Carlo Nanni
(NPG 1999-08-03)
1. «Pogare»…: Questo vocabolo che ho letto, per la prima volta, su un quotidiano, qualche mese fa, mi ha incuriosito. Il giornalista ne dà questa definizione: «spingersi l’uno contro l’altro sempre più freneticamente», quando di notte, nella dance-hall, strapiena di ragazzi e ragazze, si mette sul piatto un disco frenetico.
Questo pogare da matti è solo sfogo? E se lo è, di che? È voglia di sentirsi uniti, di fondersi, di perdersi uscendo dalla propria individualità? O, all’opposto, di farsi sentire e di sentire «a pelle», a contatto fisico, magari per sentirsi, per dire «esperienzialmente»: «sono, e sono con gli altri»?
O che altro?
E i «writers» sono solo degli imbratta muri, pareti, bus, treni, o cercano un modo di essere, quasi un «ostendo, ergo sum»? (= mostro qualcosa e quindi esisto!).
E i tatuaggi o il «piercing»?
Tali fenomeni sono senza relazione? Possono essere espressione di una ricerca di identità altrimenti non facile o addirittura un inventare un futuro, dato che non se ne vede uno chiaro e roseo?
2. Un’inchiesta, fatta svolgere dal poliedrico «Premio Grinzane Cavour», ha raggiunto giovani di Roma, Parigi, Londra, Lussemburgo, Lisbona e Madrid, per conoscere come spendono il tempo libero: il 74% ascolta musica; il 61% incontra amici ed amiche; il 49% guarda la televisione; il 39% pratica sport; il 37% parla al telefono con amici e amiche; il 30% va al cinema; il 29% legge libri.
Ma quando si chiede cosa si sogna, il 90% apprezzerebbe molto (57%) o abbastanza (33%) di andare al cinema.
C’è divario tra quanto si pratica e quanto si sogna (ad esempio per il cinema)? È solo questione di soldi, che non permettono di «scialare» troppo, quando si dipende dalla «paghetta» di mamma e papà? O si tratta semplicemente di altra cosa? Magari, al cinema si va quando si vuole star soli con la ragazza o con il ragazzo o con pochi altri amici? E quindi perché c’è uno stare insieme differenziato, uno più pubblico ed uno più privato, uno più ordinato ed uno più disordinato: in termini classici: uno più apollineo (= armonico, lieve, soffice) ed uno più dionisiaco (= più sfrenato, incomposto, forte, quasi aggressivo).
Lo si può pensare?
3. Vorrei subito notare che i dati sono riferiti a giovani di ambo i sessi della nostra Europa comunitaria e di vissuti urbani (anzi, nella inchiesta citata, di giovani di città capitali).
È quindi corretto avere il senso del limite di essi.
Chissà se le cose starebbero allo stesso modo se si intervistassero giovani di altre nazioni, non della comunità europea, oppure giovani della provincia, degli ambienti rurali? E se fossero giovani operai invece che studenti?
O si tratta di modelli che la crescente globalizzazione della vita socio-economica induce un po’ dovunque, oltre e al di là delle diversità locali o di status socio-economico?
Faccio queste osservazioni perché a me pare che non si tiene troppo conto delle differenziazioni giovanili nelle inchieste ufficiali. Mentre una pastorale giovanile dovrebbe poter raggiungere veramente tutti: quelli della città e quelli della provincia, quelli che studiano e quelli che lavorano, quelli delle zone urbane e quelli dei paesi. Per quel poco che è di mia diretta esperienza, mi viene da dire che le differenze esistono... e come! Ci sono alberi, arbusti, cespugli, erbe e sviluppi intricati in quello che a prima vista e da lontano sembra un grande bosco.
4. Un rapporto poco conosciuto, diretto da Jean-Louis Reiffers, si intitola: «Compiere l’Europa attraverso l’istruzione e la formazione». Non è un documento ufficiale, ma piuttosto un approfondimento delle tematiche del cosiddetto Libro Bianco edito da E. Cresson («Insegnare e apprendere. Verso una società conoscitiva»).
I cinque obiettivi generali proposti dal Libro Bianco sono:
- incoraggiare l’acquisizione di nuove conoscenze;
- avvicinare la scuola all’impresa;
- lottare contro l’esclusione;
- promuovere la conoscenza di tre lingue comunitarie;
- porre su un piano di parità gli investimenti materiali e quelli per la formazione.
Il rapporto Reiffers va oltre e chiede alla politica europea «la necessità di rispettare i fondamenti dell’azione educativa, la quale mira a coltivare ambizioni che vanno al di là di una prospettiva utilitaristica», e più oltre di «cancellare ogni immagine stereotipata degli esseri umani»; e verso la fine chiede che la scuola debba «consentire la possibilità di realizzarsi come persona, di raggiungere i più alti livelli di istruzione richiesti dal nuovo scenario competitivo e offrire a tutti i mezzi per inserirsi nella società».
5. Ho presentato questi dati e queste richieste, pensando a quello che mi pare debba essere una «caratteristica di ruolo» dell’animatore o dell’animatrice, che spesso sono chiamati a «far professione di contrari», per dirla con Pascal, vale a dire a cercare di mettere degli «et et» dove altri metterebbero degli «aut aut». Trovare i «fili di Arianna» che permettono di collegare tempo libero e tempo del lavoro, tempo di gioco e tempo di scuola, intimità ed esteriorità, intuizione ed espressività, essere sé ed essere con gli altri, essere insieme e d’altra parte essere soli con se stessi: non è facile per nessuno.
E tuttavia l’arte difficile dell’educare animando, non è forse anche un dare un contributo per inventare il futuro delle persone, per cercare nuovi modi di fare storia, per cercare nuovi modelli di cultura e fors’anche per trovare nuove forme per «riscrivere il Vangelo» nella novità del tempo, nella differenza delle persone e dei momenti vitali di ciascuna di esse e di tutti insieme?
Non sarà questo anche un messaggio che certe manifestazioni adolescenziali o giovanili insinuano a noi adulti, alla nostra cultura codificata, al nostro modo di vivere, di scandire i tempi e le stagioni?