare un significato alla propria vita. Si legge per abitare poeticamente il mondo, per non arrendersi a un universo fatto soltanto di efficienza e produttività (Michèle Petit, Elogio della lettura).
    Chi conosca il romanzo di Azar Nafisi, Leggere Lolita a Teheran, ha imparato cosa significhi la Lolita di Nabokov in quel contesto. Sotto una dittatura non si deve pensare con la propria testa e nemmeno immaginare che possano esistere realtà differenti dall'incubo collettivo che si è costretti a vivere. Ma non accade un po' così anche nelle nostre democrazie schiave del mercato? Senza libertà di immaginazione si manipolano meglio le persone. Allora i buoni libri diventano veicoli di libertà e di coraggio: libertà di inventare, di esprimersi, di pensare diversamente la propria vita. Le clórine che leggono finiscono col rifiutare di sposare uomini che non amano. Le donne che leggono cercano l'amore, perché nei libri hanno letto che esiste. Leggere può essere un atto altamente trasgressivo e sovversivo ín una società conformista come la nostra. Anche a trasgredire occorre imparare. Leggere, in ogni caso, è già un modo di uscire dal conformismo. Se le donne oggi sopravanzano gli uomini è forse anche perché negli ultimi centocinquant'anni hanno letto più di loro. Le donne contribuiscono a un diverso modo di vivere insieme, sicuramente più attento all'interiorità. Mentre nel rifiuto della scuola e dell'istruzione, della lettura e della cultura, i maschi irrobustiscono una corazza che confondono con la virilità, hanno bisogno di una identità a tutta prova, e hanno paura di metterla in discussione. Le donne tendono maggiormente a riflettere su sé stesse, sono generalmente più empatiche, più attente alle emozioni e ai sentimenti, più aperte al confronto delle esperienze di vita.

    Una mente androgina

    Alcuni psicologi sostengono che il maschio medio sia sempre un po' Asperger. Questo disturbo dello spettro autistico è in ogni caso dieci volte più comune tra i maschi che tra le femmine. Chi è affetto dalla sindrome di Asperger ha un'intelligenza particolare che lo porta a padroneggiare più facilmente dei "sistemi" spaziali dettagliati, piuttosto che a cogliere segnali sul piano sociale. "Sistematizzare", scrive Simon Baron-Cohen (Questione di cervello), significa avere l'inclinazione a comprendere e costruire un sistema. E con sistema non s'intende solo una macchina (utensile, strumento musicale, meccanismo a orologeria) o una struttura (casa, paese, codice giuridico), ma qualunque cosa sia governata da regole che comportino una relazione input-operazione-output. In base a tale definizione, sono sistemi la matematica, la fisica, la chimica, l'astronomia, la logica, la musica, la strategia militare, il clima, la navigazione, l'orticoltura, la programmazione di un computer, l'economia, le biblioteche, le industrie, la tassonomia, i giochi di simulazione, gli sport. Secondo questo psicologo, il cervello maschile sarebbe biologicamente "programmato" per la comprensione e l'elaborazione di sistemi, ma più chiuso nei confronti dell'altro. Mentre il cervello femminile sarebbe "programmato" per l'empatia e dunque più aperto alla comunicazione. Una differenza di cui sarebbe responsabile il livello di testosterone presente nel liquido amniotico. Le conclusioni che Baron-Cohen trae da queste osservazioni con riguardo alla scuola mi trovano perfettamente d'accordo. Gl'insegnanti dovrebbero pensare meno a favorire lo sviluppo della sistematizzazione nei maschi e lo sviluppo dell'empatia nelle femmine, quanto cercare semmai di potenziare le aree in cui ciascun sesso ha più bisogno di guida e sostegno. Oggi sappiamo che la biologia non è determinante in modo assoluto. E che il cervello umano può essere rimodellato dall'esperienza. L'empatia è una delle più valide risorse del nostro mondo. La sua erosione è una questione globale che riguarda la vita dell'umanità sulla Terra.
    Forse proprio perché scarsamente dotato di capacità empatica, il maschio medio sembra più propenso a considerare gli altri e il mondo sul piano di una strategia: di dominio, di sottomissione, di sfruttamento. Dunque come oggetti, mai come soggetti. Se da un lato è assai probabile che gli uomini non avrebbero potuto sopravvivere nella natura senza questa ragione strategica orientata all'esterno, non si può negare che essa abbia finito con l'estendersi al rapporto degli uomini fra di loro. Mentre è evidente che un approccio strategico finalizzato al dominio non è l'unico modo di relazionarsi, tantomeno il più indicato a salvaguardare l'esistenza dell'umanità in questo particolare momento della sua storia. Se questo atteggiamento è estraneo alle donne è perché la percezione della propria soggettività consentirebbe loro di cogliere anche l'altro come soggetto (Angela Giuffrída, La razionalità femminile unico antidoto alla guerra). Un superamento dell'atteggiamento aggressivo potrà prodursi solo all'interno di un cambiamento del modo maschile di intenzionare il mondo, vale a dire di un cambiamento del come l'uomo, il maschio, si atteggia nei confronti del mondo e degli altri. Ma non si dà empatia sul piano collettivo senza l'acquisizione della stessa sul piano del rapporto interindividuale, a due, che scaturisce a sua volta dalla conoscenza di sé. Ecco perché, a mio giudizio, la scuola dovrebbe indirizzare e interessare di più i maschi, ad esempio attraverso una diretta frequentazione dei grandi poeti e scrittori, ad ascoltare se stessi, a conoscere la propria interiorità, le proprie emozioni e sentimenti. Insomma, a prendere coscienza del lato femminile della propria mente. Sventuratamente, il modello culturale e socio-economico patriarcale-maschilista in cui viviamo tende a sviluppare anche nelle donne solo il lato maschile della loro mente e dunque a promuovere anche in loro un approccio esclusivamente strategico agli altri, riducendo due diversi modi di intenzionare il mondo, vale a dire di attribuirgli significati, a uno solo, quello maschile: un impoverimento assoluto, una perdita secca per l'intero genere umano.
    Un'etica del reincanto non potrà affermarsi veramente senza questa rivoluzione. Che è sempre individuale, personale. Che grande obiettivo sarebbe, a cui la scuola di ogni ordine e grado dovrebbe mirare, insegnando ai ragazzi ad amare la poesia e i poeti, a valorizzare la propria creatività anche in questa direzione e non soltanto in quella matematica, informatica o economica; ad ascoltare emozioni e sentimenti, a riconoscere che la mente di ciascuno non è una ma due, maschile e femminile insieme. Questo si chiamerebbe veramente educare, formare. Che grande scuola di autentica democrazia sarebbe allora! In caso contrario, una scuola di pura informazione sfornerà solo cervelli maschili per il mercato, che non si pone certo come fine il bene degli esseri umani, ma esclusivamente il profitto di qualcuno.

    L'arte di amare

    Se non favoriremo lo sviluppo di una mente androgina, maschile e femminile in ciascuno, non costruiremo mai un rapporto diverso, meno predatorio, degli uomini fra di loro e con l'ambiente, né matureremo un'autentica sensibilità per il rischio concreto e molto prossimo di una sua irrimediabile devastazione. Un uomo dalla mente androgina sarebbe più empatico, più aperto ai sentimenti e alla comunicazione, più capace di amare, a interpretare correttamente il rapporto d'amore, a non confonderlo con il possesso, il dominio o la brama sessuale. A non considerare la donna come un essere inferiore da sottomettere. Anche ad amare si deve imparare.
    A due millenni di distanza l'uno dall'altro, il poeta latino Ovidio e il sociologo tedesco Erich Fromm si chiesero se amare sia un'arte. Ed entrambi risposero affermativamente. Arnold Gehlen ci ha insegnato che l'uomo, paragonato all'animale, non sa fare bene niente per natura, ma deve imparare a fare ogni cosa, anche il genitore, anche ad amare (L'uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo). E impara imitando il comportamento degli altri in mezzo ai quali cresce. Nel Duecento e per diversi secoli si imparava dai poeti trovatori e dai romanzi di corte. Ancora oggi si può imparare dai grandi poeti e scrittori. Un più ricco lessico emozionale e sentimentale conferisce uno spessore assai diverso a una relazione amorosa. Le parole sono importanti in amore. Quando in una coppia il dialogo si riduce alla banalità dei problemi quotidiani o al modo di usare il cellulare, l'interesse reciproco finisce presto. Non avere parole equivale a non avere idee, a non avere argomenti, e allora la relazione si intristisce e si spegne. La maggior parte della gente, osserva Fromm, ritiene che amore significhi "essere amati", anziché amare; di conseguenza, per costoro il problema è come farsi amare, come rendersi amabili, e per raggiungere questo scopo seguono parecchie strade. Una, preferita soprattutto dagli uomini, consiste nell'avere successo, nell'essere ricchi e potenti. Un'altra, seguita particolarmente dalle donne, è di rendersi attraenti, coltivando la bellezza, il modo di vestire, ecc. Rainer Maria Rilke e Claudio Magris concordano circa il fatto che amare dev'essere l'occasione per generare l'uno per l'altro spazi di libertà e di crescita, non per erigere prigioni. Non prendiamo per amore il nostro egoismo, il nostro narcisismo. L'amore, da un certo punto di vista, è un processo particolare attraverso il quale una persona tenta di conoscere sé stessa più in profondità. L'altro di cui ci innamoriamo illumina aspetti inesplorati della nostra personalità. Si tratta dunque di una grande esperienza di arricchimento. Come ha detto meravigliosamente Simone de Beauvoir, «non si può capire la delicatezza delle donne, la loro sensibilità, il loro ardore senza farsi un'anima delicata, sensibile, ardente; i sentimenti femminili creano un mondo di sfumature, di esigenze la cui scoperta arricchisce l'amante» (Il secondo sesso). È questo l'amore che trasforma la vita. 

    Per approfondire suggeriamo alcuni testi che Alberto Meschiari ha pubblicato con Tassinari: Il libriccino del silenzio (2012), Sul dialogo (2014), Filosofia del camminare (2014), L'arte di amare (2016), Il magico mondo dei libri (2017).

    Festival della Cultura Umanistica di Figline Valdarno nel maggio 2022

    FEERIA, 2023/2 — n. 64 - pp. 7-12


    T e r z a
    p a g i n A


    NOVITÀ 2025


    Incontrare Gesù
    nel Vangelo di Giovanni
    Marta e Maria


    I sensi come
    vie di senso nella vita
    I cinque sensi


    Noi crediamo
    Ereditare oggi la novità cristiana
    Nicea


    Playlist generazioneZ
    I ragazzi e la loro musica
    Nicea


    Pellegrini con arte
    Giubileo, arte, letteratura


    Ragazzi e adulti
    pellegrini sulla terra


    PROSEGUE DAL 2024


    Saper essere
    Competenze trasversali


    L'umano
    nella letteratura


    I sogni dei giovani x
    una Chiesa sinodale


    Strumenti e metodi
    per formare ancora


    Per una
    "buona" politica


    Sport e
    vita cristiana


    A TERMINE DAL 2023


    Abitare la Parola
    Incontrare Gesù


    Dove incontrare
    oggi il Signore


    PG: apprendistato
    alla vita cristiana


    Passeggiate nel
    mondo contemporaneo
     


    NOVITÀ ON LINE


    Vent'anni di vantaggio
    Universitari in ricerca


    Storie di volontari
    A cura del SxS


    Voci dal
    mondo interiore
    A cura dei giovani MGS


    Un "canone" letterario
    per i giovani oggi


    Sguardi in sala
    Tra cinema e teatro

    A cura del CGS


    Recensioni  
    e SEGNALAZIONI

    Main Menu