Luis A. Gallo
(NPG 1999-08-46)
Il Padre celeste, di cui Gesù è assoluta trasparenza, vuole che noi siamo come Lui, capaci di perdonare coloro che ci fanno del male. Vuole cioè che il nostro amore verso gli altri sia, come il suo, così gratuito e inalterabile che non si tira mai indietro malgrado tutte le resistenze e opposizioni.
Gesù si rifà al modo di comportarsi del Padre
Il vangelo di Matteo riporta un dialogo estremamente conciso di Gesù con Pietro. Lo colloca nella cornice di una serie di orientamenti dati dal Maestro in ordine alla vita della comunità dei suoi discepoli:
«Pietro gli si avvicinò e gli disse: ‘Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?’. E Gesù gli rispose: ‘Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette’» (Mt 18,21-22).
È interessante il contrasto tra la domanda di Pietro, che esprime una concezione già secondo lui sproporzionatamente generosa del perdono stando alla mentalità corrente nel popolo – «fino a sette volte!» –, e la risposta di Gesù, che lo lascia letteralmente spiazzato: settanta volte sette è un numero simbolico per indicare la mancanza di limiti nel perdonare. Equivale a dire: sempre!
È noto quanto i rapporti tra le persone e i gruppi fossero imperniati sulla simmetria nell’antichità: nessun male ricevuto poteva restare impunito, ma doveva essere «appositamente» vendicato. Solo questa «giustizia» poteva rimettere le cose a posto. Nei tempi antichissimi, come attesta la Bibbia, la legge della vendetta era perfino affidata ufficialmente ad un membro del clan familiare, chiamato perciò il «vindice o vendicatore del sangue» (Nm 35,12.19; 21.24.25.27; Dt 19,6.12; Sal 9,13…). Il violento cantico di uno dei discendenti di Caino, Lamec, nelle prime pagine della Scrittura, è una testimonianza di un tale regime di vendetta:
«Lamech disse alle mogli: ‘Ada e Zilla, ascoltate la mia voce; mogli di Lamech, porgete l’orecchio al mio dire: Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette’» (Gen 4,21-22).
Più tardi, maturando nel tempo, questo brutale regime di vendetta venne addolcito mediante la cosiddetta legge del taglione: non più vita per una scalfittura o per un livido, ma solo «occhio per occhio, e dente per dente» (Es 21,24; Lv 24,19-20; Dt 19,21).
Gesù, invece, con un coraggio e una determinazione che destano stupore, propose un altro criterio di reazione davanti al male ricevuto, quello del perdono dei nemici. Un criterio che andava certamente contro corrente, allora, in un mondo abituato a tutt’altro modo di fare. Infatti, nel suo discorso della montagna egli disse:
«Avete inteso che fu detto: ‘Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico’; ma io vi dico: ‘Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori’» (Mt 5,43-44).
Va notato che questa sconvolgente indicazione di un atteggiamento totalmente asimmetrico, che non ripaga male per male, ma viceversa bene per male, è fondata da Gesù nel modo di comportarsi di Dio stesso.
Continua, infatti, il discorso iniziato sul tema, con queste importantissime parole:
«perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti […]. Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,45.48).
Ancora una volta egli rivela il volto del Padre, un volto che mette a soqquadro il modo corrente e scontato di delinearlo nella religione del tempo.
Il Padre, modello supremo di un amore che sa vincere il male con il bene, vuole che anche i suoi figli siano perfetti come Lui è perfetto. Una perfezione che consiste concretamente, come si vede, nella capacità di agire asimmetricamente davanti al male ricevuto: non reagendo in maniera vendicativa, come spontaneamente si è portati a fare, ma nell’amare coloro che fanno del male, ossia nel continuare, malgrado tutto, a volere sempre e instancabilmente il loro bene.
A conferma di questa proposta Gesù raccontò una parabola che illustra in maniera molto chiara il suo pensiero:
«Il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. Incominciati i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti.
Non avendo però costui il denaro da restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, e saldasse così il debito. Allora quel servo, gettatosi a terra, lo supplicava: ‘Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa’. Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito, quel servo trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari e, afferratolo, lo soffocava e diceva: ‘Paga quel che devi!’. Il suo compagno, gettatosi a terra, lo supplicava dicendo: ‘Abbi pazienza con me e ti rifonderò il debito’. Ma egli non volle esaudirlo, andò e lo fece gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito. Visto quel che accadeva, gli altri servi furono addolorati e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto.
Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: ‘Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato. Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?’. E, sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello» (Mt 18,23-35).
Come in ogni parabola, anche in questa è chiara l’intenzione pedagogica. Al di là dei dettagli, essa vuole portare gli uditori ad una conclusione operativa molto concreta, quella di perdonare di cuore il proprio fratello. Il ragionamento sottostante è chiaro: se Dio perdona i grossi debiti contratti con Lui a causa dei peccati – diecimila talenti è una cifra astronomica! –, tanto più occorre saper perdonare i piccoli debiti – cento denari è una cifra trascurabile – dei fratelli che ci offendono o ci fanno del male.
Non si tratta, ovviamente, di misconoscere il male fatto, di ignorarlo o dissimularlo. Il male è sempre male, e in quanto tale va sempre aborrito e detestato. Si tratta di saper distinguere tra il male fatto da una persona, e la persona che fa il male.
Mentre il primo è sempre oggetto di rifiuto e di condanna, perché l’uomo è fatto per il bene, la persona che fa il male è e rimane invece sempre oggetto di amore, proprio perché è persona. Non certo oggetto di compiacenza, perché ciò che fa non ne è degno, ma oggetto di benevolenza. Il perdono, così inteso, è un’espressione di quell’amore che nei testi del Nuovo Testamento viene chiamato «agàpe», ossia volontà di bene, gratuita e immutabile, per l’altro. Un amore il cui modello supremo è Dio stesso, secondo quella specie di definizione che ne dà la prima Lettera di Giovani: «Dio è amore (agàpe)» (1 Gv 4,8.16).
Quando Gesù insegnò ai discepoli la preghiera che in qualche maniera concentrava tutto il suo modo di pensare e di rapportarsi con Dio, il «Padre nostro», incluse verso la fine una supplica che ha a che fare proprio con questa tematica: «Perdona i nostri debiti, come noi perdoniamo i nostri debitori» (Mt 6,12). È come un’eco della parabola poco prima citata.
Con la sua condotta Gesù conferma il suo insegnamento
Alcune altre frasi dette da Gesù sull’argomento chiariscono ancora maggiormente il suo pensiero. Soprattutto una, che ha del paradossale:
«Avete inteso che fu detto: ‘Occhio per occhio e dente per dente’; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello» (Mt 5,38-40).
Queste sue parole, come diverse altre, non vanno prese alla lettera, ma secondo lo spirito che le riempie: uno spirito di non-violenza, di superamento di ogni desiderio di vendetta, di reale giustizia, proprio perché va al di là dell’apparente equilibrio ristabilito dalla vendetta. Che le sue parole non debbano essere prese alla lettera, lo dimostra il suo stesso modo di comportarsi nel processo giudiziale che lo portò alla morte. Racconta infatti Giovanni che, ad un certo punto, Gesù diede una risposta piuttosto renitente al sommo sacerdote che lo interrogava sui suoi discepoli e sulla sua dottrina. In quel momento, una delle guardie presenti si credette in diritto di dare uno schiaffo a Gesù e di dirgli: ‘Così rispondi al sommo sacerdote?’. Ma Gesù non gli porse l’altra guancia, come avrebbe richiesto la lettera delle parole sopra riportate, ma gli rispose: ‘Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?’ (Gv 18,22-23). La fermezza con cui reagì davanti al male inflittogli non disdiceva affatto il perdono da lui proclamato. Ma fu soprattutto sul patibolo che egli visse in prima persona ciò che aveva proposto come linea di condotta. Nel vangelo di Luca si legge questo particolare, non evidenziato dagli altri evangelisti:
«Quando giunsero al luogo detto Cranio, là crocifissero lui e i due malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra. Gesù diceva: ‘Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno’ (Lc 23,33-34).
Lo stanno ammazzando ingiustamente con una morte infamante che si infliggeva solo agli schiavi, ed egli trova la forza di chiedere il perdono di Dio per i suoi assassini.
Non invoca lo scatenarsi dell’ira divina che annienti i suoi aguzzini, ma al contrario li avvolge con il suo amore, cercando di «sgravare» la loro colpa e pregando per loro. «Amate i vostri nemici, pregate per i vostri persecutori», aveva detto nel discorso della montagna (Mt 5,44), e arrivato il momento di farlo, egli lo mise eroicamente in pratica.
Da chi aveva imparato questo modo di agire se non dal suo Padre celeste, il quale «fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» (Mt 5,45)?